Tra agosto e settembre i vertici politici cinesi hanno da una parte dato prova di un decisionismo quasi schizofrenico, mentre dall’altra si sono visti scoppiare sotto gli occhi due focolai di crisi economica di enorme portata. In questa prima parte di un’ampia panoramica sulla Cina ci occupiamo della contraddittoria campagna per la “prosperità comune”, della stretta contro i “maschi-femminucce” e altri presunti nemici, nonché del misterioso caso di una lettera dagli intenti indecifrabili.
Da molti decenni la burocrazia cinese predilige come strumento del proprio agire le campagne imposte dall’alto verso il basso accompagnate da una retorica solenne, basata spesso sull’annuncio di grandi svolte. Se nell’era di Mao Zedong e di Deng Xiaoping le svolte spesso si sono concretizzate, con esiti spesso catastrofici sotto Mao, nel nuovo millennio l’enfasi retorica si è sempre meno spesso tradotta in sviluppi radicali a livello nazionale. Nell’era di Xi Jinping, iniziata a fine 2012, l’unica vera campagna enfatica che si è pienamente concretizzata è stata quella delle purghe anticorruzione tra le fila del Partito Comunista, avviata all’inizio del suo mandato. La “guerra contro il virus” iniziata nel 2020 e oggi ancora in corso, per quanto di scala enorme, è stata invece solo un ripiego di fronte a una catastrofe causata dagli stessi vertici di Pechino. Per il resto, sotto Xi vi è stato in essenza solo un progressivo, e a suo modo coerente, scivolare verso l’autoritarismo, il burocratismo, il culto della personalità e il rallentamento economico, con un susseguirsi di prosaici colpi al cerchio e alla botte.
Tuttavia, nel giro di soli due mesi, tra agosto e settembre di quest’anno, si è assistito a un confuso e convulso susseguirsi di annunci e misure che, accompagnati da evidenti segni di degenerazione nell’economia, hanno mandato in tilt anche i più impassibili osservatori. C’era già stato un notevole prologo un anno fa, con gli attacchi e le misure antimonopolistiche che hanno colpito giganti del tech privato cinese come Alibaba o, a ruota, la piattaforma Didi. Sempre un anno fa circa, c’era stato quasi in contemporanea l’abbandono a sé stesse di un paio di aziende in default. In entrambi i casi la maggior parte dei commentatori internazionali aveva gridato affrettatamente alla rivoluzione: guerra contro il grande capitale privato per spingere verso una statalizzazione completa, o quasi, dell’economia, nel primo caso, svolta epocale in campo economico-finanziario, con un’abolizione della garanzia statale di fatto dei debiti delle aziende che avrebbe finalmente consentito di fare pulizia tra le imprese inefficaci e di abbattere così la colossale bolla del debito. A ben vedere, due trend in realtà in aperta contraddizione. A un anno di distanza, nessuna rivoluzione sembra all’orizzonte. Le misure contro la piattaforma Ant di Alibaba o contro Didi e, in misura minore, Tencent, appaiono sempre più chiaramente mirate non a mettere fuori gioco il capitale privato, bensì a regolarlo, una cosa ben diversa – d’altronde lo stesso Xi giusto un anno fa aveva enfatizzato il ruolo storicamente positivo che il capitale privato “patriottico”, anche quello che sfrutta brutalmente i lavoratori, aveva secondo lui svolto per il paese. La piattaforma di Ant, ramo di Alibaba, concedeva microprestiti online a centinaia di milioni di cinesi senza garanzie, una bomba ad orologeria intollerabile in un sistema già enormemente in bolla finanziaria. I monopoli delle piattaforme in ascesa costituiscono inoltre un potenziale freno al “libero svilupparsi” del mercato capitalista – ridimensionarli, come insegna anche la storia di altri paesi, non significa fare guerra al capitale privato bensì, se fatto con senno, aiutarlo nel suo complesso. D’altronde, il capitale privato è il motore più rilevante ed efficace dell’economia cinese, come si sono preoccupati di sottolineare ancora una volta i vertici economici del Partito Comunista (Pcc) in queste settimane. In più, alla base delle misure adottate contro Alibaba e altre aziende, ci sono considerazioni prettamente politiche: con le loro dimensioni, e i loro vastissimi database, le piattaforme e i giganti tecnologici possono trasformarsi in potenziali leve di influenza per le lobby tecnocratiche interne al Pcc che guardano con malumore al conferimento di un terzo mandato a Xi Jinping al congresso dell’autunno 2022. Quindi quella attualmente in corso non sembra proprio essere una guerra mirata a eliminare nel tempo il capitale privato, ma solo un’ingiunzione a essere “patriottico”, che tradotto nella lingua normale significa obbediente al grande leader Xi Jinping. Per quanto riguarda invece la presunta svolta verso un abbandono a sé stesse delle aziende in default, gli sviluppi successivi all’autunno 2020 sono del tutto chiari: con i salvataggi miliardari di grandi aziende del calibro di Tsinghua, HNA e Huarong il governo cinese ha seguito una linea esattamente opposta a quella ipotizzata dagli osservatori che un anno fa avevano gridato alla rivoluzione di fronte a un numero esiguo di aziende in default lasciate fallire. Ora i vertici di Pechino si trovano ad affrontare un caso di dimensioni di gran lunga più impegnative, quello di Evergrande e del settore immobiliare nel suo complesso, di cui parleremo nella seconda parte di questa panoramica.
Il “la” alla frenesia estiva di iniziative cui accennavo sopra lo ha dato, ovviamente, lo stesso Xi. Il 17 agosto scorso ha annunciato in un discorso di fronte al Comitato Centrale per gli Affari Finanziari ed Economici una svolta economico-sociale orientata a conseguire una “prosperità comune” per tutti i cinesi. Come riferisce l’agenzia ufficiale Xinhua, durante la riunione è stato detto che “bisogna porre l’accento sul dare impulso alla prosperità comune per rafforzare le fondamenta del governo a lungo termine del Partito Comunista. Prosperità comune vuol dire non tanto egualitarismo, o avere una situazione in cui solo alcune persone godono di prosperità, ma un benessere condiviso da tutti, in termini sia materiali che culturali, ed è qualcosa che deve essere promosso gradualmente”. Vuol dire avere “condizioni più inclusive […] per fare in modo che la gente possa migliorare le proprie capacità di sviluppo, creare un contesto di sviluppo che offra opportunità affinché più persone possano diventare ricche”. Inoltre, bisogna “concentrarsi su progetti di primaria importanza e inclusivi che facilitino il benessere delle persone e garantiscano i loro fabbisogni di base”. Questo processo deve essere portanto avanti, si sottolinea ancora una volta, “in modo graduale e progressivo”. “I servizi pubblici di base devono essere resi accessibili in modo più equo aumentando gli investimenti inclusivi in risorse umane e migliorando l’assistenza agli anziani, la sicurezza sanitaria e la fornitura di alloggi”. Bisogna “trovare soluzioni istituzionali di base per quanto riguarda la distribuzione dei redditi, espandendo le dimensioni del ceto medio, regolando i guadagni eccessivi, proibendo i guadagni illeciti, e promuovendo l’equità e la giustizia sociale”, ma anche “proteggere i diritti di proprietà e i soldi accumulati con mezzi leciti, nonché facilitare uno sviluppo ben regolato e salutare di diversi tipi di capitale”. Il Quotidiano del Popolo riferisce della riunione in termini ancora più vaghi, affermando per esempio che “dobbiamo intendere la promozione della prosperità comune di tutto il popolo come il concentrarsi sulla promozione della sua felicità”, precisando naturalmente subito che ciò va fatto “consolidando costantemente le basi del governo a lungo termine del Partito”. Un linguaggio così generico, da fare impallidire quello di Tony Blair quando promuoveva la sua improbabile e mai realizzatasi “terza via”. Il contesto politico cinese è tuttavia diverso e le parole del grande timoniere di turno hanno sempre riflessi politici importanti, per quanto vaghe. A mio parere nel migliore dei casi il messaggio sembra dire, per usare la lingua di tutti i giorni, “Ragazzi, abbiamo esagerato, correggiamo un po’ il tiro, ma mi raccomando, solo con prudenza”, nel peggiore invece “Ragazzi, abbiamo esagerato, facciamo finta di fare una correzione di tiro, tanto per ora non ci costa nulla, poi nel tempo vedremo dove concretamente bisognerà tappare qualche buco”. Lo scetticismo è comunque d’obbligo, perché gli slogan di svolta non seguiti da fatti e/o risultati concreti sembrano essere quasi la regola nella Cina di Xi. Uno degli esempi più macroscopici è quello dell’economia a “circolazione duale”, campagna dai termini altrettanto vaghi lanciata nel maggio 2020, che pretendeva promuovere una crescita basata allo stesso tempo sulle esportazioni e l’aumento dei consumi interni, senza dire come e sulla quale si sono scervellati per qualche mese esperti cinesi e internazionali. Risultato: a un anno e mezzo di distanza nessuna misura concreta e incisiva è stata adottata, le esportazioni vanno ad alti bassi al traino dell’andamento dell’economia globale, e non delle politiche cinesi, mentre i consumi interni continuano a rallentare. Un altro esempio è costituito dall’annuncio solenne dell’impegno di raggiungere la neutralità carbonica (le cosiddette “emissioni zero”) entro il 2060, fatto un anno fa personalmente da Xi: dopo un anno non è stato nemmeno messo a punto un piano generico per conseguire l’obiettivo, in compenso c’è stata un’impressionante impennata nel varo di progetti di nuove centrali a carbone in Cina, seguita poi dall’impegno a non finanziare più nuove centrali a carbone, ma… solo all’estero, seguito a sua volta in questi giorni dalla decisione di aumentare fortemente la produzione di carbone di fronte alla crisi energetica. Un altro esempio meno recente è quello del megaprogetto tecnologico noto come Made in China 2025, lanciato nel 2015. Non solo è venuto a cadere come progetto unificato, perdendosi in una miriade di singoli rivoli, ma la Cina ha completamente mancato uno dei suoi principali obiettivi, il conseguimento entro il 2020 di una sostanziale autonomia nella produzione di circuiti integrati, strategici per la sua economia, il suo esercito e la sua posizione internazionale.
La vaghezza del discorso di Xi Jinping sulla “prosperità comune” è stata tuttavia seguita in Cina da un certo dibattito a livello accademico, che il più delle volte ha visto come protagonisti esperti svolgenti la funzione di consulenti per strutture statali o partitiche. Anche se a decidere sono i vertici burocratici, e non gli accademici, le riflessioni di questi ultimo danno un’idea di dove si potrebbe andare a parare. L’esempio che riassume meglio gli altri, tutti simili, è quello degli accademici dello Zhejiang, provincia che è la “culla politica” di Xi e che non a caso nel giugno scorso aveva fatto un annuncio-pilota sulla prosperità comune, anticipando il discorso del grande leader. Ad agosto un loro programma di massima in tre punti è stato pubblicato dal quotidiano economico statale Economic Daily. Nel primo punto si ipotizzano eventuali manovre fiscali, consistenti in un aumento delle detrazioni per i redditi più bassi, nonché il varo di una tassa sugli immobili e una sulle eredità (ebbene sì, nella Cina a guida “comunista” queste elementari tasse sulla ricchezza non esistono) che però, si badi bene, andrebbero controbilanciate da una riduzione delle imposte per le fasce ad alto reddito. Nel secondo punto si dice che “regolare i redditi eccessivi non vuol dire limitare i redditi alti”, ma solo quelli “irragionevoli (i redditi non dichiarati e gli alti redditi dei monopolisti di settore)”, ponendo limiti ai salari dei dirigenti e riportando ai normali livelli di mercato gli stipendi corrisposti dalle aziende monopolistiche. Infine, terzo punto, per quanto riguarda i redditi bassi, al fine di ridurre il loro gap con quelli dei ricchi ci si dovrà affidare alle iniziative di beneficienza o mecenatismo delle aziende – quest’ultimo un punto programmatico ribadito anche da altri esperti cinesi paragovernativi, che lo definiscono in burocratese il “meccanismo di distribuzione terziaria”. Per riassumere, all’ordine del giorno ci sarebbero solo alcune detrazioni in più per i redditi bassi, misure di facciata come i tetti agli stipendi di manager ed esperti iperpagati, beneficienza per risolvere l’astronomica ineguaglianza sociale. L’unica misura concreta, tassazione di immobili ed eredità, della quale comunque si parla da un decennio senza esiti, oltre a essere resa più blanda dalla proposta di diminuire le tasse sugli alti redditi e dall’assicurazione che non si vogliono limitare questi ultimi, appare di difficile realizzazione, in particolare per quanto riguarda gli immobili, perché andrebbe a colpire oltre a buona parte della dirigenza comunista anche il cosiddetto “ceto medio” (in realtà ad alto reddito, anche se non a livelli esorbitanti) i cui risparmi si concentrano proprio sugli immobili e che costituisce lo zoccolo duro del sostegno al regime. Inoltre, una tassa sugli immobili arrecherebbe un colpo durissimo a un’industria immobiliare già in estrema difficoltà e che è uno dei principali componenti dell’economia nazionale. Va infine osservato che, al di là di quelle riguardanti la sfera fiscale e quella caritatevole, non si prevedono misure concrete di carattere sociale. Nei giorni successivi alcuni commentatori hanno accennato a possibili tetti ai prezzi degli alloggi, o eventuali miglioramenti del sistema di previdenza sanitaria, ma in termini vaghi e da podi meno autorevoli. Per esempio, è stato ipotizzato un tetto del 5% sull’aumento annuale degli affitti in alcune province: la percentuale è più del doppio dell’inflazione e comporterebbe per un nucleo familiare cinese un aumento della spesa per l’affitto di ben il 27% in soli cinque anni.
Qualche giorno dopo il discorso di Xi sulla “prosperità comune” si è tenuta presso la località balneare di Beidaihe la tradizionale riunione estiva annuale dei massimi leader del paese per discutere a porte chiuse e in totale segretezza della linea politica da seguire in futuro. Anche quest’anno, come è sempre avvenuto, nulla è trapelato su tale riunione. Subito dopo il consesso di Beidaihe è però scoppiata una bomba politica del tutto inusuale per l’era Xi. Il 29 agosto testate del calibro del Quotidiano del popolo, organo del Pcc, dell’agenzia statale Xinhua, della tv di stato CGTN e del quotidiano delle forze armate, insieme a svariate altre testate ufficiali, hanno ripubblicato in contemporanea sui loro canali internet e senza commenti il testo di un opinionista neomaoista abbastanza noto tra gli addetti ai lavori, Li Guangman (il testo è stato tradotto integralmente in inglese da “China Digital Times”). Va precisato che i “neomaoisti” odierni sono in realtà degli ultranazionalisti che sposano qualche superficiale slogan sociale e l’adesione a un capitalismo nazionale sotto tutela dirigista con posizioni di estrema destra, come per esempio l’omofobia e la xenofobia. In quest’ottica, sono favorevoli nel complesso alla leadership di Xi. Nel suo testo Li Guangman ha formulato nel suo commento un’interpretazione complessiva del concetto di “prosperità comune” che ha allarmato sia molti politici e osservatori locali, che i commentatori internazionali. Nella prima metà del testo Li loda le misure recentemente adottate dalle autorità nella sfera dell’intrattenimento (di cui più nei dettagli sotto), affermando che “senza questa stretta, il mondo dell’ìntrattenimento non sarebbe l’unica cosa che puzza di marcio – le arti, la letteratura, la cultura, il teatro, il cinema e la televisione lo avrebbero presto seguito”. Ma proseguendo, Li descrive gli sviluppi più recenti, per esempio il discorso sulla prosperità comune e i guai della piattaforma Ant di Alibaba, come un “cambiamento colossale […] una profonda rivoluzione, che costituisce un ritorno dalle “cricche capitaliste” al Popolo, uno spostamento dal concetto del “capitale al centro di tutto” a quello del “popolo al centro di tutto”. […] Coloro che ostacoleranno questa trasformazione incentrata sul popolo verranno lasciati indietro. […] Si tratta di un ritorno all’essenza del socialismo. I mercati dei capitali non saranno più un paradiso per i capitalisti che vogliono arricchirsi in fretta, i mercati culturali non saranno più un paradiso per le star ‘checche’ [sic], e i giornalisti e la pubblica opinione non potranno più idolatrare la cultura occidentale”. Li Guangman esorta poi a “portare il caos culturale sotto controllo”, per costruire una cultura “sana, virile e intrepida”. Nonostante parli di socialismo, Li propone però solo un capitalismo un po’ più soft: “Dobbiamo combattere la manipolazione dei mercati dei capitali da parte del grande capitale, lottare contro i monopoli delle piattaforme, impedire che il denaro cattivo metta in un angolo quello buono e garantire un flusso di capitali alle aziende high-tech e alle aziende dell’economia reale”, ma aggiunge anche che “Prosperità comune vuol dire consentire ai comuni lavoratori di godere di una fetta più ampia della distribuzione sociale della ricchezza”. Poi insiste: “Dobbiamo usare tutti i mezzi di cui disponiamo per […] eliminare trend come quelli dei ‘ragazzi carini’ e delle ‘checche’ dal nostro carattere nazionale per garantire che la nostra [sfera culturale] sia retta e integra”. Li passa quindi a prendere di mira gli Usa, che stanno impiantando una “quinta colonna in Cina” e conducono contro di essa una “guerra biologica e una cyberguerra”. “Se continueremo a sottometterci alle tattiche d’incanto americane, se consentiremo a questa generazione di giovani di perdere la propria tempra e la propria virilità […] ci autodistruggeremo, come ha fatto l’Unione Sovietica a suo tempo”. Infine, così Li chiude il suo commento: “Ognuno di noi può percepire che una profonda trasformazione sociale è in corso, una trasformazione che non si limita alla sfera del capitale o dell’intrattenimento. Non basta apportare cambiamenti in superficie, abbattere ciò che è già marcio; dobbiamo andare più in profondità, e raschiare via il veleno dall’osso. Dobbiamo ripulire casa nostra e fare aria pulita per rendere la società più sana, e per rendere tutti i membri della nostra società felici nel corpo e nella mente.”
Il testo di Li Guangman, con i suoi accenni cospirazionisti, il suo mischiare appelli a un capitale più “buono” con altri vagamente sociali, la sua ributtante omofobia e un linguaggio in più punti degno di un fascista (“la virilità dei nostri giovani” ecc.), sembra a una prima lettura solo un’accozzaglia di deliri retorici. Gli osservatori esteri e molti alti burocrati locali sono rimasti spaventati dall’uso di termini come “rivoluzione”, “fare aria pulita” o dagli accenni ai mercati dei capitali da ripulire (molto mena attenzione è stata riservata alla retorica di estrema destra, ritenuta evidentemente dai più poco preoccupante). Tuttavia, il momento cruciale in cui è uscito e soprattutto il fatto che sia stato redistribuito senza commenti da tutti i principali organi di massa del regime, gli danno una notevole rilevanza. Perché questa interpretazione “diversa” delle mosse più recenti dei vertici e del concetto di prosperità comune? E soprattutto, chi e perché ha dato istruzione ai media ufficiali di stato e di partito, che non agiscono certo di propria iniziativa, di darle enorme e simultanea diffusione? Queste domande non trovano finora risposta. C’è chi ha osservato che il testo di Li è stato ridiffuso solo su canali internet, e non su stampa o in televisione: in questo modo, potrà essere fatto sparire un giorno rapidamente senza lasciare traccia. Basandosi su questo particolare, alcuni sostengono che sia stato solo una provocazione per vedere se qualcuno veniva allo scoperto aderendo ai suoi concetti e poterlo così colpire. Se così fosse, però, la pubblicazione non è servita a nulla dato che nessuno è venuto così allo scoperto, anzi, come vedremo qui di seguito c’è stato un fuoco di fila di autorevolissime prese di distanza. Altri invece sostengono che potrebbe essere stato un tentativo di settori del partito favorevoli alle posizioni di Li di vedere se c’era un sostegno sufficiente alle sue tesi – ma i neomaoisti e simili, pur non essendo del tutto marginali, occupano una posizione decisamente di secondo piano nel Partito e nello stato, è impensabile che siano riusciti a fare passare il messaggio non in uno, ma in tutti gli organi mediatici ufficiali più importanti. Le altre possibili interpretazioni barocche sono non poche, per esempio uno sgambetto o una contestazione velata a Xi mediante una parodia di fatto dei suoi concetti, o un “falso incendio” per avere poi l’occasione di fare i pompieri e spingere ancora più verso la moderazione le interpretazioni della “prosperità comune” promossa da Xi – ma quest’ultima è già tutta improntata alla moderazione, che bisogno c’era di farlo? Una spiegazione generica più plausibile è a mio parere, vista anche la tempistica, che alla riunione di Beidaihe ci sia stata maretta e si siano evidenziate divergenze, spingendo settori (evidentemente molto influenti) a rompere un po’ le uova nel paniere – come esattamente e con quali obiettivi non è però dato intendere, se è così. A destare preoccupazione tra gli alti burocrati sono state forse le ipotesi di imposta sugli immobili e sulle eredità, che andrebbero a colpire innanzitutto i numerosi “comunisti” miliardari, presenti in tutte le fazioni, e/o gli speculatori immobiliari che da sempre guadagnano somme da capogiro sotto l’ala protettrice del Partito? O, ipotesi a mio parere più plausibile, dietro a questo andare a colpire indirettamente la campagna d’immagine di Xi basata sulla retorica moderata della “prosperità comune”, ci sono invece altre divergenze ben più importanti, per esempio su come gestire il crack del gigante immobiliare Evergrande, il cui imminente scoppio era già chiaro ad agosto ai meglio informati e di cui i gerarchi del Partito non possono non avere discusso a Beidaihe, visto che rischia di causare danni enormi all’economia del paese e richiede interventi che avranno, in un senso o nell’altro, importanti riflessi politici generali?
Ad ogni modo al testo di Li ha fatto seguito un unanime fuoco di fila di accademici, organi di stampa ufficiali e infine altissime cariche del Partito Comunista che hanno sottolineato con chiarezza e vigore come dietro al concetto di “prosperità comune” non ci sia affatto l’intenzione di colpire i ricchi e il capitale privato, o i mercati dei capitali, né tantomeno quella di varare misure sociali di vasta portata. Basta citarne qui tra i tanti un paio, i più significativi. Liu He, braccio destro di Xi Jinping e responsabile del Pcc per l’economia del paese, oltre che vicepremier, non ha usato sfumature, chiamando a fare ogni sforzo “per dare un sostegno vigoroso allo sviluppo dell’economia privata, per incoraggiare il settore privato a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione della crescita e dell’occupazione”. Come se non bastasse ha colto l’occasione per ricordare che “il settore privato genera oltre il 50% delle entrate fiscali, oltre il 60% del Pil e oltre il 70% delle innovazioni tecnologiche; inoltre, è responsabile di oltre l’80% dei posti di lavoro nelle aree urbane”. Infine, ha esortato a un’apertura senza riserve dell’economia e a continuare a “proteggere con risolutezza i diritti di proprietà. Le politiche a supporto dell’economia privata non sono cambiate e non cambieranno in futuro”. L’agenzia Xinhua, altra voce ufficiale, ha scritto che “la prosperità comune non vuol dire egualitarismo, non vuol dire rubare ai ricchi per dare ai poveri, come hanno erroneamente interpretato alcuni media occidentali. La protezione della proprietà privata legittima è iscritta nella Costituzione cinese. Nell’ambito del processo mirato a conseguire l’obiettivo di una prosperità comune, il rafforzamento delle misure antitrust, la stretta sui guadagni illegali e l’incoraggiare donazioni caritatevoli costituiscono mezzi internazionalmente accettati di regolamentazione e adeguamento. Queste mosse non significano che il capitale, o le aziende private in generale, sono un obiettivo da colpire per arrivare alla prosperità comune: costituiscono solo un ammonimento contro pratiche di business sleali”. Han Wenxiu, vicedirettore della Commissione Affari Finanziari ed Economici del Comitato Centrale del Pcc ha a sua volta affermato che “lavorare duramente è lo strumento essenziale per arrivare alla prosperità comune […]. Lasciamo che alcune persone diventino ricche per prime, affinché poi siano di ispirazione per coloro che sono rimasti indietro e li aiutino. Non opteremo per una politica incentrata sul rubare ai ricchi per dare ai poveri”. Han ha detto anche che “la distribuzione terziaria [come abbiamo visto, questo termine indica la beneficienza e il mecenatismo – a.f.] non sarà obbligatoria”. Sarà sufficiente che le politiche fiscali “incentivino in modo appropriato le donazioni caritatevoli”, che saranno di aiuto “nel migliorare la struttura di distribuzione del reddito” nazionale. Del tutto a sorpresa, si è schierato nettamente a sostegno di questa campagna di moderazione e di smentita del neomaoista Li Guangman anche Hu Xijin, direttore del Global Times (affiliato al Quotidiano del Popolo) e una delle firme più note della propaganda del Pcc, normalmente più incline a una retorica fatta di sciovinismo e aggressività vicina a quella del neomaoista.
Il caso del testo di Li Guangman, considerato al di fuori del suo contesto temporale, potrebbe essere interpretato come uno scossone transitorio. Ma il fatto che sia emerso proprio in un periodo frenetico ed estremamente problematico per Pechino lo rende ancora più significativo. Nel giro di solo un paio di mesi il Pcc ha infatti adottato provvedimenti, a volte bislacchi, con un’intensità senza precedenti nell’era Xi, da una parte, mentre dall’altra si è trovato ad affrontare sviluppi economici sempre più critici. E su tutto, lo ricordo, incombe il Plenum del Partito che si terrà a novembre, l’ultimo prima del congresso generale previsto per l’autunno 2022, che dovrà conferire a Xi Jinping il terzo mandato.
Partiamo dai provvedimenti. A luglio è stata decretata inaspettatamente la fine di fatto delle società private che operano nel campo dell’istruzione, alle quali è stato vietato di operare realizzando profitti. Non è una mossa da poco, visto che il settore è vastissimo in Cina e ha un giro d’affari di circa 100 miliardi di dollari e, sebbene si parlasse da mesi di una sua messa in riga, nessuno si aspettava una sua drastica quanto improvvisa chiusura di fatto. Queste società si occupano principalmente, a fronte di alti prezzi, di preparare gli studenti agli esami di ammissione al liceo o all’università, che sono estremamente selettivi in Cina, così come in paesi vicini come Corea del Sud e Giappone. La decisione è stata presentata come una misura sociale, mirata a cancellare un onere finanziario per le famiglie meno abbienti, ma presa così da sola non lo è, visto che non sono state contemporaneamente varate soluzioni che sostituiscano il servizio dei privati con servizi pubblici efficienti a prezzi popolari e/o misure che rendano meno selettivi, o addirittura aboliscano, gli esami. Si è parlato solo nebulosamente di servizi pubblici sostitutivi come eventuale possibilità futura. E’ ovvio che i ricchi troveranno altri modi per istruire al meglio i propri figli, mentre chi faceva sacrifici immani per consentire un’ascesa sociale ai propri figli non avrà sì più questo onere, ma non disporrà di soluzioni alternative a costo contenuto. Successivamente sono state duramente colpite due famosissime star della musica pop e del mondo cinematografico, rispettivamente per violenza sessuale e per evasione fiscale. È stato solo il prologo di un attacco contro il mondo dell’intrattenimento che, come abbiamo visto, è piaciuto molto al “neomaoista” Lin Guangman. Poi nell’ordine il Partito ha decretato in una manciata di settimane la chiusura a raffica dei fan club nei social e il relativo impedimento delle iniziative di crowdfunding, il divieto ai giovani, da applicarsi mediante un controllo basato su algoritmi, di giocare online per più di tre ore alla settimana, il divieto ai media via etere di ospitare trasmissioni in cui compaiono “maschi effemminati” e “altri elementi estetici anormali”, nonché persone dalle “posizioni politiche non corrette e aliene al Partito Comunista”, con l’ingiunzione alle emittenti di “coltivare un’atmosfera patriottica e un’energia positiva”, riprendendo così tra l’altro quasi alla lettera quanto rivendicato nel testo di Li Guangman. Contemporaneamente il governo ha varato l’obbligo dello studio del pensiero di Xi Jinping lungo l’intero curriculum scolastico, a partire dalla prima elementare. A fine settembre il governo ha poi emesso linee guida con le quali si afferma che verrà limitato il diritto di aborto “a fini non medici” per “tutelare la salute riproduttiva delle donne”, misura che appare dettata dall’obbiettivo di fare rallentare il calo demografico, visto che viene dopo il permesso dato a maggio di avere un terzo figlio (ma già la politica del secondo figlio varata nel 2015 non aveva dato frutti) e che gli aborti selettivi mirati a non avere figlie femmine sono già contrastati da una rigorosa normativa adottata da tempo. È inquietante che l’annuncio di questa nuova politica fatta sul corpo delle donne arrivi immediatamente dopo che il potere aveva fatto chiudere con un’assoluzione due dei più eclatanti processi per violenza sessuale sui quali si era concentrata a suo tempo l’azione delle femministe. Tuttavia, va sottolineato che nel caso dell’aborto il Pcc ha scelto per ora di adottare delle generiche linee guida, senza ricorrere a misure legislative.
Nel complesso, se il concetto di “prosperità comune” è confuso e non indica una linea certa da seguire, le misure adottate nel corso di questa estate sono invece accomunate da intenti lampanti: il Pcc, dopo avere represso negli ultimi anni con brutalità ogni forma di resistenza o dissenso a livello sociale, mira ora a penetrare ancor più nella vita quotidiana e/o privata dei cinesi mediante una stretta normativa che prende di mira in particolare i giovani e le donne, con misure spesso di carattere prettamente reazionario, come nel caso delle istruzioni anti-effemminatezza e patriottiche impartite ai media o delle linee guida sull’aborto.
Va citato infine un altro notevole segnale di nervosismo. Tra fine settembre e inizio ottobre sono stati messi sotto inchiesta due pezzi grossi del Pcc che avevano gestito negli anni scorsi alcune tra le più importanti campagne repressive del regime di Xi. Si tratta di Sun Lijun, ex viceministro della pubblica sicurezza che tra le altre cose aveva condotto la vasta e violenta campagna contro i membri della setta Falun Gong, e Fu Zhenghua, ex ministro della giustizia ma in precedenza alto funzionario del Ministero della pubblica sicurezza, che aveva diretto nel 2015 la campagna contro difensori dei diritti dell’uomo e attivisti sindacali. È dall’estate dell’anno scorso che Xi ha avviato un’ennesima vasta campagna di purghe all’interno del Pcc, con la quale ha colpito in modo particolare responsabili o ex responsabili degli apparati di sicurezza, ma finora erano stati incriminati solo membri di fazioni in concorrenza con quella di Xi. Sun e Fu invece erano da lungo tempo dei fedeli dell’attuale presidente, ma hanno la “colpa” di avere cominciato la loro carriera una ventina di anni fa nella cerchia dell’ex segretario Jiang Zemin. Si tratta di uno sviluppo inatteso e di un ennesimo segno della paura nella quale vive Xi Jinping in vista del congresso dell’anno prossimo.
*articolo apparso sul sito crisiglobale.wordpress.com. l’11 ottobre 2021.