Serbia. Dopo il 15 marzo, cosa intendiamo quando parliamo di un cambiamento di sistema?

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Sulla scia della più imponente manifestazione studentesca in Serbia e non solo, svoltasi a Belgrado il 15 marzo, ci si chiede giustamente cosa fare e come procedere. La lotta continua e nelle discussioni sul cambiamento “sistemico”, al di là delle narrazioni etno-nazionaliste anti-sistemiche o dei desideri liberali di un governo “di tecnici”, nel senso di “esperti”, dovremmo sottolineare il problema di classe, che deriva dalla concretezza della lotta studentesca – per una società (auto-organizzata) come comunità politica.


E questo è alle nostre spalle. L’attesa e spettacolare manifestazione studentesca a Belgrado e il timore che venga dirottata da incidenti inscenati e tentativi di provocare violenza. Né “Cacileland” (il riferimento è a una performance teatrale messa in scena nel parco centrale di Belgrado qualche giorno prima del 15 marzo, ndt), né l’inquietante sparo di un cannone sonico, né l’irresistibile desiderio di alcuni di vedere il “5 ottobre” (il riferimento è al 5 ottobre 2000, data della caduta di Slobodan Milosevic, ndt), sono riusciti a creare il caos, le persone sono rimaste responsabili e calme, e gli studenti hanno mantenuto il controllo della loro manifestazione e al primo segnale di pericolo hanno deciso di disperderla, persistendo nella loro intenzione di non fare “gli ultimi passi” ma di provocare “cambiamenti tettonici”. La lotta continua! C’è ancora molto da iniettare, quindi continuiamo, senza paura, direttamente nell’ideologia, nel campo dell’infezione di idee nuove.

Dopo mesi di confusione ideologica, o meglio di indecisione, si sono recentemente cristallizzati orientamenti ideologici più chiari, sia tra gli studenti che nella società in generale.

Da un lato, nell’apparizione e nella presenza sempre più visibile delle bandiere “No Surrender” (vedi i cartelli agitati nella foto qui sopra, con la scritta “non arrendersi” sullo sfondo della bandiera serba, ndt), così come di Gesù su sfondo rosso, la bandiera sotto la quale le truppe russe uccidono in Ucraina, e delle insegne cetniche, dall’altro, negli sforzi dell’opinione pubblica liberale e dell’opposizione (e di alcuni gruppi studenteschi e giovanili) di ridurre la ribellione studentesca e la rivolta sociale per il cambio di regime, per tradurla nel linguaggio della politica istituzionale e sulla strada della democrazia liberale, sotto l’amministrazione temporanea di un governo “di tecnici” che garantirà le condizioni per elezioni eque e oneste, e così via.

Il discorso sulle due Serbia vorrebbe essere ripreso, ma non è ancora giunto il suo momento. Contrariamente alla saggezza politica comune in Serbia (e non solo), questa dualità non è inevitabile. È del tutto possibile criticare entrambe le posizioni contemporaneamente. Inoltre, rappresentano due facce della stessa medaglia, quella del capitalismo.

Entrambe ci mostrano i principali bastioni del sistema. Le bandiere e il silenzio degli studenti su di esse rivelano i punti caldi dell’ordine, la ragione di stato di prima classe delle istituzioni serboe – il Kosovo e il quadro etno-nazionale dello stato, o meglio dell’interesse dello stato, e l’ortodossia che gli appartiene – punti neri, luoghi pericolosi e molteplici tabù che, nell’opinione generale, non devono essere toccati. D’altra parte, l’insistenza sul quadro politico della democrazia liberale ci mantiene nella matrice del “realismo capitalista”.

È comprensibile (anche se non ci piace) che, dal momento che cercano di basare la loro lotta sull’ordine costituzionale, gli studenti non sollevino le questioni proclamate dalla Costituzione stessa, nel preambolo, dove si afferma che il Kosovo è parte integrante della Serbia (cioè “Nessuna resa”), e nel primo articolo, che la Serbia è lo “stato del popolo serbo”, e solo successivamente degli altri (cioè l’interesse nazionale). Queste questioni non sono chiaramente oggetto delle lotte studentesche. Le richieste degli studenti non hanno nulla a che fare con esse.

Se siamo d’accordo con Dejan Ilić (noto intellettuale ex deputato “progressista”, ndt) quando dice che “non spetta a loro salvarci dal nostro cattivo passato, che non è il loro”, allora accettiamo anche che la lotta studentesca ha i suoi limiti, e che è un fenomeno straordinario forse proprio questo. Non spetta agli studenti aprire ogni questione o articolarla. Come loro stessi sottolineano: “le risposte alle questioni statali e sociali più generali non riguardano esclusivamente gli studenti e non devono quindi ricadere unicamente sulle nostre spalle”.

Molti hanno difficoltà a digerire ciò che hanno svelato finora – con la loro quarta richiesta, la loro organizzazione plenaria, le loro dichiarazioni e azioni (la “Lettera al popolo serbo”, l’Editto degli studenti, la “Lettera agli studenti di tutto il mondo”) – mettendo in discussione sia la democrazia liberale (rappresentativa) sia il suo quadro economico neoliberale e chiedendo un “cambiamento di sistema”. Che cosa significhi esattamente questo cambiamento rimane poco chiaro e le numerose contraddizioni della lotta, sia studentesca che sociale in senso lato, fanno sì che ognuno possa intenderlo a modo suo.

Cambio di regime o cambio di direzione

A prima vista, un cambio di sistema implica un cambio di regime. Questo è il livello a cui operano l’opposizione nel suo complesso, i media dell’opposizione e i commentatori tradizionali di tutte le parti. Gli stessi leader (o i loro sostenitori ideologici) promettono di nuovo la stessa democrazia liberale, come se gli ultimi trent’anni non fossero esistiti, come se la democrazia liberale non fosse crollata nel suo nucleo. Secondo Boris Buden, per loro “l’obiettivo finale della protesta è chiaro e inequivocabile: ripulire lo stato dagli elementi corrotti e quindi effettuare una sorta di revisione generale, dopo la quale funzionerà come nuovo”. Suppongo che, secondo il principio della terza volta fortunata, la Serbia diventerà finalmente un paese “normale”.

Da questa prospettiva, che riduce la politica al sistema politico della democrazia liberale, la protesta studentesca viene criticata come antipolitica. “La soluzione deve essere trovata nell’arena politica”, si dice, e l’arena politica è fatta di partiti, elezioni, parlamento e così via. Per essere completa, la ribellione delle “masse amorfe e politicamente inarticolate” deve essere incanalata attraverso i canali giusti: il sistema politico da un lato e la società civile dall’altro.

Fortunatamente, la politica è molto più ampia della politica istituzionalizzata, e l’attore/attrice della ribellione in Serbia non è né una “massa amorfa” né il settore civile che traduce le richieste delle masse nei cosiddetti decisori, ma la società (quella che Partha Chatterjee chiama “società politica”, studiando l’azione politica degli abitanti degli insediamenti “illegali” in India, comunità che non hanno alcun riflesso sulla legge, a differenza delle “comunità civili”).

E questa società si è ampiamente organizzata politicamente negli ultimi quattro mesi, al di fuori delle istituzioni politiche formali. È politicamente attiva ogni giorno nei plenum studenteschi, nelle associazioni informali di giovani docenti e nelle loro rivendicazioni, nelle iniziative Cultura sotto blocco a Belgrado e nella città di Kikinda, nell’assemblea della Biblioteca Nazionale, in vari gruppi di quartiere, nel sostegno auto-organizzato dei genitori a insegnanti e studenti, nell’occupazione di facoltà universitarie, nelle proteste e nelle richieste dei lavoratori dell’azienda dei trasporti pubblici GSP di Belgrado e dei farmacisti della capitale, di Kragujevac e di Užice, nelle proteste degli agricoltori di Bogatić e Rača, nel Gruppo degli ingegneri della Serbia, nel boicottaggio delle catene di vendita al dettaglio, nello sciopero delle istituzioni culturali, nel movimento contro il progetto Jadar (una regione serba ricca di un minerale particolarmente prezioso, cha ha appunto assunto la definizione di “jadarite”, ndt), nei gruppi formali e informali che lottano contro folli progetti di “sviluppo” come l’EXPO e l’Hotel dello Stato maggiore, nell’iniziativa dei lavoratori dell’IT per fornire aiuti finanziari agli educatori in sciopero, e così via, l’elenco sembra infinito. A parte alcuni sindacati semi-impegnati e associazioni professionali, tutte queste iniziative politiche sono extra-istituzionali. Solo in casi eccezionali, come quello di Kraljevo, l’opposizione gode di fiducia e legittimità sufficienti per essere sostenuta dalla società.

Nella “Lettera al popolo serbo” (sarebbe preferibile che gli studenti non si rivolgessero al “popolo serbo”, ma al “popolo della Serbia”), gli studenti descrivono letteralmente ciò che è stato coinvolto nelle loro azioni per mesi, e ciò che molti osservatori e presunti rappresentanti politici ignorano ostinatamente. Alla domanda “qual è il prossimo passo”, gli studenti hanno risposto inequivocabilmente “Svi u zborove” (tutti alle manifestazioni).

Non potrebbe essere più chiaro che gli studenti stanno pensando al cambiamento del sistema in termini più profondi di un semplice cambio di regime. Essi sostengono un cambiamento nella governance, chiedendo una democrazia diretta e istituzioni costruite dal basso.

I politici e gli opinionisti non superano il test del sostegno a questo orientamento studentesco, così come altri attori presumibilmente più progressisti, come il Centro culturale di Belgrado (KCB), anche se sostengono apertamente gli studenti e la società ribelle. Si scopre che sostengono la ribellione solo nella misura in cui questa inizia a sfidare anche loro. Invece di partecipare, per quanto difficile, i dipendenti del KCB prendono le distanze dall’occupazione del Teatro e lamentano l’a perdita’annullamento della programmazione, escludendosi così dalla lotta, rimanendo a livello di virtuty-signaling (un’espressione di falsi sentimenti di solidarietà), senza un vero “ruolo nel gioco”. Non dubito, seguendo molti commenti, che anche la “liberazione del KCB” abbia i suoi problemi significativi, ma non si può negare che occupando uno spazio fisico abbia creato una crepa nell’ordine consueto delle cose e quindi ci abbia permesso di parlarne ora, confermando che, come sottolinea Kristin Ross sulle orme di Nikolaj Černyševskij (il principale teorico dei populisti russi del XIX secolo, ndt), “sono le opere a creare sogni e idee, non il contrario”.

Lo ha sottolineato anche il filosofo francese Jacques Rancière nella sua lettera di sostegno agli studenti: “Per coloro che lottano contro l’oppressione, non c’è altra organizzazione che l’auto-organizzazione (…) Il movimento studentesco e giovanile in Serbia ci ricorda che non possiamo separare il fine e i mezzi, e che la democrazia non è un obiettivo esterno ma una pratica, la vita stessa del movimento”. È stata la pratica della democrazia studentesca a far nascere tutta la bellezza e i sogni della ribellione.

Nel contesto della democrazia liberale

Virtue-signalling si rivela anche la posizione preferita di un pubblico liberale preoccupato che rifugge dalle bandiere e dalle scritte “No Surrender”, mentre alimenta il “mito di Zoran” (in riferimento a Zoran Đinđić, ex primo ministro serbo ucciso nel 2003 in un attentato, ndt), canonizzando acriticamente, anziché problematizzare, l’eredità dello statista che equiparava i cetnici ai partigiani, introduceva l’educazione religiosa nelle scuole ed era incline a stringere alleanze “pragmatiche”. In definitiva, sulla questione del Kosovo, la politica del governo da lui guidato non si discostava molto da quella proclamata dalla Costituzione del 2006, la cui adozione era stata sostenuta dai suoi successori politici e ideologici. Per non parlare dell’equilibrio della sua politica economica.

Inoltre, i suoi maggiori punti di forza, la “normalità” che ha promesso per decenni e i “valori europei” o lo “stile di vita europeo” che sperava di raggiungere, sono diventati nel frattempo strumenti nelle mani della destra radicale. Vorrei ricordare che lo slogan elettorale dell’AfD tedesco alle recenti elezioni federali era: “Germania, sì, ma normale”, e la difesa dello “stile di vita europeo” è il principale strumento propagandistico utilizzato per giustificare la morte dei rifugiati nel Mediterraneo.

Nonostante tutte le belle prodezze linguistiche, particolarmente visibili nell’accostamento tra nazionalismo civile ed etnico, il fondamento della democrazia liberale europea (e del nostro tentativo) non è altro che lo stato-nazione, fedele fino all’osso all’“equazione fondante dello stato repubblicano moderno”, nazionalità = cittadinanza, come dice Etienne Balibar.

L’opposizione, come l’opinione pubblica liberale, non vorrebbe nuotare in queste acque nauseabonde. Dio mio, per favore, guardati allo specchio. Preferisce stare al sicuro: nel guscio delle istituzioni politiche formali, dove la politica non fiorisce. La politica è altrove.

Poiché, a differenza dell’opposizione, per gli studenti “la democrazia non è un obiettivo esterno ma una pratica”, hanno persino sollevato il tema. Grazie alla loro lotta, possiamo vedere ciò che accade nella città di Novi Pazar, possiamo vedere bosniaci, slovacchi, vlachi, rom, non come caricature dei loro rappresentanti politici, né come “minoranze”, ma come membri uguali della società.

Nulla di tutto ciò riguarda l’opposizione, che si aggira smarrita, incapace di trovare un ruolo per sé. Forse dovrebbe cercare di essere un mediatore, non un rappresentante? Forse, invece di parlare per la società, dovrebbe cercare di creare uno spazio in cui la società possa parlare per se stessa (cosa che certamente già fa). Che invece di cercare di formare un governo di transizione tra di loro, che difficilmente avrebbe la legittimità di rappresentare qualcuno se non loro stessi, dovrebbero rivolgersi alla società politica già ampiamente auto-organizzata.

E quando parlo di società, non mi riferisco (solo) alle organizzazioni non governative (già a rischio di collasso dopo il ritiro dei fondi statunitensi), o al ProGlas (l’associazione costruita da vari intellettuali democratici), che, con tutte le sue buone intenzioni, non è altro che un rappresentante autoproclamato che non è stato autorizzato da nessuno a rappresentarli. E tanto meno mi riferisco specificamente ai gruppi di estrema destra e di destra e ai loro tentativi di ridenominare o prendere il controllo della lotta studentesca (come è successo a nella città di Čačak).

Penso all’Associazione delle scuole in sciopero, penso ai farmacisti, agli insegnanti, agli operatori sociali e culturali ribelli, penso agli agricoltori, penso alla SEOS, l’Associazione delle organizzazioni ambientaliste della Serbia, e ad altri gruppi di tutela della natura, all’Assemblea dei cittadini di Rakovica. Penso anche ai veterani. Ai lavoratori dei settori vitali che non sono ancora stati convinti o aiutati a sollevarsi.

Se vuole diventare rilevante, e soprattutto se vuole essere utile, l’opposizione potrebbe dialogare con questi gruppi, ascoltarli, responsabilizzarli e metterli in contatto, e concordare con loro strategie, soluzioni di transizione, rappresentanti e priorità. Potrebbe sforzarsi di essere presente dove si forgiano nuove politiche, dove si costruiscono nuove istituzioni e nuove visioni, e di sollevare lì domande, per quanto dolorose e spiacevoli, sul passato e sulle fondamenta dello stato.

L’economia politica e la macchia nera delle proteste studentesche

L’abbandono del “realismo capitalista”, o meglio la richiesta di un cambio di paradigma economico, è implicito nelle azioni degli studenti così come nelle azioni e nelle richieste di altri gruppi sociali ribelli. Tutti partono dall’ovvia constatazione che l’era della gioiosa globalizzazione è finita e che il capitalismo, soprattutto nella sua forma neoliberista, ha portato rovina anziché prosperità, e chiedono una direzione diversa.

Studenti, esponenti del mondo della cultura, operatori sanitari e dei servizi sociali chiedono maggiori investimenti pubblici, mentre i lavoratori dei trasporti pubblici e dei farmacisti di Belgrado chiedono di fermare le privatizzazioni e di rivedere i contratti pubblico-privati esistenti, La SEOS chiede la completa sospensione del progetto Jadar e i lavoratori della Proleter di Ivanjica bloccano la fabbrica da settimane, impedendo al datore di lavoro di prelevare merci e materie prime dallo stabilimento e chiedendo il pagamento dei salari loro dovuti.

La riluttanza a mettere in discussione il quadro economico dell’ordine è particolarmente visibile nell’ignoranza degli attori sociali e degli aspetti della loro lotta che lo mettono in discussione. Ad esempio, le occupazioni delle facoltà private sono state completamente rimosse, anche se con le pressioni e le minacce a cui sono sottoposti i loro studenti.

Come ha scritto la docente di letteratura Tatjana Rosić, gli studenti si chiedono se la libertà accademica possa esistere in un’azienda privata il cui scopo ultimo è, in ultima analisi, il profitto. O, più in generale, può esistere un’agorà privata, una proprietà privata destinata alle libertà pubbliche? La risposta dovrebbe essere più che chiara se consideriamo la rapida trasformazione dell’ormai defunto Twitter in una X fascista. Più recentemente, il progetto di arresto e deportazione dell’attivista filopalestinese Mahmoud Khalili negli Stati Uniti, realizzato con il sostegno della sua università, la Columbia, ci dice tutto sulla possibilità della libertà accademica nel quadro di un’impresa privata.

Da un punto di vista di economia politica, possiamo anche tornare al punto nero delle manifestazioni studentesche, l’impossibilità di discutere del Kosovo e la formulazione nazionale dell’interesse dello stato. Come la bandiera “No Surrender” domina lo spazio perché la Costituzione la incoraggia a farlo, così l’interesse nazionale, per inerzia, tende a reprimere la natura di classe della ribellione sociale. La divergenza tra interessi nazionali e di classe, o la questione se prevarrà la prospettiva di classe o quella nazionale della lotta, è cruciale per il futuro della ribellione e della Serbia.

Facciamo un passo indietro e guardiamo al lavoro svolto finora dai progetti nazionali anti-establishment. Nella sua analisi dei programmi economici dei partiti di estrema destra in Europa, il giornalista tedesco Jan Rettig conclude che le loro politiche possono essere viste come parzialmente antisistemiche, perché rompono con la fede cieca nel mercato. Tuttavia, lo fanno esclusivamente per proteggere il capitale privato nazionale. L’estrema destra, se da un lato introduce misure protezionistiche, dall’altro continua la devastazione neoliberista del settore pubblico e il disconoscimento dei lavoratori.

Questa tendenza è evidente se guardiamo ai primi mesi della presidenza Trump. Il più coerente guerriero “anti-establishment” sta regalando miliardi di contratti e sussidi governativi al suo amico Elon Musk, secondo in comando (nonché l’uomo più ricco del mondo), mentre allo stesso tempo abolisce i programmi di sostegno per i poveri, taglia i fondi per le università e i progetti scientifici e ridimensiona radicalmente il settore pubblico, lasciando migliaia di disoccupati e senza reddito.

In Europa, i governi di destra e di centro, nella loro frenesia guerrafondaia, stanno pompando denaro nelle industrie militari private, rivelandosi, sebbene scioccati dal tradimento di Trump, fedeli sostenitori della sua svolta imperiale. Per le strade di Berlino, i cartelloni pubblicitari promuovono ovunque i droni militari prodotti in Germania da Quantum Systems, uno dei cui principali investitori è il proprietario di Palantir, finanziatore di lunga data di Trump e dichiarato radicale di destra, per non dire fascista, Peter Thiel. Secondo i media, Quantum Systems raddoppierà la produzione di droni per la guerra in Ucraina entro il 2025.

L’aperto rifiuto di Trump del diritto internazionale e dell’ordine stabilito dopo la Seconda guerra mondiale, a favore di una politica imperiale non dichiarata, ha esposto l’Europa come una periferia, non un partner ma una sfera di interessi, per non parlare del Medio Oriente o dell’America Latina mentre cerca di negoziare con un altro potenziale impero (la Russia) per condividere il bottino (l’Ucraina).

Paese, non territorio

Dove cercheranno questi militaristi pazzoidi le materie prime per le loro imprese imperiali? Chi useranno come carne da cannone? Certamente non i loro figli, ma i nostri. E per nostri non intendo solo i serbi, ma tutti i periferici, tutti gli emarginati, tutte le classi lavoratrici, tutti i frontalieri, come i bambini dell’Ucraina, tutti i “superflui”, come i bambini palestinesi che occupano una zona che potrebbe diventare una “bella Riviera”.

Se gli interessi nazionali, incarnati dalle bandiere “No Surrender”, prevarranno nella lotta per il significato e gli obiettivi della ribellione sociale, la Serbia si troverà di fronte alla scelta di allinearsi con una, due, tre o cinque potenze imperiali, alle quali offrirà tutto ciò che ha a disposizione – il suo popolo, la sua terra, le sue risorse. In questo scenario, solo le élite compradore, sia politiche che economiche, possono farla franca.

A differenza della prospettiva nazionale, che per il momento, almeno per quanto posso vedere, è presente solo simbolicamente, la prospettiva di classe e intersezionale sta emergendo e permea tutti gli aspetti della ribellione studentesca e sociale. I suoi motti sono giustizia, solidarietà, uguaglianza, aiuto reciproco e una vita dignitosa per tutti.

A differenza della destra antisistemica, radicata nell’essenzialismo e nel nativismo, nelle gerarchie di genere, di classe, razziali ed etno-nazionali, la carica antisistemica della lotta studentesca è profondamente femminista perché propone un’etica di cura per i diversi, i più deboli, gli oppressi, gli invisibili e i dimenticati, perché valorizza profondamente la vita (non solo quella umana), insiste sulla non violenza, sulla solidarietà e sulla preoccupazione per il bene comune; è antifascista perché si preoccupa di chi sono gli altri; è anticoloniale antimperiale perché rifiuta la logica della superiorità di una persona su un’altra; ed è certamente classista perché non accetta la “naturalità” dell’appropriazione e dello sfruttamento.

Per quanto i nostri rappresentanti politici in eccesso cerchino di stabilire una nuova iterazione della nostra democrazia liberale, il sistema internazionale in cui la Serbia si trova, che le piaccia o no, è stato irreversibilmente modificato. Non possiamo tornare al passato. E perché dovremmo? Quel passato è responsabile dell’apocalisse in cui viviamo – politica, economica, ecologica – e che nega ai bambini di oggi il diritto a un futuro. Invece di scegliere tra bruciare in una guerra nucleare o essere bruciati dal sole, i giovani scelgono almeno di lottare per la possibilità di un futuro diverso.

Questo testo può quindi essere letto come un appello ai liberali: se non vogliono (o non possono) aiutarli, almeno non ostacolarli. Non ci sono soluzioni preconfezionate, soprattutto non quelle che si sono ripetutamente risolte in un fiasco. Non ci sono percorsi prestabiliti, fare un passo avanti è molto rischioso e l’esito è incerto. Il movimento studentesco è politicamente incompleto, talvolta maldestro nell’articolazione dei suoi principi, condannato, come tutti noi, alla terminologia e all’apparato concettuale ereditati da un sistema morente. I loro ideali non sono pienamente realizzati, ma la concretezza della loro lotta crea “idee e sogni”.

Pensare insieme e immaginare realtà economiche e politiche diverse può aiutarci a guardare oltre le nostre lotte individuali. Guardiamo al passato, all’esperienza della Comune di Parigi, al cosiddetto Sud globale, al Rojava, una società senza stato, alla Bolivia plurinazionale, alla resistenza palestinese che prende l’ulivo come simbolo e pone la terra al centro della sua lotta, non come territorio statale, né come proprietà, ma come terra che dà la vita. “Tutti gli Stati e i confini sono immaginari, solo la terra è reale, e la terra ci accetta ovunque moriamo”, come dice la saggia Yusra nella serie “Mo” (netflix, 2024). La terra è nostra, non perché ne siamo originari, né perché la possediamo, ma perché ci impegniamo a curarla, a rinnovarla, perché rinnovando la terra non possiamo che rinnovare noi stessi.

*articolo apparso su Mašina il 17 marzo 2025.

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