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La Cina sta cancellando l’identità uigura attraverso detenzioni di massa, lavoro forzato e controllo pervasivo. Una strategia che si estende oltre i confini dello Xinjiang

1. Il contesto storico e politico: dal controllo coloniale alla repressione sistematica

L’attuale situazione nello Xinjiang non è il risultato di un’azione improvvisa o episodica, ma si radica in un processo storico lungo e complesso, in cui il governo cinese ha gradualmente trasformato la regione da terra di frontiera a spazio di sperimentazione del controllo statale. Lo Xinjiang, o Turkestan Orientale, è stato per secoli un crocevia di popoli e culture, un nodo strategico lungo le vie commerciali dell’Asia Centrale. Oggi, il territorio ospita circa 12 milioni di uiguri, una popolazione turcofona e musulmana, la cui stessa esistenza è progressivamente minacciata da politiche di assimilazione forzata e repressione sistematica.
Già nella seconda metà del XX secolo, Pechino avviò un processo di colonizzazione interna volto a modificare l’equilibrio demografico della regione. La creazione dello Xinjiang Production and Construction Corps (XPCC), un’organizzazione paramilitare e produttiva formata in gran parte da migranti han, aveva l’obiettivo di trasformare lo Xinjiang in un bastione del potere centrale. Questa strategia di sinizzazione si è intensificata nel nuovo millennio, con misure che vanno dal controllo della lingua all’eliminazione delle strutture economiche tradizionali, fino alla sorveglianza capillare della popolazione.
A partire dal 2014, la campagna “Colpire duramente il terrorismo violento” ha segnato una svolta decisiva, trasformando lo Xinjiang in un laboratorio del totalitarismo digitale. Telecamere a riconoscimento facciale, intelligenza artificiale applicata alla sorveglianza e sistemi di punteggio sociale hanno creato un regime di controllo pervasivo, mentre circa un milione di uiguri veniva internato in quelli che il governo cinese definiva “centri di formazione professionale”, e che in realtà funzionavano come campi di detenzione e rieducazione ideologica. La successiva chiusura formale di questi campi non ha segnato la fine della repressione, ma solo una sua trasformazione: molte delle persone precedentemente internate sono state trasferite nel sistema carcerario o costrette al lavoro forzato.

La repressione si estende anche al di fuori dei confini cinesi. La diaspora uigura è sotto pressione in tutto il mondo, con episodi di minacce, sorveglianza e rapimenti orchestrati dal Partito Comunista Cinese. Pechino ha sistematicamente esercitato pressioni sui governi stranieri per ottenere l’estradizione di attivisti e dissidenti, sfruttando accordi bilaterali e strategie di influenza economica. Un caso esemplare è quello recentissimo del linguista uiguro Abduweli Ayup, il cui invito a una conferenza Unesco è stato ritirato sotto pressione di aziende cinesi coinvolte nella sorveglianza nello Xinjiang. Questo episodio dimostra come il governo cinese sia in grado di esercitare la sua influenza anche all’interno di istituzioni internazionali, censurando voci critiche e manipolando il discorso globale sulla situazione uigura.
L’obiettivo ultimo delle politiche cinesi nello Xinjiang sembra essere la dissoluzione progressiva dell’identità uigura. La crescita esponenziale delle scuole mirate ad assimilare bambini uiguri separati dalle loro famiglie, la distruzione sistematica di moschee e luoghi di culto, la repressione della lingua e delle tradizioni sono parte di un piano più ampio per trasformare lo Xinjiang in una provincia indistinguibile dal resto della Cina. È una strategia che combina elementi del colonialismo economico, del controllo sociale totalitario e di un’esplicita ingegneria demografica, con il chiaro intento di spegnere qualsiasi forma di resistenza identitaria.
Mentre il governo cinese continua a negare le accuse di genocidio e crimini contro l’umanità, le prove accumulate negli ultimi anni mostrano una realtà opposta: quella di una popolazione ridotta al silenzio attraverso un sistema di oppressione meticolosamente progettato. La questione dello Xinjiang, tuttavia, non è solo una crisi umanitaria: è anche un banco di prova per l’equilibrio geopolitico globale, dove il silenzio complice di molte potenze occidentali evidenzia il peso dell’influenza cinese nelle dinamiche internazionali.

2. La dimensione umana: repressione e vite spezzate

Oltre alle statistiche e alle strategie politiche, il vero volto della repressione nello Xinjiang emerge dalle storie individuali di coloro che ne sono vittime. La detenzione di massa, il lavoro forzato, la separazione delle famiglie e la sistematica cancellazione dell’identità uigura non sono fenomeni astratti, ma drammi concreti che colpiscono milioni di persone. Le testimonianze di ex detenuti raccontano di torture, abusi e condizioni di prigionia al limite della sopravvivenza. Molti vengono arrestati senza alcuna accusa chiara, spesso solo per aver mantenuto contatti con parenti all’estero o per aver praticato la loro religione. La repressione si estende anche oltre i confini della Cina: gli uiguri residenti all’estero vengono minacciati, privati dei contatti con le loro famiglie e, in alcuni casi, costretti a tornare in patria sotto ricatto.
La politica di separazione delle famiglie è uno degli aspetti più devastanti della strategia cinese. Decine di migliaia di bambini sono stati trasferiti in collegi statali, dove viene loro impedito di parlare la loro lingua madre e di mantenere legami con la cultura uigura. Questo sistema mira a spezzare il legame tra generazioni, impedendo ai giovani di ricevere l’eredità culturale dei loro genitori e radicandoli nella narrazione ufficiale dello Stato cinese. L’assimilazione forzata passa anche attraverso la manipolazione della vita quotidiana. Molti uiguri, per evitare arresti arbitrari, sono costretti a rinunciare alle loro pratiche religiose e a modificare il loro comportamento. Le celebrazioni tradizionali vengono sostituite da eventi statali, la cucina uigura viene progressivamente eliminata dai ristoranti locali, persino le tombe vengono distrutte per cancellare i segni tangibili della storia di questa popolazione.
Per comprendere l’impatto reale della repressione, basta osservare le storie di coloro che hanno tentato di opporsi. Difendere i propri diritti nello Xinjiang significa spesso rischiare la propria vita. Il caso di Ganati Jiens, cittadino kazako incarcerato e avvelenato dopo aver denunciato la confisca delle terre della sua famiglia, è solo uno dei tanti esempi di come il dissenso venga soffocato con metodi brutali. Anche coloro che riescono a fuggire dalla Cina vivono sotto la costante minaccia di ritorsioni, spesso incapaci di comunicare con i loro cari rimasti nel paese.
La repressione nello Xinjiang non è solo una questione di controllo politico: è un progetto di trasformazione radicale della società, che passa attraverso la sofferenza e la distruzione di vite umane. Le storie di coloro che resistono, tuttavia, dimostrano che, nonostante la brutalità del regime, la volontà di preservare l’identità uigura non è stata completamente annientata.

3. Il ruolo del lavoro forzato e della trasformazione economica della regione

Uno degli aspetti meno visibili, ma fondamentali della repressione nello Xinjiang, è quello della dimensione economica. L’internamento di massa non è soltanto una strategia di controllo sociale, ma anche un meccanismo di sfruttamento economico. Questa pratica rientra in un piano più ampio di trasformazione economica della regione, che ha visto una progressiva espropriazione delle terre agricole tradizionali e la crescita di un’industria dominata da imprese statali e private legate al Partito Comunista Cinese.
Lo Xinjiang è una regione ricca di risorse naturali, dalle riserve di petrolio e gas naturale ai giacimenti di minerali strategici come il litio e il carbone. La sua importanza economica per la Cina non si limita all’energia: è anche un nodo centrale per la Belt and Road Initiative, il progetto infrastrutturale con cui Pechino vuole rafforzare il proprio dominio commerciale in Asia centrale ed Europa. Per garantire il controllo di questi asset, il governo ha avviato un processo di industrializzazione forzata che ha visto l’inserimento degli uiguri in un sistema di lavoro coatto, mascherato da politiche di “lotta alla povertà” e “formazione professionale”.
Il trasferimento forzato della manodopera uigura nelle fabbriche di altre province cinesi è stato documentato da diverse inchieste indipendenti. Un rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute ha rivelato che almeno 80.000 uiguri sono stati inviati in stabilimenti in tutto il paese, lavorando in settori come l’industria tessile, l’elettronica e la produzione di pannelli solari. Marchi globali come Nike, Apple e Volkswagen sono stati collegati, direttamente o indirettamente, a queste catene di fornitura basate sul lavoro forzato.
L’industria del cotone e un altro pilastro della trasformazione economica della regione. Lo Xinjiang produce oltre l’85% del cotone cinese e circa il 20% del cotone mondiale. Tuttavia, numerose inchieste hanno dimostrato che questa produzione è sostenuta da un massiccio utilizzo di lavoro forzato uiguro, con migliaia di persone costrette a raccogliere cotone sotto la supervisione delle autorità. Le rivelazioni hanno portato alcuni governi a introdurre restrizioni commerciali: gli Stati Uniti, ad esempio, hanno imposto il divieto di importazione di prodotti realizzati con cotone dello Xinjiang, ma il problema rimane diffuso.
Oltre all’industria, la trasformazione economica della regione passa attraverso l’urbanizzazione forzata. Villaggi uiguri vengono smantellati, terre espropriate e intere comunità trasferite in complessi abitativi controllati dallo stato. Questa strategia non solo facilita la sorveglianza della popolazione, ma contribuisce anche alla dissoluzione del tessuto sociale e culturale uiguro. Il modello ricorda da vicino esperimenti coloniali di altri regimi autoritari, in cui lo sviluppo economico è stato utilizzato come pretesto per annientare le culture indigene. L’obiettivo finale della trasformazione economica dello Xinjiang sembra essere duplice: da un lato, garantire il controllo delle risorse e delle infrastrutture strategiche, dall’altro, alterare in modo irreversibile la composizione demografica ed economica della regione. Con un aumento della popolazione han e una graduale marginalizzazione degli uiguri nel settore produttivo, Pechino mira a rendere la regione sempre più simile al resto della Cina, sia dal punto di vista economico che sociale.

Tuttavia, la militarizzazione dell’economia e il controllo totalitario non sono senza conseguenze. Le pressioni internazionali sulle aziende coinvolte nel lavoro forzato stanno crescendo, e le sanzioni economiche potrebbero colpire duramente l’export cinese in settori chiave come il cotone e i pannelli solari. Ma il regime cinese, finora, sembra disposto a pagare questo prezzo, nella convinzione che la sua posizione economica globale gli permetta di resistere alle critiche e alle restrizioni imposte da altri paesi.

4. Controllo sulla diaspora: Pechino oltre i confini

La repressione cinese non si ferma ai confini dello Xinjiang, ma si estende ovunque vi siano uiguri. La strategia di Pechino include minacce, ricatti e pressioni diplomatiche per costringere dissidenti e attivisti a tacere. Molti uiguri che vivono all’estero hanno subito tentativi di estradizione o sono stati oggetto di intimidazioni tramite i loro familiari rimasti in Cina.

Gli strumenti utilizzati spaziano dalla revoca dei passaporti alla manipolazione delle organizzazioni internazionali. Un esempio chiave è il caso di uiguri in paesi come la Turchia, la Thailandia o l’Egitto, dove la pressione diplomatica cinese ha portato all’arresto e alla deportazione forzata di individui considerati “pericolosi” da Pechino. In Occidente, le autorità cinesi utilizzano reti di sorveglianza informatica per monitorare la diaspora e raccogliere informazioni su attivisti e studiosi. Le autorità cinesi si avvalgono inoltre di accordi di estradizione e di cooperazione di sicurezza per ottenere la deportazione forzata di dissidenti. In alcuni casi, gli uiguri arrestati nei paesi terzi vengono trasferiti direttamente nelle carceri cinesi senza alcun processo equo. Secondo organizzazioni per i diritti umani, decine di uiguri sono stati rimpatriati forzatamente in Cina, dove sono scomparsi nei campi di detenzione o sono stati condannati a lunghe pene detentive.
Pechino non si limita a colpire i dissidenti, ma tenta anche di riscrivere la narrazione pubblica sulla situazione uigura. Oltre al caso di Abduweli Ayup, in cui la Cina ha influenzato l’Unesco, vi sono numerosi episodi in cui Pechino ha utilizzato il proprio peso economico per censurare critiche in forum internazionali e università. Alcuni governi, per timore di ritorsioni commerciali, hanno evitato di concedere asilo politico agli uiguri o hanno limitato le attività di attivisti e associazioni di esuli.
Parallelamente, la Cina sfrutta la propria influenza nelle piattaforme globali per diffondere una narrativa ufficiale che dipinge gli uiguri dissidenti come “terroristi” o “estremisti”. I media statali cinesi producono costantemente documentari e articoli che cercano di screditare le testimonianze degli ex detenuti e di presentare le misure repressive come strategie di “rieducazione” e “stabilita sociale”. Il tentativo di controllo della diaspora non si limita alle operazioni di intelligence e alle pressioni diplomatiche, ma passa anche attraverso la manipolazione dell’informazione a livello globale. L’espansione della sorveglianza digitale ha inoltre reso gli uiguri all’estero vulnerabili a forme di controllo remoto. Il monitoraggio delle comunicazioni, la raccolta di dati biometrici e le minacce online sono strumenti che il governo cinese utilizza per intimidire coloro che osano parlare apertamente della repressione nello Xinjiang. Questa guerra psicologica ha un effetto paralizzante su molti membri della diaspora, che si trovano costantemente sotto il rischio di rappresaglie. L’estensione della repressione oltre i confini della Cina dimostra che il caso uiguro non è solo una questione interna, ma una manifestazione del crescente tentativo di Pechino di imporre la propria volontà a livello globale.

5. La giustificazione della repressione: terrorismo e sicurezza

Le autorità cinesi hanno giustificato le misure draconiane nello Xinjiang citando la minaccia del Turkestan Islamic Party (TIP), gruppo militante uiguro accusato di attacchi in Cina e legami con organizzazioni jihadiste. La propaganda di Pechino enfatizza la partecipazione di combattenti uiguri al conflitto siriano, presentandola come prova di una minaccia transnazionale. Tuttavia, gli esperti indipendenti sottolineano che la stragrande maggioranza degli uiguri colpiti dalla repressione non ha alcun legame con attività terroristiche, rendendo ingiustificabile la portata delle misure repressive implementate nella regione.
L’associazione tra l’identità uigura e l’estremismo islamico è stata amplificata anche a livello internazionale. Alcuni governi, pur criticando le violazioni dei diritti umani, hanno evitato di condannare apertamente le politiche cinesi, temendo ripercussioni economiche o condividendo l’approccio securitario di Pechino. In questo contesto, la Cina ha cercato di rafforzare la cooperazione con i paesi dell’Asia centrale e del Medio Oriente, ottenendo il loro sostegno diplomatico in cambio di investimenti e accordi strategici.
Parallelamente, la repressione nello Xinjiang e stata inserita in una più ampia strategia di contrasto alle “tre forze del male” – terrorismo, separatismo ed estremismo religioso – una dottrina che consente al Partito Comunista Cinese di accorpare in un’unica categoria tutte le forme di dissenso politico e identitario. Questo approccio ha portato alla criminalizzazione di pratiche culturali e religiose tradizionali, come il semplice possesso di testi religiosi o l’uso della lingua uigura nello spazio pubblico. L’uso strumentale del terrorismo da parte di Pechino è evidente anche nelle operazioni di polizia all’estero. In paesi come la Turchia e la Malesia, le autorità cinesi hanno richiesto l’estradizione di uiguri accusati di “attività terroristiche”, spesso senza prove concrete. Molti di questi individui sono in realtà rifugiati o attivisti, perseguitati esclusivamente per la loro appartenenza etnica e per il loro impegno nel denunciare le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang.

6. Il dibattito internazionale e le risposte dei governi

Se da un lato la repressione nello Xinjiang è un fatto ampiamente documentato, dall’altro la reazione dei governi stranieri è stata frammentaria e spesso condizionata da interessi economici e strategici. Mentre alcuni paesi hanno condannato apertamente le politiche cinesi, altri hanno evitato di prendere una posizione netta, per timore di ripercussioni diplomatiche o commerciali.
Gli Stati Uniti sono stati tra i più espliciti nel criticare le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, imponendo sanzioni a funzionari cinesi e vietando l’importazione di prodotti legati al lavoro forzato. Tuttavia, anche a Washington le posizioni sono state soggette a variazioni, a seconda delle priorità geopolitiche e delle relazioni economiche e diplomatiche con Pechino. L’Unione Europea, pur avendo adottato misure simili, ha mantenuto un approccio ancora più cauto, dando la priorità alla tutela dei propri interessi economici in Cina.
Nei paesi del Medio Oriente e dell’Asia la reazione è stata spesso ambigua. Molti governi, che dipendono dagli investimenti cinesi nel quadro della Belt and Road Initiative, hanno evitato qualsiasi critica a Pechino, arrivando persino a giustificare le sue politiche come misure necessarie per la stabilità. In alcuni casi (per esempio quello recentissimo della Thailandia), questi stati hanno collaborato con la Cina nel rimpatrio forzato di uiguri rifugiati nei loro territori, consegnandoli alle autorità cinesi nonostante il rischio di persecuzioni.
Nel dibattito politico globale, la questione uigura è spesso utilizzata come strumento di pressione reciproca tra le potenze. Alcuni governi denunciano le violazioni in Xinjiang per motivi umanitari, ma anche come parte di una più ampia strategia di contenimento della Cina. Allo stesso tempo, Pechino sfrutta la propria influenza economica per ridurre al minimo le critiche e garantire il sostegno di alleati strategici. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la vera sfida rimane l’efficacia delle misure adottate. Se le sanzioni e le restrizioni commerciali hanno colpito alcuni settori dell’economia cinese, non hanno però modificato in modo significativo le politiche di Pechino nello Xinjiang. Il regime continua a perseguire il proprio obiettivo di assimilazione forzata, confidando nel fatto che la dipendenza economica di molti paesi impedirà un’azione più incisiva contro di esso.

Cronologia essenziale

– 1949 – La Repubblica Popolare Cinese annette ufficialmente lo Xinjiang.

– 1954 – Creazione dello Xinjiang Production and Construction Corps (XPCC).

– 1997 – Proteste a Ghulja, seguite da repressioni violente e arresti di massa.

– 2009 – Rivolta di Urumqi, con scontri tra uiguri e han; decine di morti e arresti in massa.

– 2014 – Lancio della campagna “Colpire duramente il terrorismo violento.

– 2017-2018 – Espansione dei campi di internamento, con la detenzione di oltre un milione di uiguri.

– 2020 – Divulgazione dei “China Cables”, documenti riservati sulla repressione uigura.

– 2021 – Sanzioni occidentali contro funzionari cinesi per il lavoro forzato nello Xinjiang.

– 2023 – Continuità delle politiche repressive nonostante le denunce internazionali.

Per approfondire il tema, si possono consultare i seguenti libri:

– Darren Byler, In the Camps: China’s High-Tech Penal Colony (2021)

– Darren Byler, Terror Capitalism: Uyghur Dispossession and Masculinity in a Chinese City (2021)

– Adrian Zenz, Xinjiang: China’s Muslim Borderland (2022)

– Joanne Smith Finley, The Uyghurs: Strangers in Their Own Land (2013)

– Rian Thum, The Sacred Routes of Uyghur History (2014)

*articolo apparso sul blog substack.com il 12 marzo 2025.