Se qualcuno si aspettava che davanti alla straordinaria disponibilità alla mobilitazione testimoniata dal crescendo di iniziative di questi ultimi due mesi, passando per il riuscito sciopero sociale del 14 novembre, la Cgil traesse linfa vitale per rilanciare il conflitto dovrà ricredersi.
La risposta del palazzo sindacale al protagonismo crescente di giovani, precari, operai è la chiusura a riccio, è lo sciopero slittato al 12 dicembre, celebrazione post cancellazione statuto dei diritti dei lavoratori, è l’inedita unità con la Uil di Barbagallo sancita in un incontro di vertice, non certo nelle lotte sociali. Uno più uno in matematica fa due, su questo neanche il modello derogatorio del 10 gennaio può far nulla, ma in politica e sul terreno sociale la somma potrebbe essere anche zero.
La Cgil poteva imboccare due strade, tra loro alternative. Una è quella che chiama alla necessità di dare continuità alle lotte, di diventare punto di riferimento per la ricostruzione di un conflitto sociale di lungo periodo con l’obbiettivo concreto di determinare davvero l’agenda politica e sociale del paese. Portando sino in fondo la rottura con il Pd e la divaricazione con Cisl-Uil e mettendo a valore le lotte dei metalmeccanici, lo sciopero sociale e le potenzialità che quell’esperienza ha reso evidente a tutti. Una strada che imponeva una pratica coerente e conseguente sul terreno contrattuale come unificazione delle mille vertenze, dalle acciaierie di Terni alla Titan di bologna, al teatro dell’opera, alla Farmacap di Roma, che vedono decine di migliaia di uomini e di donne di questo paese resistere alla cancellazione di diritti, salario ed ai licenziamenti. La Cgil ha imboccato un’altra strada, quella delle mobilitazioni come minimo sindacale, come atto di formale contrarietà alle scelte di Renzi oltre le quali però non si va. Lo avevamo detto sin dall’inizio di questo autunno: se non si fa sul serio la lotta contro il governo sarà la debacle per la Cgil. Ha prevalso la paura di un conflitto generale difficilmente controllabile, la paura di perdere ogni rapporto con le elites di governo. In sostanza la paura di fare i conti davvero con la propria irrilevanza, di doversi misurare con l’incompatibilità di una linea e di una pratica sindacale che non sia complice e subalterna. La paura di perdere ogni piccolo residuo spazio di legittimazione istituzionale, di perdere l’internità nelle stanze del sottogoverno, nei corridoi ministeriali. Il corpaccio della Cgil e le sue categorie hanno scelto l’unità con Cisl e Uil. L’uno due, sciopero con Uil il 12 e l’accordo taglia salari al teatro dell’opera di Roma, è pesantissimo. La Cgil con questa scelta conclude ,purtroppo prima ancora di aprirla, la sua fase di mobilitazione, il suo declamato riposizionamento politico rispetto al partito democratico e al governo. Avevamo ragione, ma ci piacerebbe cominciare ad avere torto, quando nel direttivo della Cgil abbiamo denunciato i limiti, di merito e di metodo, del percorso che la segretaria generale Camusso ha proposto contro il Jobs Act. Solo la Fiom ha scioperato davvero, le altre categorie hanno assistito passivamente nascondendosi dietro l’unità con Cisl e Uil. Per questa ragione non bisognava accontentarsi, come pure ha fatto Landini, della semplice proclamazione dello sciopero generale, importantissima certo, ma inutile e dannosa se giocata per chiudere una fase anziché aprirla, per spargere rassegnazione e disorientamento anziché incendiare il conflitto. Cosi si va alla sconfitta formale del sindacato. Renzi potrà vantare di avere piegato la Cgil imponendo a colpi di fiducia e con la vergognosa complicità della sinistra Pd, zeppa di ex sindacalisti, il suo Jobs Act. Noi vogliamo continuare a lottare contro Renzi e la sua politica criminale. Vogliamo farlo insieme e con tutti e tutte coloro che hanno preparato lo sciopero sociale del 14 novembre, con i metalmeccanici che domani 21 a Napoli manifesteranno.