Riprendiamo questo interessante testo che invita, partendo dalla guerra in Ucraina ma non solo, a riflettere sulla urgente necessità di costruire un’altra sinistra. Pensiamo che questo testo – che ha riferimenti alla situazione della sinistra italiana – sia di grande interesse per chiunque, da sinistra e non solo in Italia, si ponga oggi una serie di domande fondamentali. Per questo lo consegniamo ai nostri lettori e alle nostre lettrici. (Red)
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Il primo quarto di questo XXI° secolo passerà probabilmente alla storia come un periodo nel quale l’accelerazione del cambiamento storico, tecnologico e delle forme del potere ha pochi paragoni nel passato. Un’accelerazione nella quale i giudizi e le previsioni vengono spesso confutati in pochissimo tempo, talvolta in pochi giorni, un’accelerazione del cambiamento che lascia spiazzate le persone, che le fa fuggire nel comfort delle bolle social e nella sicurezza del proprio clan di appartenenza, cercando la sicurezza perduta, definendo o inventandosi una rappresentazione del mondo che, talvolta, ha scarso riscontro con la realtà.
All’interno di questa cornice anche il pensiero di quella che genericamente chiamiamo sinistra – ma che vedremo generica non è affatto – va in affanno e, come sempre, questo è stato foriero di nuove divisioni e contrasti che, nel quadro mutevole della contemporaneità, sembrano, più che nel passato, irreparabili.
Tra le tantissime domande che dovremmo porci, a sinistra, ce ne sono almeno due che vanno affrontate.
A fronte di cambiamenti epocali siamo di fronte ad una crisi della sinistra nel senso più stretto del termine, e cioè, di una fase, un ciclo destinato a terminare, per poi ripartire con un nuovo ciclo progressista e positivo oppure no, siamo di fronte ad una crisi strutturale perché tale pensiero è incapace e perdente nell’inserirsi in un cambiamento sistemico della storia? Siamo di fronte ad un momento fascista del mondo, per dirla con Ilya Budraitskis, oppure questo non è un semplice momento bensì la direzione di una traiettoria storica che ci sta portando verso un mondo diverso, nel quale fascismo, tecnofeudalesimo, usando la definizione di Varoufakis, o addirittura una sorta di restaurazione da Ancien Régime, un mondo nel quale la grande rendita finanziaria e personaggi dal potere globale alla Elon Mask regnano al di fuori di qualsiasi dimensione democratica, saranno le componenti di base, le strutture portanti a livello globale?
Insomma, la storia, in termini sociali, ha messo la retromarcia e viaggia a velocità spedita verso un mondo molto più simile alla pre-modernità oppure no?
A questa prima domanda è difficile rispondere ora anche se, a opinione di chi scrive, sono anni che tutto sembra convergere verso la definizione di una nuova e terribile traiettoria storica.
La seconda domanda invece riguarda in modo più specifico la definizione di “sinistra”. Non si possono fare ragionamenti in questo campo se non intendiamo colmare un deficit definitorio pericoloso sia per la confusione, figlia di questi tempi, che tale termine comporta, che per comprendere se e come una qualche forma di sinistra sia in grado di contrastare, agire ma anche semplicemente sopravvivere nelle tinte sempre più fosche del quadro che si sta delineando.
Definire la “sinistra”, la necessità di un ritorno alle origini
Nel marasma di quasi due secoli e mezzo di elaborazione, divisioni e sviluppi, successi e fallimenti materiali, è necessario ritornare indietro per capire da dove parte tutto ciò. Non è affatto banale contestualizzare il momento storico nel quale questa definizione nasce, quale sia la presa di coscienza e la visione del mondo che da lì in avanti si farà strada fino ad oggi. Il momento storico è quello del maggio 1789 quando vennero convocati gli stati generali dal Re di Francia. All’interno dell’emiciclo nel quale si tennero, i radicali di Honoré Gabriel Riqueti de Mirabeau furono collocati alla sinistra del re, i conservatori alla destra. Da allora, anche all’Assemblea Nazionale successiva, questa composizione si mantenne.
La rivoluzione fu resa possibile dal luglio dello stesso anno con la presa della Bastiglia, ma la presa di coscienza definitiva, quella della possibilità della realizzazione di un mondo diverso rispetto al passato, il passaggio dalla rivolta alla rivoluzione, lo scardinamento di una concezione ciclica della storia, l’idea del progresso come motore della storia, prende corpo nel settembre, quando all’Assemblea Nazionale la parte sinistra dell’emiciclo votò contro il potere di veto del re proposto dai deputati realisti.
Da lì in poi una nuova Weltanschauung prese piede, un modo rivoluzionario di vedere la storia. È appena il caso di ricordare che il termine “Weltanschauung” si afferma proprio in quegli anni, nel 1790, con la pubblicazione della “Critica del giudizio” di Immanuel Kant, un termine che poteva benissimo rimanere in un contesto specialistico filosofico, ma che invece da quel contesto storico in avanti ha mantenuto il suo significato e diffusione a livelli molto meno ristretti di altri termini specialistici della materia filosofica.
Il senso progressista della storia è alla base di questa visione e concezione del mondo: politici di destra di ogni epoca, anche recente, hanno sempre identificato l’inizio della decadenza del nostro mondo in quel 1789. Vero che anche le critiche a sinistra rivolte ad una rivoluzione borghese e sostanzialmente occidentale non mancano – qui non è lo spazio né l’argomento di discussione – ma bisognerebbe sottolineare con forza che proprio il senso progressista della storia in termini sociali è venuto meno in questi ultimi decenni, sostituito dalla rinuncia del progresso o addirittura dalla sicurezza sociale a favore della mera sicurezza e dal surrogato del progresso sociale con un progresso tecnologico come via di fuga dalla realtà pagando spesso coscientemente il prezzo di un pervasivo controllo sociale.
Il fatto che a livello globale in una buona fetta del mondo “democratico”, quello nel quale il voto è concesso, la gente non vada a votare o voti personaggi che fanno di tutto per sbarazzarsi della democrazia stessa, è il segnale migliore che la visione progressista del mondo sembra morta, si stia chiudendo un ciclo storico lungo due secoli e mezzo, chiusura che però va a sovrapporsi, nel XXI secolo, alla chiusura di un altro ciclo, quello eurocentrico e occidentale in generale. L’effetto combinato di entrambe le chiusure non aiuta certo ad immaginarsi un mondo migliore il quale, in qualche modo e in chiave di progresso sociale, è assolutamente da recuperare in un mondo nel quale in pochi decenni si è passati dal concetto della “fine della Storia” a quello di regresso storico in termini globali. Tutto questo non è facile da digerire perché dal 1789 ad oggi dobbiamo tenere conto di oltre due secoli nei quali i fallimenti sono stati numerosi e spesso imponenti.
La prigione del XX° secolo e l’impotenza del XXI°
Quello che segue non ha la pretesa di essere una lezione di storia esaustiva ma intende dare per punti e spunti riferimenti storici, a favore di un nuovo processo analitico del quale, forse, abbiamo veramente tanto bisogno.
Ogni tentativo di costruzione di un nuovo mondo passa, grosso modo, per tre fasi: la prima è quella della critica sistemica del presente, la seconda è quella della rappresentazione dell’alternativa futura, e la terza è quella della realizzazione nella materialità della storia dell’alternativa stessa. La storia delle rivoluzioni è costellata non solo da successi ma anche da errori ed orrori, a partire già dalla Rivoluzione francese; ma ciò non toglie che per secoli quella sorta di egemonia culturale per la quale un mondo migliore si può sempre realizzare ci ha accompagnato ed è quella cosa che, ripetiamo, è venuta a mancare oggi. Al di là di questa considerazione possiamo però dividere anche se in maniera molto grossolana un XIX° secolo nel quale lo sviluppo del pensiero a sinistra arriva al suo culmine e nel quale la figura di Marx è indiscutibilmente centrale. È anche un secolo costellato da moti di rivolta e tentativi rivoluzionari anche anticoloniali quindi non solo a livello europeo bensì globale, sebbene tali tentativi ebbero raramente successo.
Sempre in termini grossolani possiamo invece definire il XX secolo come quello nel quale, si realizzano nella materialità storica i tentativi rivoluzionari e che saranno destinati a durare nel tempo, perlomeno fino alla fine del “secolo breve”.
La fine del secolo breve con la caduta rovinosa del Socialismo reale cambia in maniera definitiva una traiettoria storica già incrinata negli anni ’80 dal neoliberalismo occidentale e dalla sconfitta di classe subita dai lavoratori a partire dalle vittorie significative di Margaret Thatcher e dall’elezione di Reagan negli USA. Non si fa a tempo a teorizzare la fine della storia che la storia stessa smentisce la teoria nel suo divenire: lo sdoganamento della guerra, la rottura di quel tabù che ci portavamo dietro dalla fine della seconda guerra mondiale destabilizzano il Golfo Persico e polverizzano la Jugoslavia, unico paese “non allineato” presente in Europa. Questo non significa che dalla fine della seconda guerra mondiale non abbiamo avuto pesantissimi conflitti sparsi nel mondo ma ora ci si trova in una nuova condizione storica nella quale una sola potenza sembra poter creare un Nuovo ordine mondiale.
A sinistra il nuovo quadro si delinea apparentemente di facile lettura e l’innovazione dell’altermondialismo per un quinquennio, dal 1999 al 2003, da Seattle alla seconda Guerra del Golfo (passando dal terribile 2001 genovese), sembra dare slancio ad una nuova prospettiva che comprende la critica sistemica del presente e il tentativo di costruire una rappresentazione dell’alternativa all’altezza della critica stessa. Quello che viene a mancare, però, al di là delle difficoltà di elaborazione è la possibilità del terzo passaggio, quello della realizzazione nella materialità della storia dell’alternativa stessa. I movimenti di massa non portano né possono portare, in quel contesto storico, a nulla di simile a quanto accaduto né nel 1789 in Francia e tantomeno nel 1917 in Russia o nel 1949 in Cina, anzi, sono persino ben lungi dai successi relativi dei moti rivoluzionari del XIX secolo: la più grande manifestazione della storia dell’umanità contro la guerra nel febbraio del 2003 non ritarderà di un solo istante la Seconda guerra del Golfo, che scoppierà nei termini e nelle modalità decise dalla potenza statunitense e dai suoi alleati da lì a un mese.
Nel giro di due anni, quindi, si passa dalla repressione feroce del movimento di Genova (ma anche dalle precedenti repressioni a Napoli e persino della civilissima Svezia) all’indifferenza totale: quando concedi l’indifferenza totale a quello che potrebbe essere un nemico di sistema significa che non lo consideri più tale, significa che non hai la minima possibilità di realizzare una qualsiasi alternativa strutturale allo status quo, neppure per il futuro. La sconfitta del movimento altermondialista e, in particolare, del movimento pacifista fu in questi termini terribile e ancora oggi sottovalutiamo la portata di quella sconfitta. Ma su questo ci torneremo più avanti.
C’è un altro passaggio che segna in maniera più netta questa sconfitta e inizia a configurare quella prospettiva, quella visione del mondo che supera i termini thatcheriani per i quali non ci sono alternative: le alternative ci sono sì, ma sono regressive. La crisi finanziaria globale del 2007/2008 da un lato appare come una crisi sistemica del capitalismo ma dall’altro sancisce definitivamente la sua vittoria e sopravvivenza anche a scapito delle grandi potenze statali, degli USA in particolare: gli Stati uniti si dissangueranno finanziariamente per salvare il loro sistema bancario, oggi dovessero ripeterlo in quei termini e in quelle dimensioni probabilmente non avrebbero più le risorse per farlo. Questo passaggio segna però anche un’altra sconfitta per qualsiasi forma alternativa sistemica. In quel periodo i movimenti non erano spariti così come le vecchie e nuove organizzazioni della sinistra.
Occupy Wall Street fu uno dei movimenti più maturi nel sottolineare e denunciare il modello di rapina del capitalismo finanziario ma ancora una volta vanno sottolineate due sconfitte: Occupy Wall Street se ne stava in Zuccotti Park, Wall street continuava con i suoi alti e bassi a non crollare e il capitalismo finanziario a prosperare, evolversi e ingigantirsi. Ancora una volta vige una sostanziale indifferenza verso un potenziale avversario di sistema che si ritiene pericoloso tanto quanto un marginale fenomeno di costume. Eppure Occupy fu, in quegli anni, uno dei migliori serbatoi di elaborazione di pensiero sul presente e sul futuro del sistema capitalista ma la seconda parte della sconfitta sta appunto in questo: quel periodo certifica la completa separazione tra bontà dell’analisi e divenire storico, certifica che il sistema dominante non crolla semplicemente sotto il peso delle contraddizioni, anzi, non trova credibili avversari sulla sua strada.
Come si diceva ricordando i fatti di Genova e tutta l’analisi del mondo altermondialista di fronte alla più profonda crisi del capitalismo dal 1929, il movimento aveva avuto ragione ma aveva avuto solo quella. Nello stesso anno della nascita di Occupy ci furono però concreti tentativi di cambiare le cose fuori dall’Occidente, le Primavere Arabe cercarono concretamente di realizzare nella materialità della storia un cambiamento sistemico e strutturale. Fallirono, non vennero sostenute e proprio da quell’esperienza si possono rintracciare quei primi attriti, quelle prime incomprensioni e spaccature che saranno l’origine delle voragini incolmabili che divideranno in futuro la sinistra ma anche altri movimenti mondiali, in primis quello pacifista.
A sinistra ci sono almeno due grandi rimozioni da considerare: la prima è la rimozione dell’avvento del XXI secolo con tutti i processi di cambiamento accelerato in chiave sia economica ma, soprattutto, sociale, inteso specificatamente come incapacità di lettura del presente finalizzata all’elaborazione di un pensiero in grado di prefigurarsi un qualsiasi cambiamento sistemico e strutturale e la seconda grande rimozione è quella dell’esistenza autonoma e cosciente del mondo dell’est Europa. Se da un lato, per un verso o per l’altro l’Africa, l’Asia e l’America Latina erano se non al centro del pensiero e dell’azione dei movimenti perlomeno considerati rilevanti, anche grazie allo sviluppo dell’altermondialismo a cavallo dei due millenni, il mondo dell’est europeo è e rimane un mondo oscuro e pressoché non considerato.
Tra le tante interpretazioni del perché ciò sia potuto accadere possiamo abbozzarne almeno due: una di carattere più storico e l’altra più legata ad una dimensione di medio periodo e contingente.
Da un lato, mezzo millennio circa di eurocentrismo era stato capace di portare rapina, fame e distruzione in tutto il pianeta, dall’altro, proprio la Rivoluzione Francese porta una fondamentale trasformazione nelle strutture ideologiche del sistema-mondo moderno lasciando in eredità che l’idea del cambiamento politico fosse normale e costante e, assieme a questa, quella secondo cui la sovranità risiedeva nel popolo, unica vera e propria fonte di legittimazione di un sistema politico. In un certo senso fu come se l’Europa imponesse il suo dominio e, allo stesso tempo, ne esportasse l’antidoto; per la prima volta, perlomeno in termini sistemici, l’espansione occidentale porta con sé un germe che può rivelarsi letale al potere dominante e colonialista, che non è più semplicemente quello della rivolta nel malcontento ma quello della rivoluzione intesa come concreta possibilità di cambiamento.
Sarebbe interessante approfondire, in altri contesti, quanto entrambe le visioni e le tensioni tra un’ Europa esportatrice sostanzialmente di saccheggio e morte a livello pressoché planetario fosse diventata anche la culla di un pensiero progressista e di liberazione opposto al dominio stesso ma, in questa sede, al di là e al di fuori di ogni ragionamento e analisi sul presunto o meno universalismo di questo quadro complessivo, è difficile non riconoscere la comune matrice occidentale di queste due opposte visioni del mondo. Potremmo però definire questa matrice forse troppo occidentale nella misura in cui ci si confronta con il mondo dell’est Europa, quel mondo di cultura slava che aveva il suo centro in un impero di dimensioni continentali come quello russo.
Eppure fu proprio lì che i moti rivoluzionari, l’evoluzione del pensiero e dell’azione ottocentesca portarono al successo la prima grande rivoluzione, il primo cambiamento sistemico nelle prime decadi del XX secolo. Per la sinistra occidentale, il problema era risolto, la rivoluzione compiuta, anzi l’esportazione del socialismo continuava ad est. Una sorta di delega e sostanziale disinteresse per la complessità di un intero continente a cavallo tra Europa e Asia era stata delegata al consolidamento della rivoluzione, alla cancellazione di un mondo apparentemente arcaico da cambiare alla radice, al nuovo mondo che era sorto.
La scarsa conoscenza di popoli e culture continuerà per molto tempo in tutti i campi, persino quello letterario: nel nostro paese fino a pochi decenni fa le stesse opere letterarie russe erano frutto della traduzione dei traduttori francesi delle stesse. In un certo senso, si potrebbe dire che la conoscenza di quel mondo era sempre mediata da qualcosa o qualcuno e, soprattutto dopo la rivoluzione dalla mediazione del partito e, successivamente dall’opacità e dalla propaganda dell’involuzione sociale del Socialismo reale. Si sarebbe potuto rimediare a questa sostanziale ignoranza dopo il periodo 1989-91, a partire da una più approfondita analisi del perché l’intero impero del Socialismo reale si sfaldò molto più facilmente di un castello di carte, quasi un unicum nella storia dell’umanità, ed invece fu proprio quello il periodo della seconda grande rimozione, ma che portò con sé anche astio e rancore nei confronti del mondo dell’est Europa.
Il detonatore ucraino
L’invasione su larga scala dell’Ucraina fece esplodere definitivamente la sinistra frantumandola al suo interno. Difficile dire quanto gli stessi attori coinvolti fossero coscienti di quanta polvere si stava accumulando e nascondendo sotto il tappeto, ma quella polvere ormai non poteva più restare nascosta e, soprattutto, era polvere altamente esplosiva.
Inutile rivangare confronti di tre anni nei quali, a dispetto di ogni tentativo dialettico, le posizioni si sono cristallizzate e rimaste immutate e hanno proceduto ad una biforcazione nella lettura della storia divergente e ormai inconciliabile: l’insegnamento centrale di questi tre anni, però, è che quando le fratture sono di natura assiomatica la dialettica non può nulla, in politica l’assioma si trasforma in dogma, il dogma ha natura di credenza religiosa e la religione non ha a che fare con la materialità della storia.

Quali erano, molto sinteticamente e sono tuttora i principali dogmi di una gran parte della sinistra occidentale nella lettura della guerra in Ucraina, o meglio della guerra all’Ucraina?
- La Guerra è stata scatenata dall’allargamento e dalla minaccia della Nato alla Russia
- L’Ucraina stava per entrare nella NATO.
- In Ucraina c’era una guerra civile iniziata nel 2014 a causa dell’oppressione da parte degli Ucraini nei confronti dei russofoni.
- Quello di Euromaidan è stato un colpo di stato.
- La guerra dell’Ucraina è una guerra per procura
Tre anni di confronti serrati di dimostrazioni e accuse reciproche su chi aveva fatto cosa, non rispettato accordi e impegni, fiumi di parole totalmente inutili, visti i risultati.
C’era una lettura alternativa anche solo di questi dogmi che la sinistra occidentale ha ostinatamente portato avanti? Certamente.
- La NATO era in fase di smantellamento. Le stesse truppe americane in Europa erano passate da 315.000 nel 1989 a circa 107.000 nel 1995, a 60.000 nel 2006, rimanendo sostanzialmente stabili fino all’invasione del febbraio 2022. Anche la dislocazione missilistica della Nato è pressoché stabile da oltre trent’anni. Nel 2019, il presidente Macron definì la NATO un peso morto, un organismo “in stato di morte cerebrale”. Con l’invasione Putin ha solo ottenuto che due paesi, Svezia e Finlandia entrassero nella NATO e con altri paesi scandinavi sin da subito coordinassero un progetto di difesa comune: Helsinki e San Pietroburgo distano in linea d’aria solo 300 kilometri circa. Putin ha fatto esattamente il contrario: ha rafforzato la NATO (per il momento). La situazione dell’Ucraina e della sua entrata nella NATO era congelata almeno dal 2008 e contrastata da paesi come Francia e Germania.
Perché allora non considerare affatto un’altra ipotesi molto più realistica e comprensibile?: l’invasione su larga scala dell’Ucraina, progettata e iniziata nel 2014, avviene nel momento di maggior debolezza della NATO stessa. Ma soprattutto una cosa che continua a sfuggire ai più: la NATO non è un soggetto politico, non è uno stato ma un’alleanza di difesa tra stati che oggi hanno anche interessi e obiettivi molto diversi se non opposti tra di loro. Coloro che sostengono la tesi della responsabilità del conflitto cosa diranno se Trump se ne sbarazzerà? Se gli USA stessi decideranno di uscirne? Di eliminare questo intralcio, questo ferrovecchio novecentesco che impedisce, di fatto, le mire di conquista dell’Impero d’occidente?
Vale la pena ricordare che, sull’altro versante, la Russia ha iniziato a schierare missili balistici a corto raggio Iskander-M nell’enclave di Kaliningrad (la vecchia Königsberg, città natale del sopracitato Kant), situata tra Polonia e Lituania, a partire dal 2013, missili in grado di trasportare testate nucleari e che hanno una gittata che consente di colpire città come Berlino. Il Cremlino ha confermato, poi, l’installazione di questi sistemi missilistici nel dicembre 2013, dichiarando che ciò non contraddiceva gli accordi internazionali. Nel corso degli anni, la presenza militare russa a Kaliningrad è stata ulteriormente rafforzata. Nel 2018, è stato confermato il dispiegamento di un numero non specificato di missili Iskander nella regione. Nel bel mezzo di queste installazioni, nel 2014 la Russia invade la Crimea. Di fronte a tutto questo le reazioni della NATO, dell’Europa, Usa e compagnia varia sono pari a zero. - Sulla questione dell’oppressione dei russofoni inutile parlare, l’ignoranza e la malafede con la quale l’argomento è stato trattato ha ricevuto risposte sufficienti e dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’interesse nei confronti dei popoli dell’est Europa da parte della sinistra occidentale è più o meno quello che riserverebbe alle tribù indigene della Papua Nuova Guinea.
- La questione di Euromaidan e del colpo di stato è stata materia per gli storici e indagine accurata documentale. Non fu colpo di stato. Persino lo stesso Viktor Janukovyč affermò in un’intervista di essere stato prelevato e portato in Russia senza preavviso dagli stessi militari russi mentre dormiva a casa sua nel cuore della notte.
Ma perché si continua sostenere tutt’altra versione? Cosa ha scatenato e continua a mantenere questa ondata di sostanziale irrazionalità politica?
All’inizio del conflitto scrissi che per la sinistra occidentale i popoli dell’est dovevano scontare una sorta di peccato originale: la caduta del socialismo reale è ancora un trauma irrisolto del quale ad occidente non si è preso coscienza. Da un lato il socialismo reale, per assurdo, fece molto bene il suo lavoro di pungolo, di pericolo reale al capitalismo occidentale e aiutò la concessione e le conquiste della classe lavoratrice in occidente. Sebbene la lotta di classe avesse veduto sempre più in difficoltà e perdenti i lavoratori a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, il crollo del sistema “socialista” all’est definì in maniera irreversibile l’inversione di tendenza a sfavore delle classi lavoratrici occidentali, ma soprattutto pose fine nella maniera più impensabile possibile, al limite del ridicolo, nelle modalità nelle quali avvenne, all’esperimento di alternativa al capitalismo iniziato nel 1917.
Il trauma fu terribile perché fu la fine non di una teoria ma proprio della sua principale sperimentazione nella storia materiale. Ad est, la situazione era opposta, l’entusiasmo con il quale i popoli vissero la fine di quel sistema fu incontenibile, e nel caos che ne derivò, il peggior capitalismo approfittò della situazione, prese piede, sfruttò e saccheggiò una buona fetta dell’est Europa.
Questo passaggio storico e le modalità nelle quali fu vissuto a occidente, portarono rancore, astio e, come dimostra quella sinistra che subito dopo l’invasione russa si affrettò a screditare governo e popolo ucraino e giustificare l’invasore, sostanziale risentimento nei confronti dei popoli dell’est.
Per la sinistra occidentale questi popoli avevano rotto il giocattolo, avevano rafforzato il nemico capitalista a livello globale: la sinistra occidentale, in fondo, non ha mai capito e non ha mai accettato che di imperialismo non ce ne fosse solo uno così come non ha mai accettato una lettura coloniale dei rapporti tra la Russia e i suoi cosiddetti “stati satelliti”, non ha mai capito che la liberazione dall’imperialismo e dal colonialismo era avvenuta anche ad est; la sinistra occidentale orfana del socialismo reale accusava questi popoli di aver buttato via il bambino con l’acqua sporca senza aver il coraggio di ammettere che l’acqua sporca era ormai talmente tanta che il bambino ci era affogato dentro da un pezzo.
Da un punto di vista etico, morale e non solo politico la questione della “guerra per procura” è però quella che svela il lato peggiore della sinistra occidentale, quel lato oscuro, o meglio, occidentale, troppo occidentale, che si riscontra un po’ in tutti, dalle dirigenze dei partiti agli ultimi militanti della base, anzi, proprio nella militanza di base questo tratto culturale è particolarmente presente. Infatti si tratta di un problema culturale a tutti gli effetti.
Se la teoria della lotta contro il cosiddetto “nemico principale” è esplicitata di fatto dalle cosiddette frange rosso-brune e neostaliniste della sinistra, di fatto rimane presente a livello diffuso, anche se mai citata in maniera esplicita. Qualsiasi rivolta contro il sistema d’oppressione occidentale, tanto in Medio Oriente quanto in America Latina, riceverebbe sempre ben altra accoglienza rispetto a qualsiasi tentativo di rivolta contro un oppressore che non fosse occidentale. Queste diverse reazioni le abbiamo cominciate a sperimentare con la distruzione della Jugoslavia, con le primavere arabe, ed esplicitate con l’invasione dell’Ucraina.
Ora, nella spaventosa trasformazione di questo mondo, le teorie del “nemico principale” sono parzialmente scusabili solo da parte della sinistra latinoamericana, che vive da sempre con la spada di Damocle statunitense esattamente sopra la sua testa, ma in Europa non sono accettabili: l’accelerazione dei cambiamenti è tale che proporre questa cosa, oggi, è un non senso, nella misura in cui, ad esempio, una nuova triade imperiale composta da Usa, Russia e Cina, sta convergendo verso una nuova e comune visione ideologica nella quale qualsiasi rappresentazione di un mondo che ha a che fare con un qualcosa di sinistra non ha spazio. Il condiviso supporto della nuova triade (Cina compresa) ai nazisti dell’AFD nelle elezioni tedesche ne è solo un esempio.
Tornando alla specificità ucraina e dei popoli dell’est, l’approccio della sinistra occidentale nel concetto di “guerra per procura” non solo non accetta il fatto che possa esistere più di un imperialismo ma, come ha guardato con sostanziale sospetto e, talvolta, disprezzo tutte le cosiddette “rivoluzioni arancioni”, nega ai popoli dell’est una sostanziale autonomia di pensiero e di azione, quei popoli sono, con tale giudizio, semplici pedine, se non automi mossi sempre da qualcun altro, pronti alla rivolta o a farsi persino ammazzare perché qualcuno glielo ordina. Questa visione delle cose continua a persistere ancora oggi, una visione e un giudizio che mai si applicherebbe a nessun popolo che si rivoltasse contro l’oppressore statunitense o europeo.
In tal senso la sinistra occidentale sperando di poter lottare contro il sistema occidentale stesso, entra in contraddizione nella misura in cui spende le sue energie all’interno di questa missione cercando di impedire e screditare qualsiasi altro potenziale tentativo, anche rivoluzionario, contro un oppressore diverso e potenziale alleato nella lotta al capitalismo di casa propria. L’irrazionale fiducia nel cosiddetto multipolarismo, nel fantastico mondo migliore dei BRICS sono figli di questo pensiero che ha conseguenze pesantissime però anche a livello teorico. Tale orientamento taglia le gambe a qualsiasi concezione di lotta di classe, di autodeterminazione dei popoli, di dimensione internazionalista delle lotte e, nell’impossibilità di una qualsiasi forma di vittoria e di cambiamento sistemico, accetta il surrogato della geopolitica più retriva.
In questo modo la sinistra occidentale non solo non è più l’altra faccia della medaglia dell’occidente ma si pone sullo stesso lato della medaglia, altrettanto imperialista e coloniale come il sistema che intenderebbe combattere e fa di più: togliendo la dignità ai popoli dell’est Europa, negando loro di essere in grado di prendere autonome decisione persino di fronte ad una invasione straniera, negandogli persino il riconoscimento della loro lotta come “resistenza”, si dimostra altrettanto razzista in linea con l’occidente colonialista e convergente con il processo politico che le destre globali stanno portando avanti.
Una sinistra di questo genere non serve, è tossica, nociva e destinata ad essere fagocitata dalla destra. Non è più sinistra. Ci dobbiamo allontanare, risparmiare il tempo delle inutili discussioni e dei confronti se vogliamo a provare a costruirne un’altra di cui abbiamo bisogno.
(Pseudo)socialismo e barbarie
“La Russia non è mia nemica”, “La Cina non è mia nemica” sono frasi che campeggiano talvolta anche in costosissimi poster 6 per 3 metri per le strade italiane, soprattutto la prima, realizzati e occupati in spazi lautamente pagati dall’estrema destra italiana alla quale una parte della sinistra si accoda. Anche questo è un segnale di regresso storico: sebbene Napoleone abbia ammazzato gli ideali rivoluzionari, facendosi incoronare imperatore ebbe il buon gusto di farsi incoronare “imperatore dei Francesi” e non, come era prima della rivoluzione, “re di Francia”. La sottomissione alla geopolitica ha eliminato i popoli e lasciato stati e imperi. La visione fascio-feudale globale accettata implicitamente da sinistra è la resa finale, l’accettazione dell’impossibilità al cambiamento sistemico; il multipolarismo e l’entusiasmo di alcuni nei confronti dei BRICS sostituisce le possibilità del cambiamento storico e sociale con la potenziale scelta di divenire vassalli di altri grandi signori feudatari.

Inoltre stiamo assistendo ad una convergenza ideologica della nuova triade e dei loro vassalli che si basa appunto sulla regressione di qualsiasi diritto tanto individuale quanto collettivo, un minimo comune denominatore che elimina il diritto internazionale e si basa esclusivamente sulla forza in maniera esplicita. Una forza oppressiva crescente che si applica in maniera indiscriminata tanto all’interno quanto all’esterno di questi tre imperi. Ognuno di questi, pur partendo da posizioni e contesti diversi è regredito sul piano democratico, aumentato lo sfruttamento tanto delle minoranze quanto della classe lavoratrice. Basti pensare alla Cina, impero del quale abbiamo fin qui parlato poco, alle migliaia delle sue rivolte interne, a quelle esterne da parte dei lavoratori vessati e sfruttati nelle sue aziende sparse per mezza Asia, alla sua organizzazione economica la cui competitività si basa strutturalmente sulla compressione dei salari. Ricordiamo quello che raccontavano i compagni greci quando, durante la crisi greca, gli imprenditori cinesi arrivarono come avvoltoi ad acquisire i porti del paese a prezzi stracciati e solo a patto di avere i sindacati fuori dai piedi, alla polarizzazione crescente della ricchezza interna come quella di un qualsiasi altro stato capitalista.
Purtroppo la sinistra occidentale guarda il mondo con le lenti di oltre trent’anni fa, mentre questo cambia ormai di mese in mese se non di settimana in settimana. Se tornassimo indietro solo di un secolo, dagli anni novanta dell’ottocento al 1925 ci accorgeremmo che in trent’anni finì la Belle époque, ci fu una guerra mondiale, una rivoluzione in Russia, e il fascismo, nel 1925, era già saldamente al potere in Italia. Molti a sinistra sono rimasti indietro nell’analisi di quanto accade, sembrano non avere strumenti e categorie adeguate oppure il pregiudizio politico e razzista prevale per i motivi sopra riportati: molte grandi figure di intellettuali del nostro paese, docenti universitari, espertissimi di Marx, Lenin, Gramsci, Togliatti, ecc., subito nei primi giorni dell’invasione russa erano solo capaci di balbettare “Ucraina – Bandera – nazisti – Azov” e andare a manifestare contro la NATO. Una situazione non solo imbarazzante e deprimente ma, soprattutto, demenziale.
Pace, Pacifismo e Resistenza
Possiamo considerare la Pace come un valore assoluto, un valore da perseguire, l’obiettivo da raggiungere che si staglia all’orizzonte. Il pacifismo no, non può esserlo perché è un valore relativo al contesto storico.
La frase di Yuliya Yurchenko per la quale “si può essere antimperialisti e antifascisti o pacifisti, ma non entrambi” si potrebbe leggere in questo modo. Se gli assiomi, la “responsabilità della NATO”, la “guerra per procura” e tutti gli altri saltano, e se si prendono in considerazione altre narrazioni basate su ben altri dati, il pacifismo stesso salta: non esiste materialmente alcuna possibilità di disarmare l’oppresso, lasciando via libera all’oppressore e pretendere di portarlo al tavolo di qualsiasi fantasiosa trattativa.
Non siamo né ad un pranzo di gala né alla risoluzione di una scaramuccia tra gentiluomini inglesi usciti da un romanzo rosa del XIX secolo. Il mondo di oggi, purtroppo, si distingue tra chi ha una clava in mano e chi non ce l’ha. Se disarmi l’oppresso non porti alle trattative l’oppressore ma riceverai un caloroso ringraziamento da parte sua, non porti la pace ma alla resa, all’occupazione, alla spartizione al genocidio fisico o perlomeno culturale, alla diaspora, alla sparizione di popoli e nazioni: non capire, ad esempio, che questo è il destino che si vorrebbe riservare tanto agli Ucraini quanto ai Palestinesi, significa essere fuori dalla storia e dalla comprensione dei suoi processi.

La pace non la ottieni con una bella manifestazione e qualche pressioncina su questo o quel governo: questa è solo acqua passata. Se vuoi la pace te la devi guadagnare e lo devi fare con la Resistenza come fecero i nostri avi otto decenni fa. I trattati di pace, come quello offerto da Trump, diventano carta straccia in breve tempo e, quello offerto all’Ucraina è il plastico esempio di spartizione coloniale tra imperi e palesemente temporaneo. Immaginiamo, banalizzando, il dialogo tra Usa e Russia nell’elaborazione della proposta: “Ok, facciamo un accordo, diamo un po’ a tutti dell’ossigeno. Finché questa bombola d’ossigeno dura avremo tempo per decidere cosa farne di questo paese, valutiamo quanto vale, oppure, cosa mi dai in cambio” e via discorrendo. Insomma, pace, armistizio o resa che sia, se fossi un Ucraino terrei comunque ben oliato il fucile, pronto a puntarlo ad est come a ovest a seconda delle decisioni reali, le quali con gli accordi e carta straccia varia hanno ben poco a che fare.
Purtroppo, però, questa situazione vale non solo per l’Ucraina, la questione si è fatta globale così come il fascismo montante e, dispiace dirlo, ma il fascismo non lo si combatte solo con la cultura come alcune anime belle pretendono almeno per due motivi: il primo che di cultura se n’è prodotta tanta ma a quanto pare ha funzionato poco, il secondo, riguarda la nostra memoria un po’ selettiva, ci dimentichiamo che il fascismo fu sconfitto militarmente ma non culturalmente ed oggi come (o forse più di) allora lo scontro, crudo, fisico e militare appare inevitabile ma tutto questo con un’ulteriore complicazione.
Che fare?
Lenin scrisse il suo “Che fare” a cavallo tra il 1901 e il 1902; l’elaborazione e i tentativi storici di costruire quello che anche allora avremmo potuto definire “l’altro mondo possibile” avevano più di un secolo, poi Marx ed Engels avevano dato a questa costruzione un impulso incredibile e abbastanza unico nella storia della politica, non solo di quella moderna ma forse di tutti i tempi. Insomma, si andava avanti, in mezzo a mille difficoltà, massacri e guerre, ma esisteva quella prospettiva del “Sol dell’avvenir” che oggi non esiste più.
Oggi, in una qualsiasi situazione di Resistenza o Rivoluzionaria, la sinistra è assente come attore, come forza capace di incidere e dare direzioni diverse al processo storico in corso: un secolo fa non era così. Lo sa bene la sinistra ucraina che teme, come sottolinea Hanna Perekhoda, in un quadro di resa e spartizione del suo paese (una sorta di pace terrificante dei cimiteri), un rafforzamento della destra estrema in Ucraina: la storia del XX secolo lo dovrebbe insegnare che questa è un possibilità più che concreta; lo sanno bene anche i compagni palestinesi che si trovano schiacciati tra il genocidio israeliano e i clerico-fascisti di Hamas, quelli siriani che si sono liberati da Assad ma che vivono nell’incertezza in Siria e che possono sperare di poter esprimere la loro opposizione in un futuro più democratico senza finire, come prima, in qualche fossa comune con altre decine o centinaia di migliaia di persone e l’elenco potrebbe continuare. Insomma, ci troviamo in un mondo che sta mutando rapidamente nel quale la sinistra non ha più alcun ruolo in nessuno scenario di cambiamento.
Se tornassimo all’inizio di questa analisi ci accorgeremmo che potremmo rappresentarci le fortune della sinistra anche in maniera grafica: un inizio in ascesa alla fine del XVIII secolo, l’apice nei primi decenni del XX secolo per iniziare la parabola discendente fino ad oggi. Potrebbe sembrare molto brutto il paragone ma si potrebbe sovrapporre ad un grafico che rappresenta il ciclo di vita di un prodotto, di quelli che si studiano in marketing, ma la realtà è molto peggio di questa rappresentazione: il ciclo rappresentato con agonia nel finale è un ciclo storico, e la sinistra rischia molto seriamente di trasformarsi in un prodotto di scarto, buona solo per essere ricordata in qualche libro di storia. In fin dei conti tutto questo sarebbe coerente con Il nuovo ordine, un mix di fascismo e feudalesimo la cui evoluzione rispetta l’accelerazione dettata dai tempi del cambiamento tecnologico e non più dai lunghi tempi storici ai quali eravamo abituati.
In questo mondo sinistra, democrazia, confronto dialettico, evoluzione sociale e, non dimentichiamoci, tutela dell’ecosistema non servono, sono un ostacolo a questa evoluzione. Capire che la vicenda ucraina e l’evoluzione di quella palestinese sono paradigmatiche del destino riservato ai popoli del pianeta da parte dell’imperialismo del XXI secolo è essenziale, l’Ucraina è persino paradigmatica in termini di distruzione ambientale: prima della guerra era il prezioso scrigno che custodiva il 35% della biodiversità dell’intero continente europeo.
Per tutto quanto abbiamo precedentemente esposto la sinistra tradizionale è definitivamente andata in cortocircuito dopo il 24 febbraio del 2022 e sembra destinata a chiudere il proprio ciclo di vita. E a questo punto siamo ad un bivio, ad una biforcazione: accettare questo destino oppure costruirne un’altra. Tornando all’inizio di questo discorso, essere consci che di fronte alla pre-modernità dobbiamo ricominciare daccapo, dalle origini facendo tesoro di errori e ammettendo abbagli grossolani ma anche eliminando politicamente una parte della sinistra che, senza accorgersi oppure in perfetta malafede (gli effetti sono comunque uguali), ci trascina negli abissi congeniali alla destra più estrema.
In questo senso, talvolta, le divisioni sono più che salutari. In un certo senso dovremmo ringraziare quella sciagura che porta il nome di Sahra Wagenknecht di essersi levata dai piedi da Die Linke tedesca, non tanto perché questo ha rilanciato Die Linke a livello elettorale – ampi consensi e bontà del potere e della proposta politica non sono statisticamente correlati – ma perché Die Linke, pur con tutte le sue contraddizioni interne, ha oggi il coraggio di affermare che l’intera responsabilità della tragedia ucraina è in capo al Cremlino. Può apparire poca cosa, una buona fetta della sinistra nordica e irlandese già lo aveva affermato ma non lo è. In Italia ad esempio, questo è veramente lontano dall’essere ammesso e non soltanto da parte della dirigenza di minuscoli partiti rimasti, ma a partire dalla loro minuscola ma agguerrita vecchia base di militanza ed elettorale.
Questi però sono i punti dai quale partire sul versante occidentale ma non bastano: abbiamo bisogno di una sinistra la cui cultura politica si è sviluppata fuori dall’occidente quindi fuori dall’impronta colonialista, imperialista e talvolta anche razzista che porta in seno la sinistra occidentale, a prescindere dal fatto che questa sinistra ne sia cosciente o meno, se vogliamo spezzare la parabola discendente, se vogliamo provare a ricostruire qualcosa. Abbiamo bisogno delle menti della sinistra dell’est Europa, ne abbiamo bisogno come il pane, non solo perché, nella media, il gap generazionale si misura in termini di almeno due o tre decenni, ma perché hanno conosciuto e pagato sulla propria pelle le esperienze sia del socialismo reale che quelle dello scempio capitalista che si è abbattuto sui loro popoli.
Abbiamo bisogno di liberarci da una sinistra sostanzialmente religiosa che a poco a poco si spegnerà nel corso di un secolo che non ha capito e che non le appartiene e che non sarà mai disposta ad ammettere i propri errori. E poi abbiamo bisogno della sinistra araba, asiatica, e oltre, andare alla loro scoperta, esplorare al di là di ogni confine e all’interno di ogni confine e mettersi in rete: per contrastare il fascismo feudale tecnologico globale dobbiamo essere capaci di pensare e agire nello stesso spazio globale che il nuovo sistema storico ha occupato: lo spazio planetario. Pensare ed agire per combattere gli imperi dall’esterno e dal loro interno, ricreando una nuova coscienza e lotta di classe in grado di sbarazzarsi di ogni confine, globalizzando la battaglia degli oppressi contro gli oppressori, offrendo un’alternativa alla distruzione di popoli e del pianeta nel suo insieme. Questo era anche l’obiettivo del movimento altermondialista di quasi trent’anni fa; vero è che fallimmo, ma ora tutti i re sono nudi, tutti hanno gettato la maschera e tutti hanno lo stesso volto.
Forse in questo modo possiamo trovare tra di noi più facilmente i denominatori comuni, forse anche quella tecnologia che sta accelerando i cambiamenti globali potrà accelerare e facilitare anche il nostro dialogo in termini globali, le nostre lotte. Dobbiamo farlo e cominciare a farlo nel più breve tempo possibile e come quasi due secoli e mezzo fa rompere quel tabù che ci vieta di usare esplicitamente quelle parole indispensabili per combattere il ritorno alla pre-modernità più brutale del diritto del più forte, e quelle parole sono tirannicidio e rivoluzione.
*articolo apparso il 1° marzo sul sito refrattario e controcorrente.