Dalla rivolta di Maidan e dall’annessione illegale della Crimea da parte della Russia nel 2014, la propaganda del Cremlino ha costantemente dipinto i leader ucraini come nazisti o fascisti. I funzionari e i media statali russi hanno iniziato a sostenere che i nuovi leader ucraini erano “neonazisti” che avrebbero minacciato la popolazione russofona dell’Ucraina. La Russia ha anche accusato le autorità ucraine di “genocidio” contro la popolazione del Donbass.
Il 24 febbraio 2022, quando è stata annunciata l’invasione su larga scala, la “denazificazione” dell’Ucraina è stata presentata come l’obiettivo principale della guerra. Sul campo, non c’è nulla a sostegno delle accuse di Mosca: nessuno ha mai documentato un “genocidio” contro persone di origine russa o russofone, né in Ucraina né altrove. Per quanto riguarda l’estrema destra ucraina, la sua influenza politica rimane minima: alle elezioni parlamentari del 2019, i principali partiti ultranazionalisti, che hanno corso in una lista comune, hanno ottenuto poco più del 2% dei voti, ben al di sotto della soglia necessaria per entrare in parlamento. In breve, l’immagine di un “regime nazista” a Kiev si basa su un evidente divario tra retorica e realtà.
Tuttavia, lo scopo di questa analisi non è quello di dimostrare che la propaganda russa è, di fatto, propaganda. Si tratta piuttosto di capire perché le autorità russe invocano ripetutamente la Seconda guerra mondiale – o, nel linguaggio russo, la “Grande guerra patriottica” – quando parlano dell’Ucraina. La comprensione di questa dinamica memoriale è essenziale per comprendere il potere di una retorica che, nonostante la totale mancanza di basi fattuali, continua a plasmare la visione del mondo russo.
Cancellare la complicità sovietica nella Seconda Guerra Mondiale
L’insistenza sovietica e russa nell’utilizzare il termine “Grande Guerra Patriottica” per riferirsi esclusivamente al periodo dal 1941 al 1945 ha un chiaro scopo: cancellare i ventuno mesi che precedettero l’invasione dell’URSS da parte della Germania nazista. Tra il Patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 e l’Operazione Barbarossa del 22 giugno 1941, Mosca e Berlino erano di fatto alleate: cooperavano strettamente in campo economico, coordinavano la loro diplomazia e invadevano e si dividevano la Polonia nel settembre 1939.
L’Unione Sovietica annesse poi gli stati baltici e dichiarò guerra alla Finlandia. Riducendo la guerra al periodo 1941-1945, l’URSS e la Russia poterono negare ogni responsabilità per lo scoppio della Seconda guerra mondiale e presentarsi esclusivamente come vittime dell’aggressione nazista e principali liberatori dell’Europa.
La Grande Guerra Patriottica, e soprattutto la vittoria del 1945, divennero l’evento fondante della storia sovietica e la pietra angolare della memoria collettiva. Ma questa memoria, spesso presentata come monolitica e universalmente condivisa, è tutt’altro che uniforme. Un ucraino occidentale, che ha subito due occupazioni successive tra il 1939 e il 1944, ricorda una guerra molto diversa da quella di un ucraino orientale, la cui esperienza è stata segnata principalmente dalla distruzione nazista.
La memoria di un russo ha poco in comune con quella di un tataro di Crimea, deportato con tutta la sua comunità e a cui è stato negato il diritto di tornare per decenni. Gli ebrei sovietici, le cui famiglie e comunità sono state sterminate durante l’Olocausto, sono stati a lungo costretti al silenzio e i resoconti ufficiali non hanno lasciato spazio alla natura specifica della loro sofferenza.
Mentre in Europa occidentale e in Nord America l’Olocausto è oggi considerato l’orrore supremo della guerra, il mito sovietico della guerra cancella questa tragedia integrandola nel vasto tributo umano del popolo sovietico nel suo complesso. I ricordi delle minoranze – massacri antisemiti, deportazioni etniche o varie esperienze di occupazione – dovevano essere assorbiti, messi a tacere e cancellati.
L’esperienza collettiva della guerra e il discorso ufficiale che la circondava hanno profondamente rimodellato la concezione di “fascismo” e “antifascismo” della popolazione sovietica. Piuttosto che designare una specifica dottrina politica del periodo tra le due guerre, il termine “fascismo” era diventato un’etichetta che indicava il nemico finale. Trotsky o i conservatori britannici potevano essere altrettanto facilmente descritti come “fascisti”, così come gli avversari nazionali e internazionali dopo il 1945, compresi i comunisti cinesi. La parola stessa “nazista” era usata raramente. Nella vita di tutti i giorni, chiamare qualcuno “fascista” era più un grave insulto che una dichiarazione ideologica.
Negli anni Sessanta e Settanta, mentre la fede nel comunismo come progetto per il futuro cominciava a sgretolarsi, il culto della vittoria del 1945 divenne gradualmente il principale pilastro di legittimità del regime sovietico. Le commemorazioni divennero rituali e finirono per coinvolgere tutte le generazioni e tutti i gruppi sociali: i bambini, allineati in file serrate, marciavano davanti alla Fiamma Eterna o alla Tomba del Milite Ignoto; le spose, con veli al vento e bouquet in mano, si recavano ai monumenti ai caduti per deporre fiori e farsi fotografare. In ogni città e villaggio sono stati eretti memoriali costruiti dallo stato, la cui solenne architettura aveva lo scopo di iscrivere la memoria della Grande Guerra Patriottica nella vita quotidiana dei cittadini.
L’era Putin: la memoria come arma
Sotto Vladimir Putin, il culto della Grande Guerra Patriottica è stato riportato in auge. Dopo le manifestazioni pro-democrazia del 2011 e la candidatura di Putin a un terzo mandato presidenziale nel 2012, il regime ha attuato una politica deliberata di costruzione di una narrazione storica volta ad ancorare la propria legittimità a una visione della nazione sotto assedio. Di fronte alle diffuse proteste contro il crescente autoritarismo, le autorità hanno scelto di presentare la Russia come circondata da nemici e Putin come l’unico baluardo in grado di difendere la patria. Non c’è stato bisogno di inventare una nuova ideologia: il mito già consolidato della Grande Guerra Patriottica è diventato naturalmente la narrazione strategica del regime, operando a tutti i livelli.
La glorificazione della vittoria del 1945 ha permesso al regime di epurare la memoria collettiva dai suoi elementi specificamente socialisti: mantenendo solo la narrazione del trionfo nazionale, il periodo sovietico poteva essere integrato senza soluzione di continuità nella storia nazionale, senza rotture rivoluzionarie. Allo stesso tempo, la riabilitazione di Stalin come legittimo vincitore servì a legittimare l’autocrazia. Le massicce repressioni e le politiche genocide che sono costate milioni di vite sono state presentate come un passo tragico ma necessario: avevano trasformato l’URSS in una superpotenza mondiale, capace di difendere la civiltà dalla “peste nera”.

Il Cremlino ha moltiplicato gli strumenti legali che utilizza per trasmettere questa narrazione. Dal 2020, la Costituzione russa impone il “rispetto della memoria dei difensori della patria” e vieta di “minimizzare l’importanza dell’eroismo” del popolo sovietico. Nell’aprile 2021, Putin ha firmato una legge che inasprisce le pene per gli “insulti” o le “false dichiarazioni” sulla Seconda guerra mondiale e sui suoi veterani. Nel dicembre 2019, Putin stesso ha riunito alcuni leader degli stati post-sovietici attorno a una pila di documenti d’archivio che, a suo dire, dimostravano verità storiche a lungo ignorate in Occidente, citandoli selettivamente per giustificare, a posteriori, l’annessione della Polonia e degli stati baltici da parte dell’URSS. Putin ha così sfruttato la storia, che è diventata inseparabile dall’interesse nazionale. Mettere in discussione la sua interpretazione equivale a un tradimento.
L’immaginario nazionale costruito attorno al culto della Grande Guerra Patriottica permette ora di presentare tutte le azioni della Russia sulla scena internazionale come parte di una guerra eterna contro il fascismo. Nel discorso dei media russi, sarebbe stato impensabile descrivere il governo ucraino come una “giunta fascista” o una “cricca nazista” al di fuori del quadro narrativo imposto dallo stato nell’ultimo decennio. L’invasione su larga scala del 2022 viene così presentata come una semplice continuazione della Grande Guerra Patriottica: un conflitto radicato in una concezione ciclica del tempo in cui la Russia, eternamente minacciata da un nemico occidentale, combatte per la sua stessa sopravvivenza sul suolo ucraino.
Ogni anno, il 9 maggio, i russi marciano nel Reggimento Immortale indossando i ritratti dei loro cari che hanno combattuto tra il 1941 e il 1945. Sempre più spesso, a queste file si aggiungono i volti di coloro che hanno combattuto – o sono morti – nella guerra contro l’Ucraina, come se le due guerre facessero parte di un’unica lotta senza fine. Le guerre passate e presenti si fondono e la vittoria del 1945 diventa il prisma attraverso il quale tutti gli eventi – passati, presenti e futuri – vengono interpretati in una cronologia storica continua.
Questa fusione simbolica spiega anche le immagini surreali delle forze di occupazione russe che, nelle ultime settimane, hanno piazzato striscioni di propaganda nelle città ucraine distrutte. Bakhmut, una città ormai inabitabile, è stata trasformata in un palcoscenico per celebrare l’80° anniversario della vittoria della Russia nella “Grande Guerra Patriottica”. Il culto della vittoria non è solo centrale nell’immaginario di Putin, ma serve anche come sistema operativo per la governance interna e l’aggressione esterna. (Nel video pubblicato nel Tweet qui sotto può vedersi la propaganda russa sulla “Grande guerra patriottica” tra le rovine della città di Bakhmut)
Allargare la narrazione della guerra: dall’Ucraina all’Europa
Questo quadro mitologico plasma anche la politica estera di Mosca. Alimenta la convinzione del diritto morale di “punire” coloro che sono accusati di collaborare con il nemico; la narrazione di guerra diventa uno strumento disciplinare usato contro i paesi vicini “ribelli”. Un esempio eloquente è l’installazione di uno schermo gigante al confine con l’Estonia, che trasmette a ciclo continuo le celebrazioni del Giorno della Vittoria, nel tentativo di ricordare agli estoni, ma anche ai lettoni e ai lituani, che la vittoria sovietica rappresenta una superiorità morale inattaccabile.
Identificarsi con il discorso della Grande Guerra Patriottica divenne così un segno di lealtà e virtù; rifiutarlo o metterlo in discussione equivaleva a dimostrare il tradimento, a esporsi come corrotti dal nemico e quindi a essere etichettati come fascisti. Grazie a questo meccanismo, il regime russo non controlla solo la memoria collettiva: controlla anche la sfera politica e sociale.
Nell’immaginario collettivo russo, la parola “fascismo” ha perso ogni legame con una specifica ideologia politica e ora si riferisce solo a una minaccia astratta e assoluta: il desiderio di distruggere la Russia. È diventata sinonimo di “nemico” o “russofobo”, riferendosi sempre all’Altro, mai a un movimento storicamente definito. Questa separazione tra la parola e il suo significato permette al regime di glorificare la vittoria antifascista mentre promuove apertamente un discorso xenofobo, omofobo o ultraconservatore, senza alcuna apparente contraddizione.
Il termine “denazificazione”, utilizzato da Vladimir Putin il 24 febbraio 2022 per giustificare l’invasione, ha inizialmente lasciato perplessi molti russi, che non conoscevano il termine in questo contesto. Poco dopo, l’agenzia di stampa ufficiale RIA Novosti ha pubblicato un articolo di Timofey Sergeytsev – “Cosa deve fare la Russia con l’Ucraina” – volto a chiarirne il significato: la ‘denazificazione’ è stata descritta come una “pulizia totale”, che prende di mira non solo i presunti leader nazisti, ma anche “le masse popolari che sono nazisti passivi”, ritenuti colpevoli di sostenere il “governo nazista”.
Secondo Sergeytsev, l’Ucraina moderna nasconde il suo nazismo dietro le aspirazioni all’“indipendenza” e allo “sviluppo europeo”. Per distruggere questo nazismo, l’Ucraina deve essere “de-europeizzata”. In questa logica, la denazificazione diventa sinonimo di eliminazione di ogni influenza occidentale in Ucraina e di smantellamento dell’esistenza del paese come stato nazionale e società distinta. Incubato sulle piattaforme ufficiali dello stato, questo discorso rivela la vera portata della “denazificazione”: un progetto su larga scala per cancellare tutte le tracce dell’unicità ucraina, un piano generale per il genocidio.
L’articolo recentemente pubblicato sul sito ufficiale del Servizio di intelligence estera della Federazione Russa (SVR), intitolato “L’eurofascismo, oggi come 80 anni fa, è un nemico comune di Mosca e Washington”, illustra vividamente la diffusione del discorso della “denazificazione” ben oltre l’Ucraina. L’immagine di accompagnamento mostra un grottesco mostro ibrido: il corpo ha la forma di una svastica nera con al centro il cerchio di stelle dell’UE, mentre la testa è una caricatura di Ursula von der Leyen. La creatura, con i suoi artigli insanguinati, è incastrata tra due baionette, una americana e l’altra russo/sovietica. Questa immagine grottesca non è solo una provocazione: riflette un discorso profondamente radicato nella propaganda di stato russa, in cui l’“eurofascismo” diventa un concetto operativo che comprende tutte le società europee.
Un simile messaggio, approvato dai più alti livelli dello stato, poteva sembrare assurdo, persino comico, solo pochi anni fa, come la retorica intorno agli “ucraini”, che persino gli esponenti dell’opposizione russa non prendevano sul serio, descrivendola come un cinico paravento. Ma il punto di svolta del 2022 ha rivelato la vera natura di questa retorica: la base ideologica per un’invasione su larga scala, preparata da tempo nella sfera dell’informazione.
Oggi una parte della società europea, in particolare alcuni elementi della sinistra pacifista, sta cadendo nella stessa trappola: sottovalutare o ignorare la dinamica propagandistica in corso. Ma la macchina è già in moto. Il linguaggio del fascismo si espande ogni giorno per includere nuovi nemici designati e la guerra ideologica sta cambiando rotta: non si ferma più all’Ucraina, ma ora è rivolta a tutta l’Europa. Di fronte a questa brutale riconfigurazione del discorso ufficiale russo, la compiacenza e la passività sono diventate esse stesse forme di cecità strategica.
*articolo pubblicato su posle.media
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