È dallo scorso anno che gran parte dei principali commentatori tendono a minimizzare i problemi esplosi nei paesi emergenti, in particolare in Cina. Eppure dal crollo della Borsa di Shanghai della scorsa estate, precipitata nuovamente in questo inizio anno, non è più pensabile ignorare l’instabilità non di un’area ben delimitata, quanto dell’economia globale nel suo insieme.
Ciò che spesso viene sottolineato sono le differenze tra l’esplosione della crisi del 2008 (oggi esiste un sistema bancario globale più capitalizzato) e il carattere geograficamente circoscritto di questa nuova ondata destabilizzante, dati i livelli tutto sommato ancora modesti di scambi commerciali rispetto a quelli tra paesi sviluppati. Quest’ultimo aspetto, se non altro, riporta alle corrette proporzioni l’incidenza del ruolo cinese nei confronti dei paesi occidentali, in quanto spesso il rischio è di scivolare in una retorica secondo cui le produzioni, materiali e non solo, sarebbero state traslate completamente a Oriente, finendo per rimuovere l’esistenza di significativi e consistenti bastioni produttivi nei paesi di vecchia industrializzazione.
Ciò detto, resta stravagante la chiave di lettura tranquillizzante. Le ragioni del rallentamento cinese sarebbero principalmente di natura interna, dovute a un’azione di riequilibrio del modello teso a concentrarsi maggiormente sulla domanda interna anziché sulle esportazioni, il cosiddetto «atterraggio morbido». A ciò andrebbero aggiunte le difficoltà che inevitabilmente incontra un mercato finanziario ancora immaturo, costretto per giunta a misurarsi con un paese dagli elevati livelli intrinseci di opacità e inesperienza. Tutte verità parziali, che non contemplano innanzitutto il livello di indebitamento raggiunto dai paesi emergenti, in particolare dalla Cina, un indebitamento che ruota proprio attorno all’economia reale. Secondo il FMI dal 2004 al 2014 in questi paesi il debito societario (banche escluse) è passato da 4 mila a 18 mila miliardi di dollari, con un’incidenza sul PIL superiore al 70%. Dati che parlano di una frattura tra capacità produttive e consumi potenziali. Tale parabola coincide proprio con le politiche monetarie ultraespansive adottate dalla FED americana. Fitch stima che il debito complessivo in Cina, che equivale quasi unicamente a debito privato, sia giunto al 196% del PIL nell’autunno del 2015. Va considerato che gran parte di questo debito è denominato in dollari e non è assicurato nei confronti delle oscillazioni dei cambi. Significa che il recente avvio di una fase di aumento dei tassi Usa si trasforma in aumento del valore del dollaro e quindi appesantisce questi debiti. Quest’ultimo aspetto si traduce in maggiori crediti inesigibili per il sistema globale, basti considerare che dal 2007, secondo la Bri, le banche dei paesi OCSE hanno quadruplicato la loro esposizione sulla Cina e raddoppiato quella con i paesi asiatici. Lo spettro dei debiti insostenibili si dilata se si aggiunge il sistema bancario ombra, ampiamente coinvolto nel fornire credito ai paesi emergenti in questi anni di moneta facile.
Concludendo, il rallentamento cinese riguarda gli investimenti del mondo finanziario globale, dimostra come l’insostenibilità dei debiti abbia raggiunto rapidamente i paesi emergenti e come a catena si traduca in un contagio delle economie emergenti legate allo sviluppo della Cina, a partire dal Brasile. Se fino a poco tempo fa la via maestra della ripresa appariva l’export trainato dagli emergenti, oggi tale prospettiva appare seriamente compromessa. Nell’architettura dell’economia finanziarizzata costruita in questi decenni è ormai difficile separare in comparti stagni l’economia reale da quella puramente finanziaria, dove l’aumento della massa monetaria appare una droga da cui è difficile sottrarsi. Curioso ritenersi al riparo dalle nuove intemperie che oggi battono i mari d’Oriente.
*Autore di diverse opere tra le quali il fortunato “Capitalismo Tossico”. Collaboratore de il manifesto, da questo numero animerà su Solidarietà questa rubrica di commento dedicata alle questioni economiche internazionali.