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La pugile algerina Imane Khelif è entrata giovedì nella competizione olimpica dei pesi welter con il suo primo incontro contro l’italiana Angela Carini. Dopo pochi secondi di lotta e due ganci al volto, Carini si è arresa e Khelif è stata dichiarata vincitrice.
È stato un incontro molto ordinario e avrebbe potuto essere dimenticato in fretta. Tuttavia, dopo la sua vittoria, la pugile algerina ha affrontato un’ondata di molestie informatiche, catalizzate da voci che la accusano di essere un uomo, una donna trans o una persona intersessuale. Secondo i suoi detrattori, questo è il motivo per cui le dovrebbe essere vietato di partecipare al torneo femminile.
In prima linea in queste molestie informatiche ci sono i gruppi di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti. Il giorno prima dell’apertura della competizione pugilistica, sul social network X, l’ex ministro italiano di estrema destra Matteo Salvini ha espresso il suo sdegno per un presunto svantaggio imposto alla sua connazionale. Giovedì, sono stati l’amministratore delegato del social network X, Elon Musk, e l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a condividere pubblicazioni che insinuano che Imane Khelif non sia una donna.
La studiosa di storia sociale Anaïs Bohuon ci parla del contesto storico, sociologico e politico di questa controversia. Professoressa all’Università di Parigi-Saclay, lavora a un incrocio tra la storia della scienza e la storia delle attività fisiche e dello sport da una prospettiva di genere. Tra le altre cose, analizza il modo in cui è stata costruita la definizione contemporanea di differenza sessuale. L’intervista è stata condotta dalla giornalista Célia Mebroukine della redazione di mediapart.

C’è stato un panico morale, guidato dall’estrema destra in Europa e in America, per la partecipazione di Imane Khelif ai Giochi olimpici.
Come spiega l’odio riversato sulla pugile algerina?

Si può spiegare come una tensione ideologica intorno al sesso e al genere, che è sempre esistita, ma che oggi è particolarmente forte, alimentata dal contesto politico contemporaneo e dall’ascesa dell’estrema destra in Europa e negli Stati Uniti.
Questi temi non sono nuovi, ma esplodono in occasione di eventi sportivi internazionali particolarmente seguiti. Vi è stato nel 2009, ad esempio, il caso legato a Caster Semenya che vinse la finale degli 800 metri ai Campionati mondiali di atletica. L’atleta sudafricana dovette dimostrare di essere una donna e si sottopose a dei test per poter tornare a gareggiare l’anno successivo. Oggi la vicenda di Imane Khelif sta esplodendo, anche perché siamo alle Olimpiadi di Parigi.
È importante notare che nel 2009 Caster Semenya fece registrare un tempo di 1’55″45 sugli 800 metri. Con un tempo del genere, non srebbe nemmeno riuscita a qualificarsi per i campionati francesi maschili… Anche Imane Khelif, prima di battere Angela Carini, ha subito una serie di sconfitte. Non è una pugile che schiaccia sistematicamente gli altri.
Queste donne stanno creando una quantità mostruosa di polemiche perché contravvengono a fantasie e leggende sul sesso e sul genere, e ci riportano a un problema che ha cominciato a emergere negli anni Trenta, non appena le donne sono entrate nello sport di alto livello con una tradizione maschile: che cos’è una “vera donna” a cui è permesso competere?
Per capire queste fantasie, diamo un rapido sguardo alla storia. Lo sport olimpico ha visto una sperazione di genere fin dall’inizio, uomini e donne sono stati separati nelle competizioni, per garantire “l’incertezza del risultato”, in altre parole per garantire che gli uomini, che avevano accesso allo sport di alto livello da più tempo, non dominassero tutti gli sport in modo schiacciante.
Da allora, il mondo dello sport è rimasto l’unica pratica sociale che garantisce la bicategorizzazione sessuale. È l’unico campo in cui continuiamo a separare consapevolmente uomini e donne e rappresenta un ultimo baluardo di virilità. Perché per separare e categorizzare, bisogna definire. Ed è qui che sta il problema. Come deve essere una “vera donna” per poter partecipare alle competizioni? È una domanda ricorrente nella storia dello sport e del lento e difficile accesso delle donne negli sport di alto livello.
Quello che si percepisce ancora oggi nello sport, e che le vicende di Imane Khelif e di molte altre evidenziano, è che una “vera donna” deve realizzare prestazioni inferiori a quelle di un uomo, deve soddisfare gli standard di femminilità, non deve quindi essere né troppo alta, né troppo grassa, né troppo muscolosa, né troppo pelosa, e così via. Eppure, biologicamente, come vedremo più avanti, è impossibile definire che cosa sia una “vera donna” autorizzata a gareggiare. Il mondo dello sport è invischiato in questa impossibilità, che sta creando reazioni di panico morale.

All’inizio di questa settimana, il CIO ha dichiarato che Imane Khelif era autorizzata a gareggiare perché rispettava le regole e aveva superato i test di idoneità, noti anche come test di femminilità. Di cosa stiamo parlando esattamente?

Innanzitutto, credo sia importante sottolineare che il CIO non ha ripetuto l’orribile errore commesso dalla Federazione internazionale di atletica leggera con Caster Semenya nel 2009. Il segreto medico è stato revocato e molte delle questioni relative alla sua intimità sono state discusse pubblicamente. In poche parole, tutti hanno discusso di cosa una ragazza di 18 anni avesse nelle mutande.
È indispensabile riportare un po’ di umanità in questo dibattito e non dimenticare che si tratta di giovani donne, appassionate di sport, molto spesso provenienti da ambienti poveri, che si allenano anni per inseguire il loro sogno olimpico, con le loro caratteristiche di nascita… È lodevole che il CIO rimanga evasivo e non affronti la questione delle condizioni mediche delle atlete. Tutte le donne che desiderano partecipare alle competizioni internazionali presentano un documento d’identità che attesta il loro sesso. Non ci si presenta semplicemente nella categoria che si desidera. I corpi degli atleti di alto livello, sia uomini che donne, sono oggetto di iper-monitoraggio.
Storicamente, le donne hanno avuto enormi difficoltà ad accedere ai cosiddetti sport “tradizionalmente maschili“. È stato grazie ad Alice Milliat (nuotatrice, giocatrice di hockey e canottiera francese che si è battuta per il riconoscimento dello sport femminile all’inizio del XX° secolo) che le donne hanno iniziato a partecipare a questi sport. Spesso dimentichiamo che lo sport di alto livello cambia e trasforma le forme del corpo e spinge alcune donne a uscire dalle norme della femminilità. Il mondo dello sport è magnifico: offre al pubblico tutti i tipi di corpi, con ciò che vi è di eccezionale, fuori dal comune: è proprio questo ciò che si cerca nella competizione olimpica.
Tuttavia, alcune di queste donne vengono subito criticate perché non sono abbastanza femminili a causa dei cambiamenti indotti dalla pratica intensiva dello sport (niente seno, pochi fianchi, eccessiva muscolatura). Così nei loro confronti cominciare ad essere avanzati sospetti e vengono accusate di essere uomini che imbrogliano per vincere le medaglie, cioè di essere donne “non autentiche”, cioè intersessuali.
Nel 1966, la Federazione internazionale di atletica leggera introduceva il test di genere. Tutte le donne che partecipavano alle competizioni dovevano sottoporsi a test visivi: i loro genitali venivano esaminati per verificare se erano in grado di correre una gara di 100 o 200 metri…A questo si aggiungevano test di forza per valutare la loro potenza muscolare, che doveva essere inferiore a quella degli uomini.
Questi test furono sostituiti nel 1968, in occasione dei Giochi Olimpici in Messico, da test genetici. Una donna era considerata idonea a gareggiare se aveva una coppia di cromosomi XX. Per effettuare il cariotipo si utilizzò il test della saliva.
Grazie a questi test, il mondo dello sport ha scoperto che alcune donne possono essere cromosomicamente XXY, mentre altre possono avere un cromosoma Y ed essere insensibili agli androgeni (totalmente o parzialmente): producono elevate quantità di testosterone, ma una mutazione nei recettori cellulari impedisce all’organismo di essere sensibile ad esso. Altre hanno quello che i medici chiamano iperandrogenismo femminile e producono naturalmente livelli di testosterone più elevati rispetto alla media delle donne. Chi sono le “vere donne”? È così che il mondo dello sport scopre l’intersessualità e si rende conto della molteplicità di ciò che significa essere donna e delle molteplici dimensioni del sesso biologico.

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Che cos’è l’intersessualità?
Il collettivo di attivisti intersex OII France ne dà la seguente definizione: “L’intersessualità si riferisce alla situazione sociale delle persone nate con caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie considerate non corrispondenti alle tipiche definizioni sociali e mediche di femminile e maschile”.
Il collettivo sottolinea inoltre che “le persone intersessuali possono identificarsi come femminili, maschili o non binarie, possono essere cisgender o transgender” e che i loro orientamenti sessuali sono tanto vari quanto quelli delle persone non intersessuali.
Ricordiamo che una persona transgender è una persona il cui genere è diverso dal sesso che le è stato assegnato alla nascita. Al contrario, una persona cisgender è una persona il cui sesso è uguale a quello che le è stato assegnato alla nascita
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Nonostante questa complessità, le federazioni sportive internazionali continuano a cercare di definire e categorizzare. Nel 2009, la Federazione internazionale di atletica leggera ha imposto dei test a Caster Semenya dopo la sua vittoria ai Campionati mondiali. I risultati sono stati resi pubblici: la donna produceva più testosterone della media delle donne.
Le federazioni internazionali di atletica e calcio hanno quindi creato una serie di regole (adottate dal CIO per i Giochi di Sydney) che spiegano che le donne che producono naturalmente più di 10 nanomoli di testosterone per litro di sangue devono sottoporsi a un trattamento per abbassare i livelli di testosterone se vogliono gareggiare nella categoria femminile. Questi trattamenti provocano insulino-resistenza, intolleranza al glucosio, svenimenti, vomito e depressione. Se rifiutano questi trattamenti, vengono invitate a gareggiare nella categoria maschile, contro i quali non hanno alcuna chance.

Uno degli argomenti avanzati dall’estrema destra è che gli alti livelli di testosterone riscontrati in Imane Khelfi ai campionati mondiali del 2023 le darebbero un vantaggio nella competizione. Quali sono i risultati delle ricerche in merito?

Nel 2015, nel caso dell’atleta indiano Dutee Chand, il Tribunale arbitrale dello sport ha chiesto alla Federazione internazionale di atletica leggera di dimostrare scientificamente che i livelli di testosterone dell’atleta da soli le davano un vantaggio. Ma i medici della federazione non sono mai riusciti a dimostrarlo. Sappiamo che un’iniezione di testosterone può aumentare le prestazioni e la muscolatura, ad esempio. Ma qui stiamo parlando di una produzione naturale. Per sapere se crea un vantaggio, bisognerebbe isolarlo da tutti gli altri parametri… il che è impossibile. Come possiamo dimostrare che solo il testosterone prodotto naturalmente dà loro accesso allo sport di alto livello e permette loro di eccellere?
Ma possiamo anche spingerci più in là: se partiamo dalla premessa che un singolo parametro possa costituire un vantaggio iniquo, che dire dell’altezza del cestista francese Victor Wenbanyama? E la capacità di recupero del nuotatore francese Léon Marchand? Lo sport cerca l’insolito e l’eccezionale negli uomini. Ma quando questo, nelle donne, inquieta.

Imane Khelfi, Caster Semenya, Dutee Chand…: tutte le atlete che hanno dovuto dimostrare la loro femminilità attraverso dei test provengono dal Sud del mondo. Come spiega il fatto che siano così attentamente esaminate?

Queste donne provengono molto spesso da ambienti estremamente poveri che vedono nello sport una passione e anche un’opportunità di avanzamento sociale. Prima di entrare in contatto con gli organismi sportivi internazionali, queste donne non sono consapevoli della loro condizione rispetto alle norme relative al sesso e al genere. È così, all’età di 19 o 20 anni, si rendono improvvisamente conto che agli occhi del mondo occidentale non sono “vere donne” autorizzate a gareggiare.
Nelle nostre società cerchiamo di “normalizzare” le persone intersessuali, attraverso operazioni e trattamenti, fin dalla più tenera età. A queste donne è stato assegnato lo status di donna alla nascita, sono state socializzate come donne, hanno vissuto come donne senza alcun ostacolo, ed è il mondo dello sport a dire loro che non sono donne perché, ancora una volta, è l’unico campo in cui la bicategorizzazione di genere è garantita.
Tutte le donne sottoposte a questi test sessuali sono donne provenienti dall’Africa e dall’Asia. Il sospetto ricade sempre su di loro perché i criteri normativi della femminilità sono stati definiti sulla base di un ideale occidentale che ha sempre governato l’integrazione delle donne nel mondo dello sport.
Le donne nere occidentali, come le francesi Marie-José Pérec, Eunice Barber e le sorelle Williams, sono state descritte come tigri e gazzelle, accusate di doping e sottoposte a massicce dosi di razzismo. Ma non è mai stata rimessa in discussione la loro appartenenza al sesso femminile, né di sottoporsi a un test del sesso. Non è mai stato loro imposto un cariotipo e non è mai stato detto che erano uomini sotto mentite spoglie. Da quando i test non sono più obbligatori, le uniche donne a cui sono stati imposti sono atlete non occidentali provenienti dall’Africa o dall’Asia.

*intervista pubblicata su Mediapart il 2 agosto 2024. Traduzione a cura del segretariato MPS.