Da poco iscritta alla disoccupazione, ed eccomi già assegnata a uno dei tanti corsi che sembrano oramai costituire la via crucis obbligata di ogni disoccupato/a. Inutile protestare e cercare di far capire al collocatore che il contenuto del corso sembra ben poco adatto alle mie reali necessità.
Mi chiedo per quale strana logica si preferisca agire più sulla valorizzazione dell’offerta (l’impiegabilità dei disoccupati) che non sulla domanda (la creazione di posti di lavoro), e la ragione di tale solerzia e generosità nello spendere le risorse pubbliche mi appare più chiara quando scopro che durante il periodo della misura attiva – in cui sono tenuta ad effetturare ancora tutte le ricerche di impiego – sparisco come per magia dai dati statistici relativi al numero di disoccupati. Forse perché, anche se ancora senza impiego, ora sono occupata – mattino e pomeriggio, 5 giorni su 7. Dietro questa obbligatoria sottomissione alla rigorosa disciplina del salariato traspare non solo una volontà di controllo, ma anche – e forse soprattutto – un atteggiamento paternalista, caratterizzato da una visione profondamente priva di fiducia nei confronti dell’essere umano, quasi che solo il lavoro produttivo sia in grado di dare una struttura, un senso e un equilibrio alla nostra vita….
Coaching
Il corso è dispensato da un coach. La scelta di questo termine che trova origine nel mondo sportivo non è casuale: è fin da subito evidente che non siamo qui solo per imparare o perfezionare qualche strumento e tecnica di ricerca d’impiego, innanzitutto abbiamo bisogno di essere mo-ti-va-ti! La diagnosi è presto fatta e senza appello: il primo «avversario» che un disoccupato deve affrontare non è esterno, bensì interno. Insomma, se non trovo lavoro è perché non ci credo abbastanza! E come, d’altro canto, credere sul serio che, con un mercato del lavoro così teso come quello ticinese degli ultimi anni, là fuori ci sia veramente un posto di lavoro dignitoso per tutti e tutte?
Siamo in tanti a seguire il corso, ognuno con una storia privata e professionale diversa, ma i problemi che dobbiamo affrontare sono spesso simili: la rigidità e l’illogicità delle procedure degli uffici regionali di collocamento, l’imposizione di un numero prestabilito di ricerche d’impiego settimanali (poco importa la loro reale utilità), un clima di sospetto a priori nei confronti di chi si ritrova senza lavoro, l’immagine negativa dei disoccupati veicolata da media e politici, etc. Non c’è tuttavia spazio per la solidarietà, per il riconoscimento di una condizione comune. Tutto l’approccio del corso si focalizza sulle singole persone e i problemi da sociali diventano individuali.
Pensiero positivo
Sempre col sorriso stampato in volto, il coach ci spiega che capisce la nostra demoralizzazione, le nostre difficoltà, ma che è sicuro che ciascuno di noi cela in sé delle risorse insospettate e che se proviamo a vivere questo momento in modo positivo, come una nuova opportunità, senza farci prendere dal rancore o da sentimenti di ingiustizia, allora riusciremo senz’altro a ritrovare rapidamente un nuovo lavoro. Tutto bene, dunque? No, perché volere non è potere, e dimenticarlo (o fingere di dimenticarlo) significa addossare la responsabilità della propria condizione ai singoli disoccupati. Perché dire «se vuoi, puoi» vuol anche dire «se hai fallito, la colpa è tua, non ti sei impegnato abbastanza». È questo il lato oscuro del cosiddetto pensiero positivo, che forse andrebbe più appropriatamente definito pensiero magico, come quello dei bambini per cui nulla si frappone tra l’immaginazione e il mondo esterno, tra l’intenzione e la realizzazione. Il discorso (e più in generale il sistema di pensiero alla base di questo tipo di approcci (1) è in realtà estremamente pericoloso e manipolatorio. Dietro una parvenza positiva e in qualche modo persino accattivante – non è forse tentante pensare che tutti i nostri sogni e desideri possono realizzarsi? – vuole indurre, tramite una vera e propria operazione di autosuggestione, a ricondurre a noi stessi e alla nostra volontà tutti i nostri successi… e anche i nostri fallimenti. Il messaggio finale è semplice: non cambiare un sistema sempre più assurdo e ingiusto, ma cambiare se stessi! Ed ecco che il coach, dopo averci predicato le virtù miracolose di «un’attitudine positiva nei confronti delle sfide che la vita ci riserva», di fronte a un giovane disoccupato che dopo soli pochi mesi senza impiego non è riuscito a trovare un nuovo lavoro nel suo settore, gli suggerisce subito di cercare altrove, cambiando così – come ci si cambia d’abito – di progetto professionale e di vita…
Competenze
È finita l’epoca dei «mestieri» e del posto fisso. Nel regno della flessibilità e della precarietà, la formazione e l’esperienza professionale della persona in cerca di lavoro passano in secondo piano: ciò che conta sono ormai le competenze, primo grande capitolo del nostro corso. E si capisce in fretta che tra il sapere, il saper fare e il saper essere (le tre categorie in cui si suddividono le attitudini produttive degli individui) l’accento del coach è chiaramente rivolto a quest’ultima tipologia. Durante il corso è difatti data una grande importanza a tutta una serie di presunte competenze personali ritenute essenziali per il mondo del lavoro: veniamo valutati per la nostra autonomia, per l’affidabilità, per la nostra motivazione o ancora per la flessibilità e il modo di presentarsi (senza nemmeno rendersi conto che si tratta spesso di ingiunzioni contraddittorie: come essere, ad esempio, al contempo affidabili e flessibili?). Per migliorare il curriculum vitae e per valorizzare il nostro profilo, siamo dunque incitati a volgere lo sguardo al nostro vissuto privato al fine di trovare e mettere in risalto competenze personali e sociali da porre al servizio del datore di lavoro: e così, in una simulazione di un colloquio d’assunzione, anche un divorzio può tramutarsi nel felice esempio della capacità di resilienza di un candidato…
Networking
Questa confusione tra il piano personale e quello professionale è ancora più evidente nel capitolo successivo, dedicato al networking, ossia come sviluppare e mettere a frutto la propria rete di contatti per trovare un lavoro. E, se è pur vero che molto spesso è proprio in questo modo che si riesce ad ottenere un impiego, le potenziali derive di un sistema in cui contano più le conoscenze che la conoscenza sono già alle porte: sugli innumeravoli siti che dispensano consigli su come trovare lavoro e fare carriera, si possono, ad esempio, leggere suggerimenti su cosa scrivere nelle cartoline di natale ai propri capi o colleghi. Ma se i legami affettivi cedono il passo alle relazioni strategiche si finisce per fare la promozione di un uso strumentale dell’altro, quale mezzo per ottenere il tanto agognato posto di lavoro. Tra le diverse strategie di networking illustrate nel corso, c’è un esempio particolarmente sintomatico di questo tendenza all’uso utilitaristico delle relazioni: l’ormai classico Elevator Pitch, o discorso da ascensore. Se per i profani l’ascensore era finora un luogo propizio per tentare tutt’al più un primo approccio con una bella ragazza o un aitante giovanotto, nella giungla neo-liberale è assurto invece a luogo-simbolo in cui si concretizzano tutti i sogni di ascensione sociale. Si tratta in sostanza di un esercizio in cui ci si immagina di trovarsi in ascensore con un potenziale datore di lavoro (il mitico top-manager del 47° piano…) e di avere così a disposizione solo un minuto per convincerlo che si è la persona che stava cercando. Lo scopo è insomma quello di prepare un discorso unidirezionale, conciso, seducente, dall’elevato potere persuasivo e cogliere l’occasione giusta per recitarlo davanti a una vittima designata che non ha altra scelta che starci ad ascoltare. Difficile non fare un parallelo con gli spot pubblicitari e ancora più difficile non provare un sentimento di disagio nel trovarsi costretti a simili operazioni di autopromozione.
Marketing personale
E il disagio si fa ancor più palpabile quando si entra finalmente nel vivo del corso, affrontando il marketing personale e le celeberrime 4 P (Product-Price-Place-Promotion), ovvero l’abc di qualsiasi manuale del perfetto venditore o pubblicitario. Solo che se qui il Punto vendita (place) è il posto di lavoro, e la Promozione è il nostro modo di presentarci, dobbiamo dedurre che alla fin fine il Prodotto, con un Prezzo, siamo noi. L’applicazione all’ambito della ricerca di impiego delle più diffuse strategie di marketing si traduce così in un pericoloso svilimento dell’essere umano: come sosteneva Kant, infatti, ciò che differenzia le cose dalle persone, è che le cose hanno un prezzo, le persone una dignità! Questa confusione tra cose e persone, tra mezzi e fini, è ben simboleggiata dallo stesso concetto di Risorse umane, vero e proprio ossimoro che sintetizza l’inversione di valori propria al sistema neo-liberale, in cui non è l’economia a dover esser al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio dell’economia.
Di fronte alla sempre più evidente disumanizzazione del nostro sistema economico e alle crescenti tensioni interne al mercato del lavoro, lo scopo di queste misure attive non si riduce al semplice sostegno al reinserimento professionale, ma si estende all’assimilizzazione da parte dei disoccupati delle nuove ‘regole del gioco’. Il ricorso continuo all’autovalutazione altro non è, infatti, che uno strumento volto all’interiorizzazione delle norme imposte, e il pensiero positivo su cui si fonda il discorso che ci viene propinato vuole spingerci a vedere come una «buona occasione» o una «sfida» qualsiasi lavoro ci venga offerto, anche se sottopagato o alienante («Any job is better than no job», come dicono negli Usa…). Durante tutto il corso, i determinismi sociali sono sapientemente occultati: l’accento è posto solo sul come ritrovare lavoro (e il più rapidamente possibile). Forse perché fermarsi e riflettere insieme sul perché, ovvero sulle cause della nostra condizione collettiva, è già un primo passo verso la rivoluzione.
1. Va ricordato che coaching, pensiero positivo e gli altri ingredienti di base del corso costituiscono l’arsenale ideologico del new management, che già da diversi anni miete vittime all’interno stesso del mondo del lavoro.