Il colonialismo 2.0 di Donald Trump & Co.

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Donald Trump e la sua cricca predatrice rinnovano, a spese dei territori presi di mira, ciò che Lenin chiamava “lo stdio supremo del capitalismo”: l’imperialismo. Un colonialismo ridotto al solo prelievo di tributi in contanti, senza neppure più il pretesto di una missione “civilizzatrice”.

Tutti ormai conosciamo i termini del ricatto imposto da Donald Trump e dalla banda che lo affianca alla Casa Bianca ai danni dell’Ucraina: cedeteci le vostre risorse, in modo che il loro sfruttamento da parte nostra vi protegga, poiché così Putin non oserà più attaccare il vostro Paese.
I “negoziati” procedono spediti, anche se di fatto si tratta di una continua pressione di Washington su Kiev. Una nuova pretesa americana è trapelata sabato sera, 12 aprile, grazie all’agenzia Reuters e al quotidiano The Guardian di Londra: impossessarsi di un’importante conduttura di gas che attraversa l’Ucraina, tra Soujya (nella regione di Kursk) e Uzhhorod (in Transcarpazia).
Gli emissari americani hanno perfino commesso l’errore, rivelatore, di attribuire nella loro ingiunzione il gasdotto alla società russa Gazprom — mentre appartiene in realtà all’Ucraina, pur trasportando gas russo verso l’Europa.
Interpellato dal Guardian, l’economista ucraino Volodymyr Landa non ha usato mezzi termini, forse dando voce al potere politico di Kiev, costretto al silenzio dagli scagnozzi di Trump dopo l’oltraggioso attacco subito dal presidente Zelensky il 28 febbraio nello Studio Ovale: «Intimidazioni di stampo coloniale».

Per l’opinione pubblica occidentale, il colonialismo nella sua forma più brutale sembrava ormai un relitto del passato, spazzato via dal famoso discorso radio-televisivo di Charles de Gaulle che, il 14 giugno 1960, seppellì «l’Algeria di papà»: «È naturale provare nostalgia per ciò che fu l’impero, come si può rimpiangere la dolcezza delle lampade a olio, lo splendore delle flotte a vela o il fascino dell’epoca delle ciurme. Ma che importa? Nessuna politica ha valore al di fuori della realtà!». Ma le realtà non sono eterne, ma dialettiche e cicliche. Al Congresso di Vienna, nel 1815, la Francia fu privata delle sue colonie, la Spagna non aveva più un impero e il Regno Unito era allora un’eccezione che non sarebbe durata a lungo.
Jean-Baptiste Say, nel suo Trattato di economia politica (1825), affermava: “Le vere colonie di un popolo commerciale sono i popoli indipendenti di tutte le parti del mondo. Ogni popolo commerciale deve desiderare che siano tutti indipendenti, affinché diventino tutti più industriosi e più ricchi; perché più sono numerosi e produttivi, più offrono opportunità e facilitazioni per gli scambi»; prima di aggiungere: “Verrà un tempo in cui ci si vergognerà di tanta stupidità e in cui le colonie non avranno altri difensori se non quelli a cui offrono posti di lavoro redditizi da dare e ricevere, il tutto a spese dei popoli”.
Il colonialismo non era per questo diventato per sempre fuori moda, come avrebbero testimoniato la conquista dell’Algeria e quella dell’India. Senza dimenticare il Tonchino. Infine, e soprattutto, la corsa all’Africa e alla sua spartizione nell’ultimo quarto del XIX secolo.
La situazione di allora non era dissimile da quella odierna: quando i progressi tecnici facilitano un’espansione alimentata dal nazionalismo e motivata dai rinnovati bisogni del capitalismo. L’avidità territoriale rivendicata senza vergogna dall’imperialista Donald Trump attinge alla stessa tradizione storica, rinnovandola. È finita l’epoca del fardello dell’uomo bianco, per riprendere il titolo della poesia di Rudyard Kipling, che nel 1899 scrisse: “Le tue ricompense sono irrisorie”.
Nel 2025 il profitto deve essere totale e brutale. L’avidità americana punta a prendersi solo ciò che conta: il vantaggio economico che il possesso garantisce, senza più caricarsi di quanto una volta lo accompagnava — la gestione diretta e il pretesto della “missione civilizzatrice”. È questa la logica del colonialismo 2.0 incarnato da Donald Trump.
Tra il 1898 e il 1909, mentre William McKinley e Theodore Roosevelt occupavano la Casa Bianca, ci fu l’annessione delle Hawaii, la colonizzazione totale di Porto Rico e Guam, il controllo (temporaneo) delle Filippine e l’asservimento di Cuba. Oggi, rotta verso Panama, la Groenlandia e l’Ucraina!
Sempre con l’unico metro della redditività del “territorio utile”. Da qui il vergognoso, delirante ma tenace progetto, accarezzato dagli uomini fidati del 47° presidente USA, di una “Riviera di Gaza”: una fascia costiera debitamente sfruttata dopo averne espulso la popolazione.
Donald Trump, grazie ai moderni mezzi di comunicazione social che governano il pianeta, si comporta, da Washington, come un governatore o un residente generale di un tempo. Direttamente,  senza quei corpi intermedi, quelle pesanti e complesse amministrazioni coloniali, che nel secolo scorso finirono per preparare il terreno alla decolonizzazione proprio incarnando arbitrio e ingiustizia.

“Dominazione e colonizzazione”

Basta leggere Domination et Colonisation, pubblicato nel 1910 (Flammarion) da Jules Harmand, medico ed ex commissario generale in Tonchino: “Per essere applicata con successo, la dominazione richiede la costituzione in ogni Stato coloniale di un corpo d’élite, di uno stato maggiore civile soggetto a particolari regole di reclutamento, preparazione e avanzamento, investito di un’autorità indiscussa su tutti i servizi provinciali, che esercita o si prepara a esercitare funzioni di comando, direzione e controllo che sono, per loro natura, vietate e inaccessibili alle gerarchie indigene”.
Il colonialismo di Trump si libera di tutti questi orpelli del passato, che ostacolavano il dominio economico. È interamente finalizzato allo sfruttamento delle materie prime, sottratte a chi non ha diritti, fondato su una cinica deregolamentazione ambientale: una nuova forma di complicità coloniale occidentale.
Un sentimento diffuso nell’emisfero settentrionale rende questo tacito consenso possibile, perché esistono ancora oggi legami profondi tra immaginario coloniale e moderne esclusioni etniche — dagli Stati Uniti alla Russia, passando per l’Europa. Secondo questo pregiudizio, il Panamá sarebbe popolato da “papponi da quattro soldi” (per usare una vecchia e sprezzante espressione), la Groenlandia abitata da “selvaggi” e gli ucraini non apparterrebbero a una vera nazione, parlando solo una lingua a lungo definita “piccolo russo”. Per non parlare dei palestinesi, vittime di gran parte degli stereotipi di esclusione che ancora perseguitano l’immaginario occidentale.
Un senso di superiorità ancora oggi all’opera. Per comprenderne la persistenza, bisognerebbe leggere uno studio fondamentale — purtroppo mai tradotto in francese: Complying with colonialism. Gender, Race and Ethnicity in the Nordic Region (2009).
Il libro sviluppa il concetto di “complicità coloniale” analizzando i casi di Finlandia, Svezia e Norvegia, paesi ai margini della colonizzazione europea ma pienamente integrati nell’ideologia “universale” del colonialismo e delle sue gerarchie razziali implicite. Anche loro parteciparono, in forma più discreta ma concreta, a un ordine mondiale disgustoso, fondato sulla legge del più forte divenuta suprematismo.
Dal Mediterraneo al Baltico, siamo stati tutti – e forse lo siamo ancora – potenziali colonizzatori. Ecco perché questa deriva perniciosa oggi si riaffaccia, mascherata da una modernità abbagliante. Piuttosto che fingere di non vedere, impariamo a costruire collettivamente un rifiuto consapevole, solidale e determinato di questo nuovo disordine imperialista, predatorio e in ultima analisi bellicoso.

*articolo apparso su mediapart il 13 aprile 20025.

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