È sempre bene non ridimensionare le novità per una propensione all’inerzia analitica. L’elezione di Trump oggi, come Brexit ieri, parlano di un profondo male che sta attraversando il sistema economico occidentale, una crisi di egemonia delle sue élite, una divaricazione crescente tra umori sociali e necessità tecnocratiche. Come se le principali ricette di politica economica degli ultimi decenni, divenute slogan e mito, ora svelassero il loro carattere regressivo a una crescente platea.
Non c’è solo il tanto discusso declino delle classi medie che sfocia in radicalismo antisistema tendenzialmente razzista, ma la perdita di ancoraggi politici e culturali per le classi subalterne e più povere. Le quali in misura crescente si allontanano in diverse direzioni dall’opzione social-liberista incarnata dalle sinistre mondiali. Ciò che va emergendo in maniera più netta è un’opzione a chiaro traino nazionale ben rappresentata dai Trump, dai Farage e dalle Le Pen di turno. Con la crisi globale, però, un certo ripiegamento della globalizzazione era già scattato con un aumento delle tensioni geopolitiche e, soprattutto, con uno stallo del commercio globale. Il Wto negli ultimi 2 anni ha registrato politiche commerciali tese al 70% verso provvedimenti protezionistici e al 30% verso un aumento del grado di liberalizzazione. Le nuove tendenze sono piuttosto articolate, dagli aiuti pubblici diretti a salvare imprese manifatturiere o finanziarie, fino al ritorno dei tradizionali dazi, come quelli recentemente approvati sull’acciaio cinese da Usa ed Europa (i primi con Obama li hanno addirittura alzati di oltre il 500%). Insomma segnali di deglobalizzazione erano in corso da prima che un’opzione nazional-populista finisse sotto i riflettori.
Ora tale opzione sta diventando di governo e molti incominciano a dare per certa la fine del mondo finora conosciuto, in poche parole viene annunciata la fine della globalizzazione. Ma siamo proprio a questo punto? A meno di pensare che la globalizzazione sia stata solo una serie ininterrotta di accordi commerciali sovranazionali la situazione appare più articolata. Eppure una logica binaria e un po’ schematica ci impedisce di comprendere come la realtà attuale sia costituita da diversi piani non sempre convergenti tra loro, ma che comunque concorrono a definirla. È vero che sono in corso guerre commerciali e persino diplomatiche come nei casi Usa-Volkswagen oppure Usa-Deutsche Bank, ma al contempo una multinazionale tedesca come la Bayern ne acquista una americana come la Monsanto. Contemporaneamente la solida e industriale Germania vende ai cinesi aziende specializzate in robotica, materiali elettrici e semiconduttori, componentistica per l’areonautica, per valori complessivi che l’agenzia Bloomberg stima pari a 11 miliardi solo per quest’anno.
Ora per uscire da quell’immenso processo che è stata la globalizzazione ci vuole un’alternativa politica, ed è proprio quella che manca. Certo Trump potrà rivendicare muri con il Messico, investimenti per importi pari a circa la metà del debito pubblico federale, la reindustrializzazione dell’America, il protezionismo, ma tutto questo, senza uno scarto complessivo, ricadrà nel medesimo quadro, per certi aspetti anzi potrebbe semplicemente rappresentarne un prolungamento in tempi di crisi. Esacerbare la competitività a marca Usa non potrà escludere il perdurante bisogno di merci a basso costo importate dagli emergenti, investimenti miliardari non potranno avvenire se non grazie al contributo di paesi che da decenni ormai finanziano il disavanzo americano. Contestualmente il dollaro non potrà apprezzarsi eccessivamente, rischiando di aggravare la situazione debitoria globale, dunque le politiche monetarie dovranno continuare a essere relativamente accomodanti. Il mercato continuerà a venire drogato da moneta facile, vuoi per investimenti diretti vuoi per sorreggere la grande bolla finanziaria che dopo un momento di panico nel 2008 è tornata sui consueti binari. Non sembra che il nazional-populismo abbia un progetto per uscire da questo groviglio di relazioni economico-finanziarie, tuttalpiù sembra intenzionato a modularlo in sedicesimi. Ricorda, seppur dall’estremo opposto, il tentativo di tante sinistre radicali giunte al governo di praticare la logica della riduzione del danno, cioè di stemperare quello che del sistema economico piace di meno. In questo caso minor globalizzazione, maggiore concorrenza, ulteriore aumento della moneta in circolo. L’economia di mercato, con tutta probabilità, si dimostrerà sufficientemente flessibile da poter assorbire anche questa variante.