Tempo di lettura: 7 minuti

La posta in gioco al vertice di Davos era il sostegno di queste élite globali, finora adepte della globalizzazione felice, alla controrivoluzione illiberale lanciata da Donald Trump. Tutti aderiscono a questo capitalismo predatorio e alla violenza sociale e politica che esso implica.

Fin dalle prime ore del vertice economico mondiale di Davos del 20 gennaio, i partecipanti si sono resi conto che qualcosa era cambiato: il loro momento era passato. Mentre tutte le telecamere e i microfoni erano solitamente puntati su di loro per conoscere le loro opinioni su come dovrebbe essere gestito il mondo, per la prima volta si sono sentiti trascurati, quasi abbandonati. Il potere ora era altrove. A Washington.

Mentre gli oratori salivano sul palco, il pubblico prestava loro un’attenzione distratta: gli occhi erano incollati agli schermi, a guardare la cerimonia di insediamento di Donald Trump. In prima fila sedevano i miliardari digitali che tanto spesso hanno animato i dibattiti di Davos in passato: Elon Musk (Tesla, X), Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Meta), Sundar Pichai (Alphabet-Google), Tim Cook (Apple).

1.300 miliardi di dollari tra loro cinque, secondo la stampa. Ma, soprattutto, la presenza di questi leader ha illustrato una svolta che molti partecipanti a Davos non avrebbero nemmeno osato sognare fino a pochi mesi fa: questi miliardari sono ora al centro della macchina politica e amministrativa degli Stati Uniti, la prima potenza economica del mondo.

Prima ancora di intervenire in videoconferenza al vertice, il 23 gennaio, il presidente americano aveva già dettato l’agenda. Più che stupiti dalla rapidità con cui Donald Trump ha preso il potere, i partecipanti al forum erano affascinati.

La posta in gioco del vertice di Davos era infatti il posizionamento di queste élite mondiali, finora adepte della globalizzazione felice, a sostegno della controrivoluzione illiberale e persino fascista lanciata da Donald Trump. Incapaci di trovare i rimedi per riparare un capitalismo in crisi dal 2008, sono ora tutti pronti ad abbracciare l’imperialismo del presidente americano, che promette loro un ‘“età dell’oro” del potere dei soldi, sfrenato e senza limiti.

Tutti aderiscono a questo capitalismo predatorio e alla violenza sociale che comporta, accettando di abbandonare tutti i principi, primo fra tutti la democrazia. Gli stessi che per decenni hanno sostenuto che il capitalismo fosse il miglior garante della democrazia.

Tutto è andato a rotoli

Improvvisamente, tutto ciò che questi partecipanti avevano elogiato come un successo – anche durante l’ultimo vertice – è apparso loro terribile. Tutto ciò che avevano esaltato come modello insuperabile, arrivando a negare i suoi più evidenti fallimenti, appare ai loro occhi ormai superato.

All’improvviso, tutto è finito. I temi che all’epoca erano al centro delle loro conversazioni quotidiane – il libero scambio, la crescita, l’andamento dei tassi d’interesse, il debito, la necessità di rigore di bilancio da parte dei governi – hanno a malapena suscitato qualche interesse. Per contro, mentre hanno continuato a sottolineare l’importanza dell’ordine internazionale, pochi di loro hanno espresso preoccupazione per la distruzione del diritto internazionale.

Ad eccezione del Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che ha avvertito che i combustibili fossili sono “un mostro […] che non risparmierà niente e nessuno”, del Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa – il suo Paese è uno dei più esposti ai cambiamenti climatici – che ha sottolineato la necessità di continuare la transizione, e dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, non c’è stata quasi nessuna voce a difesa dell’agenda climatica.

L’abbandono di qualsiasi piano per combattere il riscaldamento globale, l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi e la liquidazione in corso di tutte le agenzie federali e degli strumenti amministrativi per proteggere l’ambiente sono ormai sembrati far parte di una certa normalità.

Tuttavia, nel 2017 e nel 2018, i leader di Davos hanno fatto della lotta al cambiamento climatico il loro principale obiettivo globale. I membri del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) sono stati invitati a presentare i loro vari scenari sul cambiamento climatico e a delineare ipotesi per contrastare questi sviluppi drammatici.

I produttori di automobili, le compagnie petrolifere, i finanziatori e i principali laboratori avevano giurato, con la mano sul cuore, che avrebbero fatto il possibile per promuovere politiche più rispettose della natura, adottare e sostenere le energie rinnovabili e difendere un “capitalismo sostenibile”.

Molti di loro avevano già rinunciato a tutte queste promesse, ben prima dell’elezione di Donald Trump. Nel 2021, le grandi compagnie petrolifere avevano iniziato a ridimensionare i loro progetti di energia pulita ed erano tornate a trivellare come prima. I finanziatori hanno seguito l’esempio, abbandonando i progetti di finanza verde. Secondo loro, non erano abbastanza redditizi. Le case automobilistiche, che avevano spinto sui veicoli elettrici, stanno ora facendo marcia indietro. Si sono impegnate in un’intensa attività di lobbying sui governi per ridimensionare drasticamente tutti i piani di transizione dell’industria automobilistica.

Javier Milei a ruota libera

Quanto al tema della diversità, essa non è stata nemmeno menzionata. Nell’ultimo decennio, i relatori di Davos aveva fatto una serie di promesse in questo ambito. Uno dopo l’altro, tutti si erano impegnati a promuovere politiche sociali che rispettassero la diversità, incoraggiando l’inclusione e la promozione delle donne, delle persone razzializzate e delle persone LGBTQIA+. Oggi, l’abbandono di queste politiche da parte di Mark Zuckerberg e la liquidazione delle agenzie federali che si occupano di questi temi non li ispirano affatto.

Per valutare la rottura in atto, su questo tema come su altri, basta notare il modo in cui in passato era stato accolto Javier Milei. I commenti del presidente argentino, che esponeva la sua ambizione di attaccare tutte le funzioni statali “con una motosega” per “de-socializzare lo Stato”, sono stati accolti con circospezione e persino con disprezzo. Molti lo consideravano un “clown”.

L’accoglienza ricevuta quest’anno è stata ben diversa: Javier Milei è diventato un’“icona”. L‘esperienza argentina è ora vista come un modello da seguire in tutto il mondo, in quanto il 54% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà non è altro, secondo le élite mondiali, che un “danno collaterale” nella ricostruzione di un capitalismo del futuro.

È stato quindi con attenzione e senza esitazione che il pubblico di Davos ha seguito il discorso del Presidente argentino, in cui ha criticato l’Occidente per aver “abbandonato i suoi modelli di libertà per il collettivismo”, elogiando “il fantastico” Elon Musk, la “feroce signora italiana ” Giorgia Meloni, Viktor Orbán e Benyamin Netayanhou.

A ruota libera, ha denunciato il “wokismo”, la perversione della morale che permette “agli uomini di vestirsi da donna prima di prendersela con i bambini”. Tutto ciò senza suscitare la minima protesta.

Gestire i nemici, attaccare gli alleati

I governi cinese e russo, e tutte le potenze totalitarie del mondo che per anni hanno criticato le libertà democratiche in Occidente, non potevano sperare di meglio. Criticati regolarmente negli anni precedenti, sono stati particolarmente risparmiati durante questo forum. Proprio come sta facendo per il momento Donald Trump.

Per il momento ha parlato poco della Cina, chiedendo solo un “commercio equo” tra i due Paesi. Intende negoziare al più presto con Vladimir Putin per porre fine alla guerra in Ucraina. Lo ha ribadito durante il suo discorso a Davos: “Non sto cercando di danneggiare la Russia. Amo i russi e ho sempre avuto buoni rapporti con il Presidente Putin. […] Parliamo di questa guerra [in Ucraina] che non sarebbe mai avvenuta se io fossi stato presidente. […] È tempo di raggiungere un accordo. Non devono essere sacrificate altre vite”.

Questi negoziati sembrano seguire lo schema di pensiero del Presidente degli Stati Uniti: da potenza e potenza. Non è certo che il governo ucraino avrà diritto ad un posto importante in queste future trattative. Quanto all’Europa, essa non conta.

È proprio nei confronti del continente europeo, l’Unione Europea, che finora non aveva nominato, che Donald Trump ha avuto le parole più dure, le minacce più forti. Dopo il Canada e il Messico, il Presidente americano continua questa strana diplomazia: ci va piano con i nemici e attacca gli alleati. Si aspetta che questi ultimi si arrendano completamente e diventino vassalli al solo servizio del potere americano.

L’Europa di fronte a Trump 2.0

Donald Trump ha quindi riesumato la sua arma preferita: i dazi. Rimproverando all’Europa di non permettere la vendita di alcun prodotto americano – “né agricolo, né industriale, né energetico” – a causa delle sue norme e regolamenti, ha chiesto un commercio giusto ed equo, pena l’imposizione di dazi doganali sulle importazioni europee. Alcune di queste importazioni sono già soggette a tasse tra il 60% e il 100% ormai dal 2019. E questi dazi non sono stati aboliti dall’amministrazione Biden.

Già prima del suo insediamento, il Presidente americano aveva chiesto all’Europa di importare più gas e petrolio americani, pena sanzioni doganali. A Davos ha spinto ancora di più il suo vantaggio, chiedendo ai leader europei di importare i loro capitali e di andare a produrre negli Stati Uniti, promettendo loro l’assenza di vincoli normativi e fiscali. Se non rispetteranno le sue richieste, dovranno affrontare sanzioni doganali.

A novembre, Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea (BCE), ha dato il tono in un’intervista al Financial Times. Ha raccomandato di acquistare prodotti americani, in particolare energia, per placare l’irascibile Donald Trump.

Nel corso del suo intervento, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proseguito sulla stessa linea: ha auspicato un dialogo esigente con gli Stati Uniti. Una posizione sostenuta dal ministro delle Finanze tedesco, Jörg Kukies, che ha auspicato “l’avvio di discussioni tra Europa e Stati Uniti sui dazi prima di adottare qualsiasi contromisura”.

Facendo propria l’opinione ormai diffusa che il Presidente americano sia un “dealmaker”, molti leader europei sono convinti che, al di là della violenta retorica, ci sia modo, come in passato, di trovare un percorso di accordo.

Ma il Donald Trump di oggi è lo stesso del 2016?

La vassallizzazione dell’Europa

La rapida controrivoluzione avviata da Donald Trump ha certamente scosso la situazione. Tutti i leader invitano l’Europa, impantanata nella stagnazione da oltre un decennio, a sostenere l’agenda delineata dal presidente americano, abbandonando le proprie norme, i regolamenti e persino i principi, per liberare gli “spiriti animali” e permettere al capitalismo di ritrovare la sua forza e la sua energia senza vincoli.

Se l’economia americana continua a crescere, se ogni gruppo vuole avere la propria sede negli Stati Uniti e commerciare lì perché le normative sono più leggere, i leader europei diranno ai politici europei: “Fate qualcosa o ci trasferiremo oltre Atlantico””, ha analizzato Rich Nuzumn, responsabile del gruppo di consulenza Mercer. Ha riassunto, con queste parole, la sensazione generale.

Le richieste di allineamento all’agenda americana sono già iniziate. Mark Rutte, nuovo Segretario Generale della NATO – e in precedenza Primo Ministro dei Paesi Bassi – ha raccomandato agli Stati europei di tagliare drasticamente la spesa sociale e pensionistica per finanziare lo sforzo di difesa europeo. Allo stesso tempo, la preferenza europea per l’acquisto di attrezzature americane dovrebbe essere abolita.

Le banche chiedono una rapida revisione delle normative europee per rimuovere gli ostacoli che penalizzano la loro redditività rispetto ai concorrenti americani. I produttori, dalle biotecnologie alle tecnologie digitali, chiedono di porre fine alla pignola burocrazia europea che frenerebbe l’innovazione e lo sviluppo dei progetti. Tutti chiedono una revisione completa del piano ecologico europeo per promuovere la transizione ecologica e la fine di norme e regolamenti “controproducenti”.

Sulla scia del discorso di Donald Trump, il gruppo Stellantis (ex FiatChrysler-PSA), ora sotto il controllo della famiglia Agnelli, molto vicina al governo Meloni, ha annunciato un importante programma di investimenti per i suoi stabilimenti di produzione di Jeep negli Stati Uniti. Prevede di produrre i SUV più classici, per evitare i possibili dazi doganali che minacciano le importazioni dal Messico.

La scossa è stata data. La vassallizzazione dell’Europa è ormai in corso.

*articolo apparso su mediapart il 25 gennaio 2025. Traduzione a cura del segretariato MPS.