Quindici giorni dopo l’invasione del Campidoglio da parte di alcune migliaia di fanatici supporters di Donald Trump, Joseph Biden, presidente eletto il 3 novembre 2020 è ufficialmente diventato il 46° presidente degli Stati Uniti. Innumerevoli sono state le analisi a volte tanto brillanti quanto vuote. Purtroppo, però, sono stati largamente occultati fenomeni più profondi in atto nella società statunitense e della quale i fatti del sei gennaio sono un elemento.
Facciamo il punto della situazione con KEITH MANN, storico e sociologo, membro di una delle piccole organizzazioni della sinistra radicale, Solidarity e della direzione, nel Wisconsin, di DSA, i Democrats socialists of America. (Red)
Doveva essere pura formalità, ma la sessione parlamentare di conferma dell’elezione di Biden s’è trasformata in uno spettacolo circense. Ma non era in parte prevedibile?
Dal 3 novembre Trump rifiuta sistematicamente di ammettere la sconfitta. Prima dell’invasione del Campidoglio, 140 eletti repubblicani alla Camera dei rappresentanti ed una manciata di senatori avevano annunciato di volersi opporre al riconoscimento dei risultati delle elezioni del 3 novembre in alcuni stati decisivi.
Nel contempo, altre 140 personalità dell’America che conta, dei boss di grandi aziende, hanno lanciato un appello pubblico a Trump perché riconosca ed accetti la sconfitta.
La sera del 6 gennaio però, la metà dei 140 eletti avevano fatto marcia indietro mentre la condanna dell’atteggiamento del presidente prendeva dimensioni esponenziali. Per molti, il 6 gennaio è stata la classica goccia che fa traboccare il vaso…
Un fiasco totale, insomma…
Megalomane ed egocentrico, Trump ha apertamente invitato i suoi seguaci – accorsi in parte armati a Washington – ad invadere il Campidoglio: addirittura, ha promesso che sarebbe stato al loro fianco, omettendo però di precisare che è “col pensiero” che sarebbe stato con loro poiché, lui, l’invasione se l’è guardata alla televisione, ben lontano dagli scontri…
Comunque, la portata simbolica dell’attacco è enorme e molti sono stati i senatori fra i quali molti fedeli a Trump che hanno avuto paura, ma veramente tanta paura!
Ti rendi conto? L’ufficio della presidente della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, occupato da un personaggio improbabile, rozzo e cafone, che, seduto con i piedi sul tavolo da lavoro, tratta la Pelosi in diretta da bitch, da puttana…
Tutto ciò è delirante ma non rappresenta in ogni caso un’insurrezione o un tentativo di golpe.
C’è chi ha voluto vedere dei paralleli tra quanto successo la scorsa settimana ed il putsch fallito in Baviera nel novembre del 1923, ma il paragone non tiene. Nel 1923, i principali dirigenti nazisti -Hitler, Röhm, Goering, Himmler- erano tutti presenti, il discorso era ben rodato e, in grandi linee, il progetto politico già chiaro.
Qui invece, niente! Nessuno a tenere un discorso costruito, coerente, ma tantissime stupidaggini eruttate da cafoni eccitati – ed armati – ai quali s’è voluto far credere che stessero scrivendo una gloriosa pagina di storia… Una farsa.
Quindi, secondo te, non c’è nell’aria un pericolo fascista?
Colpisce, certamente, la mansuetudine di cui le forze dell’ordine hanno dato prova, quasi quasi una forma di complicità – si sono addirittura visti poliziotti prestarsi al gioco dei selfies con dei manifestanti… Il fatto ancor più inquietante è che l’appello a convergere in armi su Washington era stato largamente diffuso sui social. Tale connivenza è un vero problema, ma non è una novità.
Però senza ambiguità posso affermare: non esiste una seria minaccia fascista oggi negli Stati Uniti e nemmeno il rischio di una svolta autoritaria. Dobbiamo essere rigorosi nell’uso dei concetti ai quali facciamo ricorso.
Le Stato è un insieme formato dalle istituzioni, dalle leggi, dai corpi costituiti, dal sistema di rappresentanza politica e di governo, dalla banca centrale, dalle forze armate, dalla polizia, ecc. È uno strumento di dominazione risultato della storia della lotta di classe nei vari Paesi e che ne definisce il quadro, le condizioni generali necessarie per fare valere gli interessi delle classi dominanti.
Oggi, negli Stati Uniti, questo insieme funziona perfettamente e la classe capitalista non ha bisogno di restringere i diritti della gente, di svolte autoritarie o di uno Stato fascista, di mandare in frantumi un sistema che funziona visto che è così poco minacciata nei suoi interessi dalla conflittualità sociale.
In questo senso, la condanna dell’establishement dopo l’assalto al Campidoglio non soffre di alcuna ambiguità: la “difesa della democrazia” era su tutte le bocche. Tranne il fatto che, le virgolette sono più che opportune quando loro parlano di democrazia.
Per loro, la “democrazia” sono le istituzioni esistenti negli Stati Uniti, quelle che garantiscono la proprietà privata e proteggono gli interessi dei grandi capitalisti, mica il diritto alla vita delle migliaia di George Floyd. Quel sistema, non hanno nessun bisogno di rimetterlo in discussione.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale, in Italia e in Germania, il ripristino di tassi di profitto sufficienti esigeva di imporre delle sconfitte durature al movimento operaio: fu il fascismo che i grandi industriali scelsero e finanziarono. Oggi negli Stati Uniti siamo ben lungi da tutto ciò…
E poi, che interesse avrebbero le grandi corporations ad avere, all’ora della mondializzazione dei mercati, un regime autoritario con alla sua testa uno come Trump per il quale protezionismo e barriere doganali sono parola di Vangelo?
Quali vantaggi trova l’imperialismo statunitense in un presidente che ha disarticolato tutte le alleanze internazionali, compresa la fedeltà dei più fidati vassalli tradizionali, lasciando ad altri uno spazio enorme in politica internazionale?
La risposta a queste due domande mi sembra più che ovvia: nessuno!
RP: Ok, non ci sarà minaccia fascista, però è anche vero che Trump ha dato una grande legittimità all’estrema destra…
Sì, certo, gli ha dato ossigeno, però credo che sia veramente necessario relativizzare l’importanza di queste correnti organizzate. Insisto sull’aggettivo “organizzate”.
I Proud Boys, per esempio non sono che alcune migliaia e non hanno certo la capacità di organizzazione e d’azione che era quella, nel 1934 in Francia, delle ligues di estrema destra…
Sì, però non ci sono solo i Proud Boys: le milizie armate sono pure un fenomeno pericoloso…
Certo, però son lungi dall’essere quello che furono le Camice nere di Mussolini o le Sturm Abteilungen, le SA, di Röhm. Quelle squadracce incendiavano le sedi dei partiti di sinistra, le Case del popolo, le redazioni dei giornali, organizzavano spedizioni punitive e assassinii contro militanti operai, gli facevano ingurgitare l’olio di ricino. Praticavano un terrore di classe organizzato.
Erano bande armate fortemente strutturate e finanziate dal grande Capitale per attaccare brutalmente il movimento operaio. Oggi, negli Stati Uniti, il padronato mica ha bisogno delle squadracce per fare affari! Dov’è che li vedi in questo Paese i picchetti di sciopero e gli operai armati che pattugliano in difesa delle fabbriche occupate come a Torino nel 1920 o come, qui, negli Stati Uniti, durante gli scioperi dei lavoratori del settore dell’automobile nel 1937-1937?
Le milizie non sono da prendere alla leggera, ma la loro importanza va relativizzata. Per il momento si tratta piuttosto di zoticoni, in maggioranza uomini, a cui piace giocare alla guerra andando in giro in tuta mimetica a sparacchiare nei boschi.
Però, penso che la condiscendenza di cui dà prova nei loro confronti il Partito Repubblicano è qualcosa di grave. E circolano alcuni sondaggi -la cui metodologia usata però è discutibile- secondo i quali 40% dell’elettorato repubblicano proverebbe simpatia per questi movimenti.
Ciò potrebbe significare che il “trumpismo” è riuscito a costituire una base sociale solida nella quale sono anche rappresentati tanti lavoratori bianchi che si sentono abbandonati?
È una questione di cui si discute molto, malgrado il fatto che i dati empirici necessari alla definizione della base sociale del trumpismo manchino.
In effetti, negli Stati Uniti il criterio per definire la posizione sociale degli individui non è l’appartenenza ad una classe sociale come noi la definiamo -in funzione della proprietà o meno dei mezzi di produzione, dell’obbligo o meno di vendere la forza lavoro per vivere…- ma il reddito.
È quindi difficile dire chi ha votato Trump e se fra questi ci siano o meno forti contingenti di lavoratori e, se ci fossero, se questi lavoratori sono necessariamente dei razzisti, suprematisti e misogini. Nessuno lo può affermare con certezza. Io suppongo che i lavoratori che hanno scelto Trump non siano legioni e che la situazione è tutt’altro che cristallizzata.
Prendiamo l’esempio del Michigan, lo Stato con Detroit, città disastrata dell’automobile. Nel 2008 e nel 2012, il Michigan aveva votato Obama. Nel 2016, alle primarie, i lavoratori avevano in larga maggioranza votato plebiscitariamente per Sanders prima di punire Hillary Clinton, votando Trump.
Nel 2020, il Michigan ha votato Biden, questo dimostra che non c’è cristallizzazione delle posizioni, altrimenti, avrebbe confermato il voto di quattro anni fa. Ecco, vedi perché la definizione della base sociale del trumpismo resta vaga, delicata?
Si ha comunque l’impressione di assistere a qualcosa di speciale per esempio quando la Georgia elegge per la prima volta un senatore afro-discendente, o sbaglio?
Per niente! Non dimenticare che la Georgia è la terra di “Via col vento!”. Ovunque, nel Sud del Paese, all’Ovest o nel Middle-West, la popolazione sta cambiando. Nell’Oklahoma e nel Kansas per esempio, i grandi stabilimenti industriali, come i mattatoi, hanno attirato un’importante popolazione operaia di origine latinoamericana.
Ciò crea una perdita di identità fra i lavoratori bianchi che hanno l’impressione di farsi rubare i posti di lavoro dalle donne e dai latinos, cosa che per altro non è vera. Lo stesso vale nel Sud dove l’estensione agli afro-discendenti del diritto alla sicurezza sociale – dalla quale erano esclusi i lavoratori rurali ed il personale di casa, cioè i Neri – fa paura ad una parte della classe operaia bianca inquieta per il sistema di protezione sociale.
Non sono loro che formano la base del trumpismo, ma piuttosto delle schiere di piccoli indipendenti, dei micro businnes-men che risentono i contributi sociali, le imposte e le spese pubbliche come un ostacolo alla loro riuscita economica. Penso che siano proprio loro il suo substrato sociale.
Lo sbocciare di quella che un libro pubblicato recentemente in Francia chiama la “Generazione Ocasio-Cortez” potrebbe essere il risultato dei cambiamenti di cui parli?
Infatti. C’è però da prendere in considerazione anche il fatto che buona parte dell’elettorato attuale non era nato nel 1989, cioè alla fine della Guerra fredda. Si tratta quindi di una generazione che non è stata allattata con l’anticomunismo, che non soffre più della stigmatizzazione che si abbatteva prima del 1989 su chi cercava di uscire dai sentieri battuti, di chi cercava alternative.
Una generazione quindi che può “pensare a una sinistra del possibile”?
Sì, è un aspetto molto positivo. C’è però anche l’altra faccia di questa medaglia, e cioè il fatto che i giovani che si radicalizzano, che si politicizzano, i giovani “di sinistra” non hanno una bussola. Lo constato quotidianamente fra i Democrats Socialists of America, i DSA, discutendo con i giovani militanti.
Quello però che è interessante è il fatto che i DSA, che si erano fortemente mobilitati in favore di Sanders, hanno rispettato la decisione del loro congresso di non fare campagna in favore del candidato del partito democratico se questo non fosse stato Bernie Sanders. E penso che siano stati pochissimi quanti, malgrado la forte pressione al cosiddetto voto utile contro Trump, hanno fatto attività militante attivamente per la vittoria di Biden.
Ed è anche interessante che fra i DSA – siamo circa 85.000 – delle voci cominciano a farsi sentire in favore della creazione di un nuovo partito, indipendente dai due partiti capitalisti.
Ribadisco, i dati empirici non sono sufficienti per caratterizzare sociologicamente i DSA, però, chiaramente, questi si riconoscono spontaneamente negli strati popolari. Compito nostro, dei militanti con più esperienza, è contribuire alla ricostruzione di un legame organico e politico con un progetto di emancipazione sociale.
Invece, il rapporto di DSA con la comunità afro-discendente sembrerebbe problematico…
La mobilitazione dei Neri è stata decisiva: non solo nello sviluppo delle manifestazioni di Black Live Matter, ma anche per l’elezione di Biden, in particolare in Georgia.
Biden ha saputo riattivare il legame tradizionale, tipico della grande alleanza rooseveltiana, con le personalità influenti nella comunità nera, come per esempio, in Georgia, Tracy Abrams, una donna che si è fortemente impegnata per convincere i Neri ad iscriversi alle liste elettorali o il rappresentante della Carolina del Sud, James Clayburn, attirando a sé i voti e l’impegno di questa comunità, ciò che Sanders è stato incapace di fare.
Purtroppo, però, la crisi sanitaria rende quantomai difficile l’intervento politico in direzione di queste popolazioni devastate dal COVID. Attualmente, il numero quotidiano di morti si aggira attorno ai 5000. Come ben sai, la malattia colpisce in modo differenziato: le popolazioni povere -fra le quali gli afro-discendenti sono sovra-rappresentati- sono molto più colpite delle altre.
Sono i Neri che muoiono per primi, sono i Neri che muoiono in più gran numero e questo ha degli effetti devastanti su di loro anche in termini di fiducia e disponibilità all’azione politica…
Tutto ciò significherebbe che, come tanti pensano in Europa, Biden cercherà di marginalizzare la sinistra del Partito democratico nel tentativo di una ricomposizione al centro con dei Repubblicani “rispettabili”?
Biden è un uomo politico particolarmente intelligente e credo che non cercherà lo scontro con la sinistra del Partito democratico, anche perché questa sinistra non è un ostacolo ad una politica di posizionamento al centro.
A volte, ascoltandolo, ho l’impressione di essere in un film di Frank Capra. Per esempio, in una delle sue ultime conferenze stampa ha spiegato che, dopo aver pensato di nominare Sanders ministro del Lavoro, vi ha rinunciato. Questo per delle ragioni tattiche, ha assicurato, e non per divergenze politiche. Infatti, nominato ministro, Sanders avrebbe dovuto rinunciare al suo mandato di senatore del Vermont aprendo la strada ad un’elezione che avrebbe potuto, nel caso in cui il Vermont non avesse eletto un democratico, regalare ai Repubblicani la maggioranza al Senato…
Piuttosto che uno scontro con la sinistra del Partito democratico, sono convinto che Biden cercherà di intrecciare di nuovo e di intensificare i legami classici della grande alleanza dei democratici con le minoranze e con le aspirazioni progressiste in senso lato…
L’ultimo decennio è stato caratterizzato negli Stati Uniti da forti movimenti di contestazione, da Occupy Wall Street al sollevamento di Madison, dal Teacher’s spring -la mobilitazione vittoriosa di più di 300’000 insegnanti- al movimento dei Black Lives Matter. Premonitorio di una nuova conflittualità sociale?
Ci si può in effetti chiedere se non ci si trovi di fronte alla nascita di un nuovo movimento emancipatore negli Stati Uniti. Io, una risposta non ce l’ho e credo che ci voglia prudenza.
Certo, durante i movimenti che tu citi, la gente ha accumulato esperienza e politicizzazione. Non dimentichiamo però che qui viviamo in un Paese che ha conosciuto una lunghissima stabilità politica, forse la più lunga nella storia.
Quindi, per esempio, si può dire che, dopo il Teacher’s spring del 2018, stiamo assistendo ad un’ondata di scioperi? Secondo i criteri accademici della sociologia si può parlare di ondata di scioperi quando il loro numero durante un anno sorpassa del 50% o più il numero medio di scioperi registrati durante i cinque anni precedenti.
In virtù di questo criterio si può affermare che il 2019 ha conosciuto una vera e propria ondata di scioperi poiché il loro numero ha di gran lunga sorpassato la media degli scioperi registrati dal 2009 al 2018. Tranne però che, in cifre assolute ciò significa che, per l’insieme del territorio, nel 2019 gli scioperi sono stati… 25 contro 15 in media durante gli anni che l’hanno preceduto. Ammetterai che in fatto di ondata…
È per questo che mi astengo da ogni pronostico, da ogni predizione sugli spazi di lotta e di mobilitazione che si potrebbero aprire, solo l’avvenire ci dirà.
E questo impone alla sinistra negli Stati Uniti uno sforzo di definizione di assi di intervento e di elaborazione di progetti perché, ne sono convinto, la vittoria di Biden suscita grandi speranze, ma ben poche illusioni…
*Intervista apparsa su rproject.it lo scorso 17 gennaio 2021