È proprio un buontempone il capo del DECS, Manuele Bertoli. In occasione della conferenza stampa di inizio anno, parlando della riforma denominata la scuola che verrà (la cui prima fase di consultazione dovrebbe essersi chiusa proprio a fine agosto), ci ha fatto capire che in realtà non si farà alcuna riforma: era tutto uno scherzo, una specie di esercitazione di prova, come quelle che si fanno a militare.
Manuele Bertoli ha certo ribadito l’importanza di questa grande riforma della scuola (che dovrebbe vedere pubblicata nella prossima primavera, una versione più precisa e concreta del progetto), ma ha anche aggiunto che di spazio finanziario per fare delle riforme non ce n’è (ha aggiunto, bontà sua, che non vi sono soldi a disposizione per il suo dipartimento e nemmeno per gli altri).
Naturalmente discutere sulla scuola, delle sue finalità, di come andrebbe migliorata perché possa contribuire a raggiungere una serie di obiettivi importanti (inclusività ed equità viene detto) è sempre di per sé un esercizio positivo, anche quando la possibilità di realizzare delle riforme appare lontana. Questo poiché non crediamo, contrariamente a quanto ebbe modo di affermare una volta Pietro Martinelli, che le riforme migliori siano quelle che hanno qualche chance di essere accolte da una maggioranza. Non si può quindi rimproverare a Bertoli di aver lanciato questo dibattito (al di là dei contenuti posti da questo dibattito, sui quali abbiamo comunque alcune riserve – a cominciare da una scuola sempre più orientata sul concetto di competenza: tema di discussione che tuttavia esula da questo nostro commento). No, a Bertoli questo non lo si può rimproverare. Gli si possono invece rimproverare almeno altre due cose che rendono assai fragile la credibilità sua e della “riforma” che ha lanciato.
La prima è di non aver lanciato questo dibattito ponendo allo stesso tempo il tema della necessità di obiettivi finanziari diversi da quelli dominanti, in modo da rendere in qualche modo credibile la possibilità, seppur remota, di una realizzazione di questo progetto di riforma della scuola. Sappiamo che su questo punto regna la cosiddetta teoria dei due tempi: prima il progetto, poi la sua concretizzazione. Ma per fare in modo che il progetto assuma qualche credibilità agli occhi dei docenti (e delle famiglie, anche se mi pare decisivo il convincimento dei docenti, chiamati a realizzare il progetto) i due momenti non possono essere separati. La scuola che verrà potrà diventare un progetto credibile solo se chi lo propone, a cominciare dal capo del dipartimento, affermasse fin dall’inizio che la realizzazione di questo progetto è in netto contrasto con gli orientamenti prevalenti oggi in governo e in Parlamento. Sarebbe necessario affermare che la realizzazione di questo progetto è oggi in netta contraddizione con il principio del freno ai disavanzi, vero e proprio strumento di pressione sulla spesa pubblica; sarebbe necessario affermare che la realizzazione di questo progetto è in contraddizione con le strutture materiali della scuola (a cominciare da buona parte degli stessi fabbricati scolastici) che necessiterebbero una politica di investimenti da far impallidire persino il “neo-marshalliano” Cattaneo (e non servono certo investimenti per la fibra ottica: di computer nelle nostre scuole ce ne sono fin troppi…). In poche parole la battaglia per un’altra scuola non potrà essere separata da una battaglia contro le logiche finanziarie dominanti. E su questo punto sarebbe necessaria, sempre nell’ottica di una qualche credibilità, che Bertoli rivedesse il suo punto di vista di seguace della logica del freno all’indebitamento (ricordiamo che sia lui che il suo partito hanno condiviso il principio dell’introduzione di questo meccanismo, anche se avevano proposto una variante della sua realizzazione diversa da quella approvata da Parlamento e popolo in votazione). E, soprattutto, che cominciasse a rifiutare di concorrere all’applicazione di questo meccanismo…
Ma un secondo rimprovero che si può fare a Bertoli (partendo dal presupposto che egli sia veramente e sinceramente convinto del suo progetto) è di avere creato ormai una sorta di fossato tra il DECS, le sue istanze direttive e il grosso dei docenti, soprattutto in quei settori più attenti e pronti a battersi per la politica scolastica, pronti a mobilitarsi.
Questi docenti si sentono abbandonati dal loro dipartimento, dal loro capo, in particolare in questi anni caratterizzati da continui attacchi a funzionari cantonali e ai docenti. In questi frangenti Bertoli si è limitato, quando l’ha fatto, a dimostrare “comprensione” nei confronti dei docenti, un po’ come un simpatico zio nei confronti di un nipote un po’ discolo. Mai vi è stato, come ci si potrebbe attendere da un ministro socialista, un chiaro atteggiamento a sostegno delle loro rivendicazioni, alle richieste relative alle condizioni di lavoro, di opposizione ai nuovi tagli previsti, come quelli del preventivo 2016.
Il sostegno ai docenti non è una questione “etica” o di “strategia elettorale”. È un’esigenza fondamentale per fare in modo che i docenti prendano sul serio, se ancora sarà possibile, le proposte di riforma avanzate dal dipartimento.
In altre parole, la questione che Bertoli si dovrebbe porre è la seguente: con chi costruire un’alleanza sociale e politica così forte da riuscire a dare concretezza la suo progetto di riforma una volta messo a punto? A noi pare evidente che il soggetto principale di questa alleanza possono essere solo i docenti, sulla base delle loro rivendicazioni e della loro volontà di reale partecipazione a questo progetto. Ma per guadagnare la fiducia dei docenti e costruire questa alleanza Bertoli dovrebbe modificare orientamenti e modo di essere fuori e dentro il governo nel senso indicato qui sopra.
Certo, si può sempre pensare (e sappiamo che il consigliere di Stato social-liberale lo ripete spesso) che è in seno al governo (o in Parlamento) che si possono costruire alleanze sulla base di compromessi con gli altri partiti. Ma, almeno finora, ogni volta che ci si è avventurati su questo terreno in materia di cambiamenti nella scuola, i risultati sono stati penosi. Basti pensare all’unica vera proposta di riforma, seppur piccola, avanzata dal DECS e dal governo: la diminuzione del numero di allievi per classe da 25 a 22 per una parte degli ordini della scuola obbligatoria. Fucilata! E Bertoli pensa sul serio di ottenere un “compromesso” su una riforma che viene presentata come una trasformazione radicale in senso democratico e sociale della scuola ticinese?
A meno che non si pensi di realizzare la riforma a “piccoli passi”, scaricandone la realizzazione sulle spalle dei docenti, già oggi fortemente penalizzati e sollecitati negli ordini di scuola oggetto della riforma. E allora, forse, si capisce perché la scuola che verrà è stata messa in consultazione unitamente ad un altro documento del DECS, quello relativo al profilo professionale del docente, che ha suscitato la corale opposizione dei docenti per molte ragioni, ma soprattutto perché poneva le basi per “disciplinare” al meglio il corpo insegnante. A pensare male si fa peccato, diceva qualcuno, ma spesso ci si azzecca!