Di palazzi, piazze e arrocchi

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Ringrazio Orazio Martinetti che, in un articolo pubblicato su naufraghi il 22 giugno scorso, ha commentato il documento elaborato alcune settimane fa dall’MPS, cercando di chiarire alcuni punti al centro del dibattito.
Se la sua lettura dell’evoluzione del PS e dell’MPS appare nel complesso corretta, ritengo che su alcune questioni di fondo la sua analisi risulti meno centrata.
Mi riferisco in particolare al modo in cui riassume i termini del confronto che l’MPS avrebbe posto al PS. Scrive Martinetti: “Non è la prima volta che l’MPS incalza il PS, chiedendogli di mutare rotta. Accadde anche alla vigilia delle elezioni del 2023. Allora la richiesta fu di rompere con il ‘paradigma consociativo’, in parole povere di uscire dall’esecutivo e di partecipare alla costruzione di un largo fronte antagonista. Oggi la posizione è più morbida e conciliante: il PS può anche rimanere in Consiglio di Stato, a condizione però che eserciti ‘un’opposizione chiara, pubblica e determinata”.
In realtà, il tema della presenza in un governo eletto con sistema proporzionale – come quello che conosciamo da tempo – non è più al centro del dibattito. Nel 2023 l’MPS non chiese al PS di “uscire dall’esecutivo”: sarebbe stato paradossale, visto che la proposta avanzata in quell’occasione a Verdi e PS era quella di costituire una lista unica, sia per il Consiglio di Stato che per il Gran Consiglio. Proposta, va ricordato, che fu rifiutata da PS e Verdi.
La discussione, dunque, non riguarda la presenza nel governo, ma i contenuti di tale presenza, ovvero la politica che gli eletti di sinistra vi portano e difendono.
Sorprende che uno storico attento come Martinetti sembri ancora ancorato alla presunta alternativa tra “palazzo” e “piazza”, una dicotomia che – nella storia del movimento operaio – risulta superata da almeno più di un secolo.
Mai, infatti, il confronto tra le due grandi famiglie della sinistra – quella socialdemocratica (nella sua variante storica) e quella comunista (nella variante rivoluzionaria, non stalinista) – si è incentrato sulla contrapposizione tra strumenti istituzionali e mobilitazione di piazza.
Non è tra “palazzo” e “piazza” che si gioca la partita decisiva. La vera alternativa è tra una politica concertativa – fondata su mediazione, collaborazione e compatibilità con l’ordine esistente – e una politica di classe, basata su una rappresentanza indipendente e conflittuale, a tutti i livelli, degli interessi sociali delle classi subalterne.
L’immagine degli scacchi è suggestiva ma fuorviante: la politica non è solo tattica, previsione e astuzia, né un gioco a somma zero tra élite che si contendono spazi di potere sullo stesso campo. È – o dovrebbe essere – conflitto tra interessi divergenti.
È in questa direzione che si colloca il documento del Movimento per il Socialismo (“Per un fronte di opposizione sociale e politica”), il quale non si limita a offrire una “mappa” – come giustamente riconosciuto – ma propone un cambio di paradigma: uscire dalla gabbia concertativa per costruire una rappresentanza alternativa, autonoma dai poteri costituiti e radicata nei movimenti sociali.

La crisi sociale e la risposta delle istituzioni

Martinetti riconosce con lucidità l’esistenza di una “policrisi” – ambientale, economica, sanitaria, geopolitica – ma continua ad attribuire un ruolo centrale alle istituzioni come luogo di soluzione.
Peccato che, sempre più spesso, le istituzioni facciano parte del problema: è in nome della “sostenibilità finanziaria” e del “pareggio di bilancio” che si taglia nella sanità, si indebolisce la scuola pubblica, si mettono in discussione salari e pensioni di dipendenti pubblici e privati.
Lo sviluppo del capitalismo, così come si è affermato, è giunto a uno stadio autodistruttivo, preda di una concorrenza sempre più esasperata, che non lascia margini materiali per rispondere alle esigenze delle classi subalterne.
In questo contesto, parlare di “difendere dall’interno” i ceti popolari suona sempre più come una formula vuota.
È proprio questa politica di concertazione – un tempo si sarebbe parlato di “collaborazione di classe” – ad aver disarmato la sinistra, riducendola alla gestione dell’esistente, cieca di fronte alle dinamiche di impoverimento, precarizzazione e disuguaglianza che attraversano il Paese.
Anche in prospettiva storica, tutto ciò è evidente. Le “riforme” degli ultimi 30-40 anni, a livello sia cantonale sia federale, sono state quasi sempre “controriforme”, ossia revisioni al ribasso dei progressi sociali permessi, in passato, dallo sviluppo economico del dopoguerra e dagli ampi margini di profitto. Allora, un po’ di ricchezza “sgocciolava” verso il basso. Oggi, sta accadendo l’esatto contrario.

Sconfitta nelle urne e possibilità nelle piazze

L’articolo di Martinetti sottolinea giustamente il ridimensionamento elettorale delle forze progressiste, ma sembra non coglierne fino in fondo le cause. Questo indebolimento è la conseguenza diretta dell’allontanamento dai settori sociali che un tempo costituivano la base materiale della sinistra.
Il documento dell’MPS invita il PS – con toni costruttivi, non ultimativi – ad assumere una posizione di opposizione chiara, pubblica e determinata. Un’opposizione a tutto campo, che non può certo limitarsi al Parlamento cantonale, ma che deve riguardare anche la partecipazione al governo e agli esecutivi e legislativi comunali, a cominciare dai maggiori centri del Cantone.
Non si tratta di moralismi o nostalgie ideologiche, ma della consapevolezza che oggi non è più possibile rappresentare interessi contrapposti senza tradirne almeno uno.
Insistere sulla necessità di “stare al governo per incidere” è una retorica logora. Oggi incide davvero chi dà voce e organizzazione al disagio sociale, chi mobilita, non chi media.
E questo può avvenire solo uscendo dalla logica del perimetro istituzionale e costruendo un campo alternativo: non “radicale” per feticismo ideologico, ma perché è la realtà stessa a imporlo.

Un programma (e un linguaggio) inadeguati ai tempi

Il richiamo al programma “social-liberale” del PS è emblematico: si rivendica spazio per “posizioni moderate” e per il “dialogo al centro”. Ma con chi? E a quale prezzo?
Le “posizioni moderate” finiscono per legittimare un ordine sociale che ogni giorno produce esclusione, solitudine e impoverimento.
Il “linguaggio del possibile”, se scollegato da un’analisi realistica dei rapporti di forza, finisce per giustificare l’inerzia.
Che senso ha, allora, richiamarsi a obiettivi come il “superamento del capitalismo” o l’“abolizione dell’esercito”, se poi si rifiuta di adottare una pratica coerente con tali finalità?
Il problema non è l’utopia, ma l’incoerenza. O si aggiornano le parole ai comportamenti, o si aggiornano i comportamenti alle parole. Tutto il resto è solo gestione del declino.

L’arrocco, ad esempio

La discussione attorno alla cosiddetta “vicenda dell’arrocco” è la testimonianza di questa profonda contraddizione, anche se si potrebbero citare altri episodi rilevanti (si pensi, ad esempio, alla questione del PSE a Lugano: dall’appoggio convinto del 2021 ai dubbi espressi nelle ultime settimane).
La gestione dell’arrocco – dai primi dubbi alla decisione di sostenere a maggioranza la proposta di una seduta straordinaria del Legislativo cantonale – mostra la persistenza dell’idea che il perimetro fondamentale dell’azione politica (e della possibilità di incidere sulla realtà sociale) sia quello istituzionale, in particolare l’esecutivo cantonale o quelli dei principali comuni.
L’obiettivo diventa quindi “la difesa delle istituzioni” e il sostegno al “movimento” che si presume venga attuato dal proprio rappresentante all’interno di queste istituzioni per “conquistare” spazi a una politica “progressista”.
Da qui la difesa degli atteggiamenti “tattici”, dei “silenzi”, della logica consociativa emersa chiaramente nelle ultime settimane.
Ma non è certo una novità: su temi ben più decisivi si è osservato lo stesso atteggiamento. Basterebbe ricordare che gli ultimi due Preventivi cantonali, tra i peggiori dal punto di vista politico (tagli ai sussidi di cassa malati, ai salari pubblici, agli istituti sociali e alla scuola), sono stati presentati da un esecutivo unanime e frutto di un accordo politico.
È a tutto ciò che facciamo riferimento parlando della necessità di un “cambiamento di paradigma”. Pensiamo che tutto questo abbia favorito la crescita della destra (che, non a caso, riesce a far breccia nei ceti popolari in Ticino, in Svizzera e a livello internazionale), e che per contrastarla sia indispensabile una svolta.
La politica dei “due forni” – governo e opposizione – non può che rafforzare la destra, estrema o moderata che sia. Emblematico, a questo proposito, è il ruolo svolto in Ticino da Fiorenzo Dadò, presidente del Centro, con intelligente spregiudicatezza.
La proposta che avanziamo – la costruzione di un blocco politico e sociale alternativo – è complessa, da inquadrare in una prospettiva di medio-lungo periodo, e non riducibile, come alcuni vorrebbero, a una mera proposta elettorale.
Richiede anche un mutamento di paradigma e di priorità nell’impegno politico e militante. In questo senso, è evidente che senza una profonda revisione delle pratiche e delle politiche sindacali – oggi ancora dominate da logiche concertative – sarà difficile progredire (senza lasciarsi ingannare dal divario tra il “sindacalismo proclamato” e quello realmente praticato sul terreno quotidiano).
È una via impervia, esigente, difficile e incerta. Ma ci pare l’unica davvero realistica.

*articolo apparso su naufraghi il 21 luglio 2025.

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