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di Angelica Lepori, Simona Arigoni, Christian Marazzi, Ivan Cozzaglio, Françoise Gehring, Seo Arigoni, Mauro Beretta, Monica Soldini, Matteo Pronzini, Giuseppe Sergi, Gerry Beretta Piccoli, Bruna Bernasconi, Martino Colombo, Alessia Di Dio, Ambra Gregorio, Claudia Leu, Siro Petruzzella, Matteo Poretti, Eugenio Zippilli

Nel settembre del 2016 la popolazione ticinese è stata chiamata a votare su due iniziative. La prima, approvata, lanciata dall’UDC e denominata “Prima i nostri”; una seconda, lanciata dall’MPS, rifiutata per poco, denominata “Basta con il dumping salariale in Ticino”.

Pochi giorni prima del voto si tenne un dibattito televisivo e venne chiesto al presidente dell’UDC Marchesi di esprimersi sull’iniziativa dell’MPS. Marchesi rispose chiaro e tondo che l’UDC era contraria a quel tipo di proposte perché rappresentano un attacco alle libertà economiche.

Basterebbe ricordare questo episodio per capire che all’UDC non gliene frega assolutamente niente della lotta al dumping salariale e sociale; d’altronde lo ha dimostrato in molte occasioni in questi ultimi anni, schierandosi apertamente contro qualsiasi misura (a cominciare dall’introduzione di un salario minimo legale) che potesse seriamente combattere il dumping salariale e sociale.

Tornare “ai vecchi tempi”?

L’iniziativa dell’UDC “Per un’immigrazione moderata” chiede di tornare a gestire l’immigrazione come “ai vecchi tempi” quando, ci si ripete in continuazione, in Ticino e in Svizzera vivevano tutti felici e contenti. In realtà le cose non stavano proprio così.

Anche quando vi era un parziale controllo sulle condizioni di assunzione della manodopera estera e agivano meccanismi di limitazione come i contingenti (in realtà, ad esempio, per i frontalieri vi è sempre stata la libera circolazione) le cose non andavano molto meglio e bassi salari (non diversi da quelli che si pagano oggi) vi erano in molti settori: basti pensare a tutto il settore industriale (da quello dell’abbigliamento a quello calzaturiero, da quello della ristorazione a quello agricolo). Settori nei quali i salari erano e sono rimasti bassi. Basti pensare al settore orologiero cantonale: sempre, con e senza accordi bilaterali, i salari sono rimasti salari da fame!

Certo, venivano fissati dei salari minimi (che erano già allora salari con i quali nessuno poteva vivere in Ticino), ma solo per le professioni non qualificate…

Tutto questo, contrariamente a quanto pretende l’UDC, non aveva per nulla impedito una presenza massiccia di lavoratori frontalieri: ricorderemo qui una sola cifra che basta e avanza a dimostrare che quello che raccontano Chiesa e consorti sono stupidaggini: nel 1990 (cioè trent’anni fa) i frontalieri in Ticino erano più di 40’000. Oggi sono 65’000, ma se facciamo il confronto tra la popolazione attiva e la presenza di lavoratrici e lavoratori frontalieri il rapporto non è cambiato di molto…

Il dumping sociale e salariale avanza

Il primo punto che va ricordato è che la stipulazione degli accordi bilaterali non ha sancito, come alcuni pretendono, la cosiddetta libera circolazione delle persone, ma qualcosa di assai diverso: quella che potremmo chiamare la liberalizzazione totale del mercato del lavoro.

Questa ulteriore e totale libertà d’azione, ed è necessario riconoscerlo, ha permesso al padronato di peggiorare condizioni di lavoro e salariali di una parte importante delle salariate e dei salariati del paese in diversi settori professionali (in particolare in quelle del settore impiegatizio e commerciale, prive di protezioni collettive).

Proprio perché convinti di questa dinamica, ci siamo opposti fin dall’inizio agli accordi bilaterali. Lungi dall’introdurre un diritto alla libera circolazione, gli accordi bilaterali hanno introdotto quella che, come detto, fin dall’inizio abbiamo chiamato e considerato una liberalizzazione del mercato del lavoro. Per carità, non è che il mercato del lavoro in questo paese fosse granché regolamentato: ma vi era una serie di meccanismi di “controllo” del mercato del lavoro (contingenti, rispetto dei salari d’uso, etc.), introdotti non certo per difendere gli interessi dei salariati, ma soprattutto per regolare le condizioni di concorrenza tra i datori di lavoro.

Prova ne sia, ad esempio, che in alcuni settori nei quali la forza sindacale non era sufficiente per far rispettare ed applicare i contratti collettivi di lavoro, fu lo stesso Consiglio Federale a decretarne la obbligatorietà generale (come ad esempio nel settore principale della costruzione) proprio per regolare la concorrenza tra datori di lavoro. E questo molti anni prima che si cominciasse a parlare degli accordi bilaterali.

Le cosiddette misure di accompagnamento non hanno impedito lo sviluppo del dumping salariale e sociale per la semplice ragione che si trattava, ed era chiaro fin dall’inizio di misure inconsistenti. Tanto è vero che, ad ogni votazione relativa agli accordi bilaterali (abbiamo votato tre volte), le organizzazioni sindacali (colpevolmente sostenitrici di tutti gli accordi) hanno dovuto constatare che le misure di accompagnamento attuate in precedenza erano insufficienti e che ce ne volevano di nuove. Posizione che viene difesa ancora oggi, partendo da un sorprendente e surreale “bilancio positivo” degli accordi bilaterali che non corrisponde né alla situazione reale, né al sentimento che vive la maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori di questo paese. Basta leggere, per rendersene conto, questa recente dichiarazione dell’Unione sindacale svizzera: “L’entrata in vigore degli accordi bilaterali è stata l’occasione per progressi sostanziali favorevoli ai salariati e alle salariate. Grazie alle misure di accompagnamento, i salari e le condizioni di lavoro delle persone attive in Svizzera sono controllati in una proporzione senza precedenti dal punto di vista storico, nelle imprese svizzere così come in quelle straniere, con la partecipazione dei partners sociali”.

Più diritti per le lavoratrici e i lavoratori migranti: davvero?

L’iniziativa sembra suggerire l’idea che la Svizzera veda ormai un’invasione di migranti e che sia venuta meno qualsiasi forma di regolazione. I difensori della libera circolazione oppongono a questa visione un’altra altrettanto deformata, in particolare quella che afferma che è grazie agli accordi bilaterali che i migranti in Svizzera hanno fatto un grande passo avanti e, in particolare, sarebbe stato abolito il vergognoso statuto di stagionale.

In realtà lo statuto di stagionale è sparito perché, in particolare negli ultimi vent’anni, il lavoro si è, diciamo così, “stagionalizzato”. Le nuove forme di lavoro flessibile, parziale, su chiamata e a tempo determinato (il lavoro degli stagionali era proprio questo), precarie, etc. dominano ormai la nostra società e determinano gli statuti di tutti i lavoratori, a cominciare dai lavoratori migranti.

I quali non hanno visto poi di molto migliorare la loro condizione. Basti pensare alle vicende emerse proprio in questi giorni con la politica di applicazione delle leggi sugli stranieri attuata dal governo ticinese (e non solo da Gobbi) per rendersene conto. Non solo gli immigrati si vedono sottoposti a leggi spesso formulate in modo potestativo (non hanno diritto a qualcosa, ma possono avere diritto a qualcosa…), ma assistiamo ad un proliferare di statuti per migranti, ancora di più di quanto non lo fossero ai tempi dell’esistenza dello statuto di stagionale.

Dire che grazie ai bilaterali la condizione dei migranti in Svizzera sia migliorata non corrisponde per nulla alla realtà. La difesa dei diritti dei migranti in questo paese è ancora tutta da sviluppare.

Più diritti per le lavoratrici e i lavoratori, per una vera libera circolazione: per un controllo del mercato del lavoro!

Per difendere le condizioni salariali, di lavoro e di vita di tutti coloro che in Svizzera vivono del proprio lavoro non bastano misure di “accompagnamento” che, come detto, si sono dimostrate inefficaci. È necessario invece adottare altre misure che permettano di instaurare un controllo del mercato del lavoro (come propone l’iniziativa popolare “Rispetto per i diritti di chi lavora. Combattiamo il dumping salariale e sociale” depositata pochi mesi fa), l’introduzione di un salario minimo legale per tutte le categorie, l’estensione dei diritti per i lavoratori sui luoghi di lavoro, l’istituzione di veri ispettorati del lavoro (con uomini e mezzi sufficienti). Solo misure di questo tipo potranno permettere una lotta efficace contro il dumping salariale e sociale. E solo in un quadro di questo tipo la libera circolazione delle persone diventerà un diritto reale quale esso deve essere.

È tuttavia evidente che da parte dell’UDC vi è la contestazione del principio stesso della libera circolazione, del diritto di ogni lavoratrice e lavoratore a muoversi liberamente considerando questo fatto come un diritto in quanto tale (riconosciuto tra l’altro dalla Carta sociale europea). E il tentativo, sempre da parte dell’UDC di dividere i salariati, di scaricare sui migranti le responsabilità che invece spettano al padronato: vero e proprio protagonista e responsabile del dumping salariale e sociale. D’altronde non sorprende che, in Ticino come a livello svizzero, l’UDC e i suoi alleati siano i maggiori rappresentanti del padronato (a cominciare dallo stesso Blocher).

Per questo, come membri del comitato promotore dell’iniziativa popolare “Rispetto per i diritti di chi lavora. Combattiamo il dumping salariale e sociale”, invitiamo a votare con decisione NO all’iniziativa UDC il prossimo 27 settembre.