La guerra è in Libia e l’Italia è in guerra. Gli interessi di Renzi, dell’Eni, le forze in campo, anche quelle inconfessabili nella quarta campagna italiana di Libia.
La quarta guerra italiana alla Libia è soprattutto un’operazione sottotraccia per via di uno degli effetti più evidenti delle trasformazioni che hanno investito la guerra globale in questa fase: la sua alienazione da qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. La stessa vicenda della disponibilità del governo a concedere il sorvolo, quando nei fatti già i droni Usa scorazzano sui nostri cieli (in ossequio al mandato dell’Onu perché ufficialmente richiesti dal governo fantoccio di Sarraj), svela l’estraneità delle pratiche della guerra da quelle della politica.
Renzi e i suoi ministri negano invece l’invio di forze a terra italiane in Libia: ma da mesi si rincorrono indiscrezioni su un discreto numero di militari italiani nel Paese con licenza di uccidere e immunità per eventuali reati commessi. E l’ultima legge di stabilità nascondeva 700 milioni di euro per la loro mercede.
Secondo alcuni giornali (dal Fatto a L43) addirittura sarebbe il numero maggiore di unità straniere che affollano l’ex Jamahiriya di Gheddafi, e l’attentato in Bangladesh del 2 luglio 2016 che ha ucciso nove italiani sarebbe una ritorsione per la loro presenza. Sarebbero di stanza a Misurata e lavorerebbero in team con gli inglesi nell’addestramento e nel supporto logistico alle milizie in trincea a Sirte, contro l’Isis, su mandato del governo di unità nazionale di Sarraj.
Ponti aerei dal distaccamento di Misurata porterebbero in Italia i feriti tra le fila dei governativi.
Per effetto di un decreto ministeriale (secretato) del 10 febbraio 2016 il personale militare italiano figura sotto il comando dei servizi segreti per l’estero (Aise), in coordinamento anche con le barbe finte già presenti in Libia, per portare a termine missioni speciali decise da Palazzo Chigi.
Trucchetto di Renzi (ereditato da altri premier galantuomini come lui) per sottrarre la guerra allo sguardo della politica, aggirare il voto del parlamento e non fare troppi pettegolezzi.
Tecnicamente non sarebbero truppe sul campo ma forze per la sicurezza e in sostegno agli 007 connazionali sul posto praticamente da sempre.
E’ da quando s’è avviato il processo di “pacificazione” nazionale, che la Libia è stata progressivamente teatro di infiltrazioni discrete, ma continue, di piccoli contingenti di forze speciali occidentali in supporto alle milizie locali.
Italiani, inglesi e americani lavorano a Misurata e per Sarraj, i francesi spingono la controparte del generale Khalifa Haftar, che non ha ancora accettato l’accordo dell’Onu. Haftar bombarda gli alleati di Misurata a Bengasi.
Anche turchi, Egitto ed Emirati arabi svolgono il proprio lavoro sporco in una sorta di guerra finora per procura.
Al Sisi, rimpinguato di armi da Putin e dai francesi, manovra il generale Khalifa Haftar e considera la Cirenaica una provincia egiziana. Il Qatar finanzia gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu, Leòn per appoggiare Tobruk, la Turchia ha rispedito i jihadisti libici dalla Siria a fare la guerra santa nella Sirte. Ma i libici hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta petrolifera senza elargire dover dipendere dagli stranieri.
L’Italia è il paese europeo più vicino alla Libia e con gli interessi in ballo più cospicui. Per questo molti osservatori mainstream da mesi tifano per l’impiego di forze speciali made in Italy. Il 21% del petrolio e circa il 10% del gas arrivano da quel territorio. La situazione che c’è ora in Libia è anche considerata tra le principali cause dell’aumento degli arrivi di profughi tramite il Mediterraneo centrale (più di 100mila nel 2014, il doppio del 2013).
L’Italia (che in primavera si diceva dovesse assumere il comando della missione in cambio di 5mila uomini da spedire sul suolo libico), in realtà si trova in una posizione particolare: ha infatti sotto controllo i suoi gasdotti e gli impianti di estrazione nel sud del Paese grazie a un fragile equilibrismo che ha permesso a Eni di avere rapporti con entrambi i governi e di finanziare, attraverso l’assunzione di migliaia di persone provenienti da diverse aeree, estrazioni tribali e milizie: dai berberi della costa alle guardie petrolifere di Jadran, dalle milizie di Zintan ai tuareg nel Sud. In sostanza, Eni si è garantita un salvacondotto per i suoi terminal e i suoi gasdotti ed oleodotti. L’impianto di Mellitah poi, è situato in un’area dove non vi è possibilità di attacchi in grande stile da parte di Daesh ma Fausto Piano e Salvatore Failla, i due ostaggi italiani uccisi in Libia dall’Is, lavoravano proprio in quel compound dell’Eni, per conto di un colosso con sede a Parma, la Bonatti, general contractor nel settore oil and gas con 6mila dipendenti in 14 paesi del mondo.
Dunque la vera posta in gioco della guerra è compresa tra le logiche geopolitiche (l’Italia preme sull’acceleratore per rincorrere francesi ed inglesi nella lotta per il controllo delle risorse petrolifere e naturali) e i cospicui interessi che ruotano intorno al Fondo Sovrano libico, il Lia, azionista in varie imprese italiane per un totale di 3 miliardi di dollari. E’ un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi.
La Banca centrale della Libia controlla il 4,99 per cento di Unicredit, una delle più grandi banche mondiali. L’ingresso della Libia in Unicredit costò il posto all’ad Profumo che si consolò con una buonuscita da 40 milioni di euro. Il fondo LAFICO (Libyan Foreign Investment Company) controlla quasi il 2% della FIAT. Poi c’è il 2,01% di Finmeccanica, l’1% dell’Eni e azioni di Mediobanca per 500 milioni di dollari. Infine LIA possiede il 26% della tessile Olcese mentre la Lybian Post Telecommunications Information Technology Company controlla il 14,798% di Retelit nel 2008 ha vinto il bando per l’assegnazione delle frequenze WiMax in dieci regioni d’Italia.
Ma la Lia è congelata dopo il tracollo del regime di Gheddafi nel 2011 e nessuno sembra aver preso sul serio il governo di concordia nazionale guidato da Fayez al- Serraj scaturito da un accordo internazionale sancito a dicembre. Così a Tobruk, nell’est, si è insediato il governo uscito delle elezioni 2014, riconosciuto dalla comunità internazionale. A ovest, a Tripoli, governa la coalizione islamista “Alba della Libia”. L’esercito libico è una milizia male armata agli ordini del generale Haftar, che ha appena perso parte del suo entourage per una faida interna.
In Cirenaica combattono le 20/30mila Guardie Petrolifere (Pfg) e preme l’Isis verso Est ma anche lo Shura Council of Mujahideen in Derna e lo Shura Council of Mujahideen di Bengasi. Daesh controlla due città almeno in parte: Derna, non troppo lontano da Tobruk, e Sirte, dove sono stati scalzati gli uomini di Alba della Libia. Sembra che per il Califfato ci siano soprattutto libici fuggiti dalla guerra in Siria, poche migliaia di miliziani, meno del contingente previsto di italiani (6mila unità) gonfiati, secondo osservatori come Lucio Caracciolo e la Tavola della Pace, da chi controlla il «mercato della paura» dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi.
La Libia ha sei milioni di abitanti e un territorio sei volte l’Italia. La maggior parte dei libici vive sulla costa, il resto del territorio è praticamente desertico. Le riserve di gas e petrolio sono soprattutto all’interno.
L’impegno bellico italiano è iniziato ben prima che il consiglio supremo di difesa, presieduto da Mattarella, abbia dato il via libera all’ipotesi degli Usa di affidare il comando all’Italia.
S’era già avuta notizia dello spostamento di quattro AMX in Sicilia, e del probabile uso degli assetti ora in forza all’operazione Euronavfor Med per operazioni lampo contro Daesh o in difesa delle installazioni petrolifere dell’Eni. Sigonella, in Sicilia, è già il capolinea dei droni Usa.
Se però la scelta della guerra da una parte appare lineare rispetto agli interessi d’impresa come il progetto di creazione di un “hub” di gas naturale made in Italy (in accordo con l’Egitto di Al Sisi, Tel Aviv e il nuovo governo libico), dall’altra sembrano meno logiche le scelte di schieramento di Roma accanto ad una delle due parti in contesa, delegittimando lo sforzo di cercare una mediazione tra Tripoli e Tobruk.
La guerra sta ridefinendo il suo carattere permanente ma la Libia sta per diventare un pantano come gli altri teatri della guerra globale. Perché è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio: il 38% del petrolio africano, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto emerso proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi occidentali sono divergenti fin da quando Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure fare uno squillo a Berlusconi. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivelò che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. Il disastro sociale seguito a quella guerra sarebbe costato ancora più del conflitto. E la ricolonizzazione della Libia non farà che inasprirlo.