“Fabbriche gallegianti”

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In questi ultimi dieci giorni la tragedia della nave Concordia naufragata vicino all’isola del Giglio ha tenuto impegnati i media di tutto il mondo. Il circolo mediatico si è concentrato prevalentemente sulle responsabilità del capitano della nave, Francesco Schettino, colpevole secondo la stampa di aver fatto affondare la nave e poi di averla abbandonata. In attesa che l’inchiesta appuri come sono andate esattamente le cose, vorremmo ritornare sulla vicenda mettendo in evidenza due aspetti che pochi hanno sottolineato e di cui si comincia a parlare solo in questi giorni.

 

Il primo riguarda la sicurezza di equipaggio e passeggeri. Da quel che è emerso sembra che la pratica dell’inchino, che prevede di avvicinare la navi il più possibile alle coste, sia una consuetudine delle compagnie di navigazione turistica. Una pratica che, seppur pericolosa, rappresenterebbe per le compagnie un’enorme entrata in termini pubblicitari. Non stupisce quindi che il comandante Schettino abbia voluto fare il primo della classe e arrivare dove mai nessuno aveva osato. Inoltre il ritardo nel chiamare i soccorsi è un’altra pratica ordinata dalla stessa compagnia che chiede a capitani e ufficiali di essere prudenti nell’allarmare le capitanerie di porto in caso di problemi, in quanto questo causerebbe costi eccessivi. Il ricorso alla capitaneria prevede infatti sempre e comunque un tempo di ispezione piuttosto lungo e costi finanziari elevati. In un periodo di crisi quindi anche le compagnie marittime risparmiano sulla sicurezza di passeggeri e equipaggio e sulla tutela del mare, incuranti di quali danni un atteggiamento del genere potrebbe comportare, dando poi tutta la responsabilità ad un capitano che sicuramente scellerato è ma che forse forse ha solo rispettato come troppa scrupolosità e fedeltà le raccomandazioni della sua compagnia di bandiera. In un periodo in cui le aziende chiedono sempre più a dipendenti e collaboratori di identificarsi con l’ideologia e la filosofia aziendale non dovrebbe stupire più di tanto il comportamento del capitano Schettino, ma ci si dovrebbe piuttosto interrogare sulle responsabilità di chi sta sopra di lui.

Il secondo aspetto, solo accennato dalla stampa di tutto il mondo, riguarda invece le condizioni di lavoro cui sono sottoposti la stragrande maggioranza dei dipendenti di queste grandi navi. Quanti degli oltre mille dipendenti a bordo avevano un regolare contratto di lavoro? Quanti stanno in mare e vivono in nave per mesi e mesi senza mai poter stare un giorno a due in famiglia? Quanti vengono da paesi lontani, magari con un percorso formativo accademico, e si ritrovano a fare i cuochi, i camerieri o i marinai su grandi navi da crociera in paesi di cui non conoscono nemmeno la linguae svolgendo una professione per la quale non sono proeparati? Come mai su questi lussuosissimi alberghi galleggianti ormai si può fare una vacanza a prezzi stracciati e pensare per una settimana di vivere in un sogno? Chi paga con salari da fame e condizioni di lavoro capestro questo sogno? (fino a quando questo poi si trasforma in un incubo come è avvenuto al Giglio). Sono tutte domande che per il momento non trovano risposta ma che meriterebbero di essere analizzate e studiate con attenzione. Ci ha provato Devi Sacchetto che, in un saggio di recente pubblicazione dal titolo “Fabbriche galleggianti, solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai”, descrive le condizioni di vita e di lavoro dei marinai delle navi mercantili. Chissà che quanto scritto non possa essere vero anche per i dipendenti della Costa, appartenente alla più grande multinazionale anglo-americana del turismo da crociera (la Carnival Corporation & plc) e, verosimilmente, dello sfruttamento sottocosto di una manodopera facilmente ricattabile.

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