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Dopo mesi di genocidio a Gaza e un’accelerazione senza precedenti della colonizzazione della Cisgiordania, la pace e la giustizia per i palestinesi non sono mai sembrate così lontane. Eppure, questa situazione di ingiustizia è intollerabile: l’umanità non dovrebbe permettere un tale genocidio. Fermare il massacro e ricostruire Gaza devono essere ovviamente rivendicazioni immediate che hanno la precedenza su qualsiasi altra considerazione.

Tuttavia, vorremmo qui riflettere sulle possibilità di una soluzione duratura per la pace e la giustizia in Palestina e definire i termini di questo dibattito. Si tratta di proporre soluzioni per il post-genocidio in un contesto  nel quale il rapporto di forza e la pressione su Israele sarebbero ben diverse, con la speranza di non tornare alla situazione precedente (o ancor peggiore a quella precedente), ma di vedere quali sarebbero le opzioni teoriche e pratiche a partire dalle quali ipotizzare soluzioni, ovviamente viste da qui, ma anche sulla base di ciò che stanno discutendo le varie componenti della società civile palestinese, ed eventualmente israeliana.

Dopo 75 anni di occupazione della Palestina da parte di Israele, in un contesto di colonizzazione globale che ha preceduto la creazione di Israele, dopo 75 anni di regime militare e di apartheid, la questione del progetto nazionale palestinese è stata affrontata, elaborata e discussa a più riprese. E ovviamente questo progetto si è evoluto nel corso degli anni sulla base dei rapporti di forza locali ed internazionali tra colonizzatore e colonizzato. Non è infatti possibile trovare una soluzione duratura senza tenere conto dell’equilibrio di potere e delle pressioni interne ed esterne su Israele. Ma, come modificare questi rapporti di forza? E come possiamo garantire che le persone che li svilupperanno sul campo siano in grado di costruire una soluzione duratura basata sulla pace e la giustizia?

Vi è un’abitudine coloniale di elaborare piani di pace al di fuori delle società interessate: nel contesto delle discussioni sul “conflitto israelo-palestinese“, il dibattito classico si basa sull’alternativa “uno o due Stati”. Questa discussione è importante per costruire una posizione politica nel quadro della solidarietà internazionale, ma dobbiamo sempre ricordare che è essa è posta dall’esterno.

La cosiddetta soluzione “dei due Stati”

Per quanto riguarda il dibattito sulla soluzione dei due Stati, bisogna innanzitutto sottolineare che questa “soluzione” può essere intesa come un’estensione degli accordi di Oslo: firmati nel 1993, essi sono stati la base che ha permesso la cosiddetta creazione di uno Stato palestinese dopo la prima Intifada del 1987. Senza insistere troppo su questi accordi, e con lo sguardo retrospettivo di 30 anni, oggi sappiamo che non è mai stato possibile per i Palestinesi avere uno “vero”  Stato nel quadro di questi negoziati: lo Stato di Israele non ha mai voluto e nemmeno previsto la creazione di un effettivo e reale Stato palestinese. Per Israele, l’obiettivo a medio e breve termine era, in estrema sintesi, di giustificare la colonizzazione in Cisgiordania, un territorio occupato che Israele non vuole abbandonare. Gli accordi di Oslo permettevano di attuare un piano di gestione della Cisgiordania elaborato negli anni ’60 – il Piano Allon – il cui scopo era quello di isolare i palestinesi in enclave (all’epoca avrebbero dovuto essere amministrate dalla Giordania) attorno alle principali città (Nablus, Ramallah, Gerico) e di lasciare il resto della Cisgiordania sotto il controllo israeliano. In un certo senso, gli accordi di Oslo sono un adattamento di questo piano, in sostituzione della gestione da parte di un’autorità palestinese che dispone del “controllo” della sicurezza di queste città-enclave.

Negli ultimi trent’anni, l’attuazione di questo piano ha portato a un aumento dell’attività di insediamento, con quasi 800’000 coloni (compresa Gerusalemme Est) in vari tipi di insediamento. È la situazione risultante dagli accordi di Oslo che teoricamente costituisce la base di discussione quando si parla di “due Stati entro i confini del 1967”: uno Stato israeliano accanto a uno Stato palestinese che includerebbe la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est come capitale.

Ammesso che si riesca a costringere Israele ad accettarla, questa soluzione pone tutta una serie di problemi. Il primo è che il territorio palestinese, così come concepito da questi accordi, corrisponde al 22% del territorio della Palestina storica. È molto meno di quanto previsto dal piano di spartizione del 1947 per una popolazione dieci volte inferiore a quella attuale. L’OLP di Yasser Arafat aveva adottato questa strategia cercando di mettere “un piede nella porta”, cioè creare un piccolo Stato come punto di partenza per una soluzione futura leggermente più favorevole. Lo spazio vitale è quindi relativamente piccolo e, per di più, si sta riducendo. I confini del 1967 sono ormai un lontano ricordo: quasi due milioni di persone vivono oggi in Cisgiordania in aree fortemente limitate da muri e dalla frammentazione del territorio. Gaza ha lo stesso tipo di configurazione. Senza dimenticare che ci sono anche cinquecentomila palestinesi nei vari campi profughi dei Paesi vicini e quasi sei milioni nella diaspora. Parlare dei “confini del ’67” implica inevitabilmente che si debba discutere del destino degli insediamenti israeliani. La frammentazione del territorio palestinese, l’esistenza di muri di separazione, ecc. sono tutti problemi che devono essere affrontati. Ad esempio, parlare attualmente di due Stati sulla base degli accordi di Oslo significherebbe, in teoria, espellere gli 800’000 Ebrei dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est. Se tutti o parte degli insediamenti dovessero rimanere, non si tratterebbe più del 22% del territorio, ma di circa il 10%, cioè di un territorio minimo con la massima frammentazione. Rimarrebbero solo le grandi città circondate da muri, dove praticamente tutti i palestinesi sarebbero stipati insieme, senza possibilità di espandersi. La realtà è che quando si parla di due Stati, è proprio di questo che si parla. Le organizzazioni di sinistra e le classi dirigenti dei Paesi occidentali che propongono questa soluzione in genere non menzionano queste espulsioni. E per una buona ragione: si tratta piuttosto di una strategia per rimandare la creazione e l’esistenza di uno Stato palestinese a un ipotetico futuro che, data la crescente colonizzazione, sarà sempre più impossibile. In pratica, questa soluzione è disonesta e ipocrita: dobbiamo denunciarla.

Detto questo, se ascoltiamo la società palestinese, la soluzione dei due Stati è ampiamente accettata, come dimostrano i sondaggi condotti negli ultimi anni. La maggioranza dei palestinesi vuole uno Stato palestinese per porre fine alle atrocità e al controllo militare e per vivere in pace e sicurezza. È anche comprensibile che non vogliano vivere con i loro aguzzini, i coloni violenti e i militari. Dall’altra parte, una soluzione a due Stati permetterebbe di avere uno Stato ebraico. Per gli Israeliani, anche se preferirebbero semplicemente che i Palestinesi sparissero, il sostegno a due Stati separati si aggira intorno al 30% (escludendo il recente periodo di genocidio a Gaza) – a condizione, aggiunge il sondaggio, che sia garantita la sicurezza. Ma almeno per i Palestinesi, avere uno Stato porrebbe fine all’oppressione, all’apartheid e all’occupazione. Naturalmente, questo corrisponde anche alle principali richieste del nazionalismo arabo: una bandiera, uno Stato riconosciuto in grado di discutere con i “grandi” dell’ONU.

Allo stato attuale, per imporre questa soluzione occorrerebbe un rapporto di forza molto diverso, ma è una soluzione che si può ipotizzare, tenendo presente che saranno necessari negoziati molto forti sui territori, sugli insediamenti e sul loro smantellamento, nonché su Gerusalemme. Ciò implicherebbe spostamenti di popolazione, in particolare per gli Ebrei della Cisgiordania, eventualmente il recupero di altri territori altrove e la negoziazione del diritto al ritorno dei rifugiati. Ma non appena venissero creati due Stati e un confine, nascerebbe il rischio di pressioni per lo spostamento di popolazioni da una parte e dall’altra del confine e che lo Stato israeliano possa utilizzare questa creazione di uno Stato per espellere i Palestinesi del 1948 verso il “loro” Stato palestinese. In realtà, dovrebbe essere possibile vivere con una mescolanza di popolazioni, e quindi chiedere a un futuro Stato palestinese di integrare gli insediamenti israeliani e di convivere con essi. Gli insediamenti in Cisgiordania sono talmente dipendenti dallo Stato di Israele che sarebbe difficile. Inoltre, i coloni sono tra le persone che hanno commesso più abusi: sarebbe questa popolazione che uno Stato palestinese dovrebbe gestire. È quindi molto difficile vedere come uno Stato palestinese potrebbe includere questi coloni nel diritto civile palestinese, poiché lo status di colono non si sposa bene con la costituzione di uno Stato decolonizzato. La creazione di un vero e proprio Stato palestinese solleva quindi le questioni della sua fattibilità, della sua contiguità territoriale, di un effettivo diritto al ritorno e quindi anche dei negoziati sui territori e di un nuovo spostamento delle popolazioni, in particolare di quelle dei coloni che abitano negli insediamenti.

Soluzione a uno Stato

La soluzione di uno Stato unico è quindi un’alternativa da prendere in considerazione. Il vantaggio (o lo svantaggio) è che Israele è già de facto uno Stato unico. De facto, nel senso che Israele controlla tutti i territori palestinesi (cosa che non accadeva prima del 1967) e la vita di tutti i Palestinesi. È quindi già una “soluzione” esistente per i Palestinesi. Ma questa soluzione è praticabile solo se si tratta di uno Stato per tutti i suoi abitanti, e non solo per un gruppo etnico-razziale dominante. Parliamo quindi di uno Stato democratico con gli stessi diritti garantiti a tutti: una persona, un voto; elezioni, partiti, una Costituzione (Israele non ha una Costituzione) che ovviamente autorizzi e garantisca il diritto di praticare la propria religione in pace e che punisca severamente l’antisemitismo e il razzismo, e così via. Uno Stato con confini (Israele non ha confini). Uno Stato senza apartheid, senza diritti differenziati in base all’appartenenza etno-religiosa.

Una soluzione di questo tipo richiederebbe ovviamente che venisse affrontata la questione della condivisione del potere. Significa, di fatto, la fine della colonizzazione e dello status coloniale. Solleva anche la questione della condivisione delle risorse: terra e acqua, che sono proprio la base del progetto coloniale israeliano. Questo sembra così irraggiungibile per i Palestinesi (e allo stesso tempo assomiglia già alla loro vita quotidiana in un unico Stato) che c’è poco sostegno per questa soluzione.

Ciò implicherebbe che la fine dello status dominante degli ebrei diventerebbe più importante nella società israeliana. Diventare uno Stato mediorientale e non più un’estensione dell’Occidente è ovviamente qualcosa destinato a “deludere” migliaia, se non milioni, di persone che attualmente vivono in Israele. La “soluzione” a un solo Stato solleva anche la questione dei risarcimenti e della giustizia. Il Sudafrica ha risolto questo problema con un’ondata di amnistie e la creazione di una commissione “verità e riconciliazione” per i crimini commessi durante l’apartheid. Non ci sarà pace finché non sarà fatta giustizia anche per i Palestinesi.

Questa soluzione è quindi estremamente difficile da immaginare, ma è ciò di cui parlano i Palestinesi attraverso lo slogan “Palestina dal mare al Giordano“. Da parte ebraica, significa rinunciare a uno Stato ebraico con il rischio di essere una minoranza nel proprio Paese. Significa rinunciare al sionismo e a un focolare nazionale esclusivamente ebraico. Anche se è perfettamente possibile immaginare molte garanzie costituzionali per l’esistenza degli ebrei in questo Stato, e alcuni parlano di un diritto al ritorno per gli ebrei allo stesso modo di un diritto al ritorno per i palestinesi. Diverse generazioni di attivisti che sostengono la causa palestinese, così come alcune organizzazioni per i diritti umani, hanno difeso questa soluzione, anche se con sfumature diverse (1): uno Stato laico, uno Stato binazionale, ecc.

Tra le proposte di maggior successo – ma anche più di destra – c’è l’iniziativa “Una terra per tutti – due Stati, una patria ” (2), un tentativo di salvare capra e cavoli (in realtà una soluzione più favorevole agli Israeliani). Questa piattaforma propone una federazione: due Stati con i confini del 1967, ma con libertà di movimento, “una frontiera flessibile” e diritti condivisi, in particolare il diritto al ritorno. Questa soluzione “uno Stato e mezzo” è stata sviluppata principalmente da politici in esilio e ha trovato sostegno negli Stati Uniti. La piattaforma difende un orientamento estremamente liberale, con l’obiettivo di creare un polo economico di “prosperità” in Medio Oriente con, da parte israeliana, stretti legami con l’Occidente e, da parte palestinese, legami con la borghesia giordana e le monarchie del Golfo.

Andare oltre la questione degli Stati

La versione business-friendly dello slogan “una terra per tutti” dovrebbe permetterci d cominciare a riflettere su soluzioni politiche che vadano oltre la lotta di liberazione nazionale. Quest’ultima soluzione può contare su un debole sostegno; anche se, eventualmente, questo piano di pace incontrerebbe verosimilmente il sostegno dei democratici progressisti negli Stati Uniti, essa permetterebbe  di discutere sul seguito. In quanto marxisti decoloniali, e quindi anticapitalisti e antimperialisti, non possiamo accontentarci di limitare la lotta a quella di liberazione nazionale. Se guardiamo all’esempio del Sudafrica, la fine dell’apartheid è stata un’enorme vittoria politica: una vittoria sul razzismo e sull’imperialismo (e più o meno eravamo alla stessa epoca degli accordi di Oslo). Ma resta il fatto che la maggior parte della struttura razziale delle disuguaglianze e della condivisione del potere è stata mantenuta: c’è ancora razzismo, ci sono ancora popolazioni impoverite, e queste popolazioni impoverite sono in maggioranza nere. Il potere economico rimane essenzialmente concentrato nelle mani dei bianchi, anche se si è sviluppata una borghesia nera.

In generale, le lotte di liberazione nazionale – anche quelle di ispirazione marxista o comunista – si sono scontrate con il muro dell’imperialismo e non sono riuscite (quando questo era l’obiettivo dichiarato, cosa che non sempre è avvenuta) a conseguire l’emancipazione delle loro popolazioni. Le lotte di liberazione nazionale sono le brecce in questa dominazione imperiale che permettono di creare spazi per sviluppare alternative decoloniali e rivoluzionarie. La prospettiva postcoloniale in Palestina non deve quindi dipendere dalle monarchie del Golfo e dalle borghesie arabe vicine. Al contrario, deve trarre ispirazione, come ha già fatto, da movimenti come le rivoluzioni della Primavera araba del 2011. Tale dinamica potrebbe ispirare una configurazione completamente diversa in relazione all’Egitto, alla Siria, all’Iraq e anche oltre.

La creazione di una Palestina democratica, antimperialista e decoloniale eserciterebbe un’enorme pressione sui Paesi vicini come Egitto, Siria e Iraq. Ciò richiede una lotta politica che metta in discussione gran parte del sistema capitalista, e quindi il suo Stato. Essere contro lo Stato significa quindi trasformare la lotta contro l’apartheid, contro la colonizzazione, per la giustizia, contro il razzismo, in una lotta globale contro l’imperialismo. Questa lotta a sostegno del popolo palestinese, nel contesto della crisi del capitalismo e della fascistizzazione della società, pone la questione del potere al di là delle aspirazioni nazionali.

L’attuale lotta politica contro il fascismo, contro l’estrema destra nel mondo, contro il neoliberismo, e quindi contro il capitalismo, è la stessa che viene condotta in parte dai Palestinesi per un territorio, per la loro stessa esistenza, per la loro dignità, contro l’esercito, la polizia e il razzismo.

Israele è una colonia europea che riflette, come in uno specchio deformante, l’immagine di un progetto di società a dominio etno-razziale e fascista, come potrebbe accadere in Francia e in Europa. La lotta contro il razzismo e l’islamofobia, così come il sostegno alla lotta dei Palestinesi, permette di costruire ponti e creare crepe nell’edificio imperiale qui come laggiù.

Il ruolo dei rivoluzionari è quello di articolare la lotta particolare per un mondo giusto per i Palestinesi – per tutti i Palestinesi, non solo per una minoranza che prenderebbe le redini di uno Stato palestinese largamente inegualitario – con la nostra lotta generale per un mondo più giusto, senza genocidio, senza sfruttamento e oppressione, e quindi contro lo Stato borghese capitalista e fascisteggiante.

*articolo apparso sulla rivista L’Anticapitaliste n° 158 (luglio 2024)

1. Bernard Avishai e Sam Bahour, “Want Israeli-Plestinian Peace? Try Confederation“, The New York Times, 12/02/2021. Ghada Karmi, Israël-Palestine, la solution : un État, traduzione a cura di É. Hazan, ed. La Fabrique, 2022.

2. Si veda il sito web “A Land for All.Two States One Homeland“.