Pubblichiamo questo interessante articolo di Fabrizio Burattini sul dibattito e la situazione della sinistra italiana (intesa qui come sinistra di classe). Pur rivolgendosi prevalentemente al contesto italiano, il testo affronta questioni che sono state e sono tuttora temi di dibattito anche alle nostre latitudini. Lo pubblichiamo quindi sicuri che (unitamente ad un testo che avevamo pubblicato qualche giorno fa) possa stimolare una discussione di fondo. (Red)
Il più delle volte, nei testi che tentano di analizzare la “policrisi” (economica, sociale, ambientale, ecc.) che travaglia il mondo, si elude un tema molto importante, per certi versi determinante nella ricerca di una soluzione: quello di un’ulteriore crisi che si assomma e si interseca con tutte le altre crisi. Si tratta della crisi devastante che la sinistra sta attraversando.
1. La sinistra classista (“radicale”) sta vivendo a livello internazionale una crisi di profondità non dissimile da quella che ebbero la crisi del 1914-1920 tra gli internazionalisti antimperialisti e i socialisti nazionalisti e la crisi degli anni 20-30 tra stalinisti e antistalinisti; crisi all’epoca affrontate con coraggio e decisione, nel 1914-15 da Lenin e dai suoi e negli anni 20 e 30 da Trotsky e dai trotskisti, impedendo in entrambe le occasioni che il filo rosso del marxismo rivoluzionario si spezzasse con conseguenze irreparabili.
La crisi attuale è meno evidente; si svolge in una sinistra straordinariamente marginalizzata (salvo importanti eccezioni), ridotta come dimensione, come radicamento di massa, come autorevolezza teorica e politica dei suoi dirigenti. Appare meno lacerante e drammatica di quelle del secolo scorso, ma si tratta solo di apparenza, perché la sinistra è spinta all’angolo, e i suoi dibattiti si svolgono in una “bolla” e interessano poche migliaia di attivisti. La crisi invece è profondissima. Anzi, intrecciandosi con la crescente marginalità della sinistra, rischia di avere effetti esistenziali su tutta la sinistra, quale che sia il “campo” in cui si colloca.
2. La crisi è il frutto dell’incapacità complessiva e soggettiva della sinistra di rapportarsi ad una situazione profondamente mutata rispetto a quella in cui la “sinistra che oggi resta” si è formata ed è cresciuta.
Le sempre più evidenti deformazioni “campiste” di buona parte della sinistra sono certo il sintomo più lacerante di questa crisi. Dopo il crollo rovinoso dei regimi burocratici dell’Est, il nostro ottimismo rivoluzionario ci aveva fatto pensare che il bilancio fallimentare di quelle società segnasse la fine definitiva dello stalinismo e di quella cultura politica che avevano dominato per decenni nelle più diverse forme il movimento operaio internazionale. Invece, le stesse deformazioni politiche, programmatiche ed etiche che caratterizzavano lo stalinismo sono riemerse in forma grottesca nel campismo. Il campismo stravolge gravemente la scala dei valori di fondo della sinistra.
Per potersi definire di sinistra, socialista, comunista, prima ancora che la teoria, il primo punto di riferimento è l’etica. La sinistra, in particolare quella marxista, è, o almeno dovrebbe essere la cristallizzazione più rigorosa della filosofia morale e intellettuale laica, del senso del “giusto”, prima ancora che del necessario. O meglio, per la sinistra se qualcosa è necessario è perché è giusto.
I campisti, invece, scelgono (come i socialdemocratici dal 1914 e gli stalinisti dagli anni 20 in poi) di subordinare il “giusto” a ciò che è ritenuto “necessario” e adottano un orientamento eticamente stravolgente. È soprattutto per questo che non sono stati compresi nella loro lettura del conflitto russo ucraino dalla loro stessa base sociale di riferimento, gli strati popolari, che almeno nel primo anno di guerra su larga scala provavano un’automatica empatia con il popolo ucraino vittima di una brutale aggressione da parte di quello che era ritenuto, e fondatamente, uno degli eserciti più potenti del mondo.
3. Il fascino dei BRICS su buona parte della sinistra rientra in questo stesso stravolgimento morale, che fa vedere quella contraddittoria alleanza come un punto di riferimento “antimperialista” e non come quello che è, un coagulo di imperialismi e sub-imperialismi intrinsecamente o perlomeno prevalentemente autocratici, militaristi e oppressivi.
Per non parlare del persistente mito della Cina “socialista”, un mito che elude il carattere classista, dispotico, disumano della sua classe dominante sedicente “comunista”. Altrettanto dicasi per il Venezuela, per il Nicaragua, ecc. A ciò si accompagna la vergognosa simpatia verso la Russia putiniana e neozarista, ritenuta in qualche modo legittima erede dell’Unione Sovietica, mentre è l’espressione terminale del cancro che ha corroso fin dagli anni 20 la creatura di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre.
Tutti questi miti possono affascinare solo coloro che più o meno consapevolmente antepongono gli “interessi geopolitici” ai diritti sociali, politici, civili delle masse popolari dei paesi BRICS+, al sentire di quei popoli, oppressi dalle rispettive élite sociali, politiche o militari.
4. Molto si è scritto sul campismo, sulla sua errata concezione dell’imperialismo che paradossalmente recupera la teoria kautskiana del “superimperialismo”, ritenendo che l’unico imperialismo attivo sul pianeta sarebbe quello nordamericano con i suoi cartelli di alleanze europee e asiatiche. La lettura “superimperialistica” è stata a più riprese clamorosamente smentita dalla storia: le due guerre mondiali sono state le tragiche e sanguinose dimostrazioni che l’imperialismo è una fase del capitalismo che si declina sempre al plurale, in una pluralità di stati imperialisti che si contendono economicamente, politicamente e militarmente il controllo del mondo, cosa che si verificata anche in crisi meno sanguinose, come quella attorno al canale di Suez nel 1956. La tendenza alla guerra spinge la pluralità di stati imperialisti a ridursi a due trust. È impossibile fare la guerra tra tre o più soggetti o alleanze. Gli stati imperialisti sono sempre stati più di uno e sempre in concorrenza tra loro, e oggi contano anche alcuni di quegli stati che un tempo, seppur immeritatamente, si autodefinivano “socialisti”.
5. Ma la crisi della sinistra si esprime anche in quella parte di sinistra che rifiuta di prendere in considerazione le lotte di liberazione nazionale, anticoloniali, antimperialiste. Nel disorientamento teorico e morale della sinistra, c’è un settore che avanza un’interpretazione che potremmo definire “ultra internazionalista”, che ritiene che la lotta non possa che essere direttamente socialista, che ogni obiettivo di liberazione nazionale sia intrinsecamente nazionalista, cioè borghese e dunque fuorviante rispetto all’obiettivo della “rivoluzione mondiale socialista”.
Così costoro si oppongono alla lotta della resistenza ucraina contro l’invasione russa, considerandola, contro ogni analisi oggettiva, un proxy degli USA. Por costoro la lotta per la dignità nazionale di un popolo oppresso non è un avanzamento, ma piuttosto una regressione verso obiettivi borghesi che non devono coinvolgere i socialisti rivoluzionari internazionalisti.
A questo fine cercano di aggrapparsi ad alcune elaborazioni di Rosa Luxemburg, dimenticando che Rosa maturò le sue posizioni quando ancora la crisi del nazionalismo borghese non era giunta al suo culmine.
Una visione di quel tipo, se adottata dagli internazionalisti, li avrebbe posti fuori dalla maggior parte delle principali vicende di lotta di classe e da gran parte delle rivoluzioni del Novecento, mosse proprio dalla volontà di affermare la dignità nazionale, seppur coniugata con obiettivi sociali (Cina, Cuba, Vietnam, Algeria, Mozambico, Angola, ecc). E persino la Comune di Parigi del 1871 ebbe tra le motivazioni di partenza l’opposizione all’umiliazione che l’imperialismo tedesco vincente voleva imporre alla nazione francese portata alla disfatta da Napoleone III.
6. Ma uno dei sintomi più evidenti della crisi della sinistra si esprime riguardo al suo approccio alla questione della democrazia. Non vale qui la pena soffermarci più di tanto sul carattere truffaldino della “democrazia borghese”: le conquiste democratiche reali non sono il risultato dell’azione della borghesia, ma piuttosto il risultato di dure lotte da parte delle classi popolari.
La sinistra campista (ma per il suo “estremismo” anche quella “ultra internazionalista”), mutuando la propria posizione sulla base della tradizione staliniana, considera la democrazia principalmente come uno strumento utile per la lotta di classe, che può più agevolmente svilupparsi ed esprimersi in un contesto di libertà democratiche piuttosto che in un contesto autoritario o addirittura totalitario. I suoi comportamenti, i suoi modelli di riferimento (Assad, Xi Jinping, Ortega, Maduro, Putin) tradiscono questo approccio del tutto strumentale alla democrazia.
Per noi, per il marxismo rivoluzionario, la lotta per la democrazia è un elemento costituente della lotta per il socialismo e, tanto più, per l’ecosocialismo. Non solo perché agevola la lotta, ma proprio per l’obiettivo in sé, una società nella quale tutto sia definito e gestito attraverso la più larga partecipazione democratica delle masse. Le esperienze del Novecento hanno messo la parola “fine” su ogni concezione dirigista, verticistica e, conseguentemente, burocratica del socialismo. L’obiettivo ecosocialista (che non è affatto “l’informatica più i soviet”), le profonde trasformazioni comportamentali di massa che comporta, richiedono, ancora di più di quanto dicesse oltre un secolo fa Lenin nel suo “Lo stato e la rivoluzione”, una diffusa, permanente, radicata forma di partecipazione democratica. La società che vogliamo, diceva la Quarta Internazionale 39 anni fa nel suo 12° congresso, non può essere affatto “una società nella quale le libertà democratiche siano soffocate, appaiano anche solo messe in discussione o comunque più ristrette di quelle che le masse sono riuscite a conquistarsi nell’ambito del capitalismo”, quindi: no al partito unico, no ai sindacati di stato, no alla restrizione della libertà di autorganizzazione, di stampa, di riunione, ecc.
7. Questa “crisi morale” della sinistra si interseca e si somma con le conseguenze della sua sconfitta aggravando la frammentazione politica e ideologica, con settori che si illudono di ricostruire il proprio radicamento sociale inseguendo le preoccupazioni reazionarie che l’estrema destra ha instillato in ampi settori di massa (qui l’esempio più evidente è l’esperienza in Germania del Bündnis Sahra Wagenknecht).
Ma la cosa è riscontrabile in maniera più confusa e meno netta anche in altri paesi. Valga per tutte la vicenda italiana, con il tentativo, non riuscito ma non per questo meno colpevole, di ampia parte della sinistra radicale italiana di cercare di competere con il putinismo di settori della destra (Lega e Berlusconi), sfociato nella presentazione alle elezioni europee del 2024 di una lista nella quale confluivano sia esponenti delle organizzazioni di sinistra che esponenti delle destra putiniana.
O nella scelta del gruppo “The Left” dell’europarlamento di accettare l’iscrizione degli europarlamentari del Movimento 5 Stelle, che non erano riusciti a creare un gruppo insieme ai tedeschi del BSW.
8. Con i punti di riferimento politici e geopolitici di cui abbiamo fatto cenno, la sinistra è del tutto incapace di lavorare proficuamente per ricostruire una nuova utopia capace di animare nuove lotte per la trasformazione, così come furono gli ideali socialisti della fine dell’Ottocento e di buona parte del Novecento. Difendendo il presunto campo “antimperialista”, il loro programma rischia di apparire più un incubo che un’utopia liberatoria, annientando quel “principio speranza” di cui parlava Ernst Bloch nel suo noto saggio degli anni 50.
Così come la democrazia, anche l’ambientalismo più o meno adottato da alcune formazioni della sinistra appare ai più un orpello propagandistico, se pensiamo a come trattano l’ambiente i regimi di riferimento di questa sinistra.
La sinistra nelle sue diverse espressioni, in alcuni paesi (in Europa forse l’esempio più evidente è quello della Francia) può qua e là positivamente continuare ad apparire uno strumento utile a difendere dal neoliberismo e dall’estrema destra le residue conquiste sociali e democratiche imposte alle classi dominanti nei decenni precedenti. Ma nella stragrande maggioranza dei paesi “la sinistra che c’è” appare una forza marginale e praticamente fuori da ogni gioco, sostanzialmente con lo sguardo rivolto all’indietro, nostalgica di un passato irripetibile, incapace di parlare alle preoccupazioni popolari dell’oggi, e soprattutto a quelle delle giovani generazioni, che spesso e fondatamente la ritengono corresponsabile della negativa situazione in cui si vive.
Tutto ciò si traduce in una verticale crisi di credibilità e di radicamento, simmetrica e funzionale alla crescita della destra e dell’estrema destra, soprattutto negli strati popolari, nelle periferie, nelle aziende, dove la sinistra non riesce più ad intervenire, una crisi che coinvolge anche chi come il marxismo rivoluzionario e realmente internazionalista ha presupposti etici, politici, programmatici e sociali totalmente diversi.
La sottolineatura di questa crisi e di questa divaricazione, e lo stesso tentativo di metterla a confronto con le altre crisi della sinistra nel Novecento, non vogliono proporre un approccio settario e ideologico per le nostre forze. La pessima situazione politica e sociale, al contrario, richiede la massima unità contro le politiche neoliberali e contro l’estrema destra, quello che un tempo si definiva “fronte unico”. Una unità difensiva che va costruita nonostante e al di là delle divergenze di cui abbiamo parlato, ma che non deve farci dimenticare né minimizzare le profonde, radicali, strategiche ed etiche divaricazioni sopra descritte.
*articolo apparso su Refrattario e Controcorrente l’11 marzo 2025.
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