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Le recenti elezioni presidenziali iraniane sono state indette prima del previsto, dopo la morte del Presidente Ebrahim Raissi in un incidente in elicottero il 19 maggio.
La cricca della Guida Suprema Khamenei, la fazione dominante all’interno dell’attuale governo, sembrerebbe così aver  colto l’occasione per operare una svolta tattica: presentarsi come più accettabile agli occhi dei Paesi occidentali nella speranza di porre fine alle loro pesanti sanzioni.

La sceneggiata delle elezioni presidenziali in Iran si ripete ogni quattro anni, da oltre quarant’anni. Mi ricorda il film di Woody Allen“Prendi i soldi e scappa”. In questa commedia una rapina in banca viene sventata quando anche una seconda banda decide di rapinare la banca: i clienti votano esprimendo la preferenza che sia la seconda banda a rapinare la banca e a rubare i soldi.
Parlare di “elezioni presidenziali” in Iran non è una cosa semplice e non può limitarsi a un’enumerazione giornalistica degli eventi. In Iran, alcune parole non hanno lo stesso significato che altrove. Prima di analizzare le recenti elezioni, è fondamentale rispondere alle domande “chi”, “come” e “perché”. Per questo motivo, è essenziale un minimo di familiarità con la Costituzione della Repubblica Islamica e soprattutto con il ruolo e il potere del Presidente in questo sistema unico al mondo e il cui appellativo di “repubblica” è del tutto fuorviante.

Il paradosso strutturale del sistema politico

L’attuale Repubblica islamica dell’Iran è una delle dittature più repressive e brutali del mondo. A seguito della sua ascesa al potere dopo la rivoluzione del 1979, il regime capitalista-teocratico si è immediatamente impegnato a soffocare le giuste aspirazioni democratiche dei popoli dell’Iran. Per quanto riguarda i diritti più elementari, la situazione in Iran è certamente peggiore di quanto non lo sia stata nella sua storia recente.
Oggi in Iran ci sono molti più prigionieri politici, arresti ed esecuzioni arbitrarie e torture fisiche e psicologiche rispetto al passato. C’è molto meno rispetto per le libertà politiche e i diritti umani. La censura e la repressione delle libertà artistiche e intellettuali sono molto più evidenti che mai.
La classe lavoratrice è privata dei diritti più fondamentali, quali il diritto di associazione, la contrattazione collettiva e il diritto di sciopero. Le donne subiscono un’oppressione senza precedenti. Le leggi medievali e reazionarie del regime religioso le riducono ufficialmente al rango di cittadine di seconda classe. Sono sempre più spesso oggetto di atti di violenza e sono generalmente considerate, da chi detiene il potere, come la “principale fonte del male” sulla terra. I diritti delle minoranze nazionali e religiose sono continuamente attaccati. Il regime persegue una politica di occupazione militare delle regioni interessate e utilizza i metodi più brutali di repressione per schiacciare la loro resistenza.
Dal punto di vista sociologico, l’Iran è una delle società più istruite della regione, con un tasso di analfabetismo inferiore al 10% e più di 2,5 milioni di studenti che frequentano una formazione superiore (il 51% sono donne). Su una popolazione totale di circa 70 milioni di persone, oltre il 60% ha meno di 30 anni e oltre il 70% della popolazione è urbanizzata.
Il Paese è dominato da un sistema politico e giuridico dittatoriale e medievale. Per regolamentare la vita privata e pubblica dei cittadini, la Costituzione e le varie leggi sono regolate da una rigida interpretazione dell’Islam che non lascia spazio alla democrazia in generale e fa pochissime concessioni alle donne e ai giovani.
Dal punto di vista politico, si tratta di un sistema dicotomico unico che può essere riassunto con la formula: 90% teocrazia, 10% sceneggiata repubblicana [1].

Regime teocratico al 90%

I leader religiosi sciiti non sono eletti dalla popolazione, ma detengono comunque il potere reale in tutti gli ambiti. Essi costituiscono la spina dorsale della Repubblica islamica dell’Iran.

  • La Guida suprema (rappresentante di Dio in terra) è designata da un’assemblea di religiosi nota come Assemblea degli Esperti (vedi sotto). Ali Khamenei, successore dell’ayatollah Khomeiny, ricopre questa carica dal 1988 e regna in modo dispotico;
  • Il Consiglio dei Guardiani della Costituzione è composto da sei religiosi nominati dalla Guida Suprema e da sei membri nominati dal Parlamento islamico: è il cane da guardia del regime e vigila sulla conformità islamica delle leggi approvate dal Parlamento, nonché sulla lista dei candidati autorizzati a candidarsi al Parlamento e alla Presidenza della Repubblica;
  • l’Assemblea degli Esperti nomina la Guida Suprema; è composta da 86 religiosi, eletti per otto anni secondo una procedura complessa che lascia agli elettori e alle elettrici poca scelta. I candidati sono preventivamente vagliati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione;
  • Il Consiglio del Discernimento decide nelle controversie tra il Parlamento islamico e il Consiglio dei Guardiani della Costituzione; i suoi membri sono nominati dalla Guida Suprema;
  • Il sistema giudiziario, controllato da religiosi ultraconservatori, garantisce l’applicazione delle leggi islamiche. Il suo capo è nominato dalla Guida suprema, a cui riferisce personalmente;
  • Le forze armate raggruppano sia l’esercito regolare sia l’esercito ideologico del regime (il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica – CGRI, qui di seguito denominato con il termine di Pasdaran). I principali leader dell’esercito regolare e dei Pasdaran sono nominati dalla Guida suprema e rispondono solo a lui. La missione dei Pasdaran è di combattere chiunque si opponga alla rivoluzione islamica. Controllano le milizie paramilitari (Bassiji) che operano nelle diverse località.

Sceneggiata repubblicana al 10%

Ai primi ranghi dei responsabili eletti, ci sono il Presidente della Repubblica e i membri del Parlamento islamico (Majles). Tutte le leggi approvate dal Parlamento devono essere ritenute compatibili con la Costituzione, e soprattutto con l’Islam, dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione, molto conservatore. I membri del governo sono nominati dal Presidente. La Guida Suprema è ampiamente coinvolta nella gestione degli affari relativi alla difesa, alla sicurezza e alla politica estera. Di fatto, in questi settori, ha il monopolio del potere. Facciamo un esempio. Qualche anno fa, Bashar al-Assad, il dittatore della Siria, venne invitato dal regime. Fu ricevuto dalla Guida suprema e dal capo dei Pasdaran. Il Ministro degli Affari Esteri non era stato nemmeno informato e di conseguenza si dimise. È chiaro che questo sistema non assomiglia affatto a una Repubblica. Negli ultimi quarant’anni, tutti gli sforzi politici della cosiddetta fazione “moderata” o “riformista” del regime sono stati tesi a cercare di aumentare il peso degli aspetti “repubblicani”. Inutilmente.
Quello che il regime chiama “elezione presidenziale” non ha nulla a che vedere con quanto avviene nella maggior parte degli altri Paesi. È una vera e propria farsa che può portare solo all’elezione di un candidato precedentemente scelto dal governo al potere.
I rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario sono regolati dagli articoli 113 e 110 della Costituzione. Questi articoli stabiliscono in particolare che la volontà della Guida suprema è preminente rispetto a questi tre poteri.

Chi può candidarsi alla Presidenza della Repubblica?

Secondo la Costituzione, le donne (cioè metà della popolazione!) non hanno questo diritto. Lo stesso vale per tutte le persone che non sono sciiti. I candidati devono inoltre aver accettato il principio del potere assoluto della Guida suprema (velayat-e faqih) e impegnarsi a obbedirgli. I candidati che soddisfano tutti questi criteri vengono poi selezionati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione. Alla fine, solo le persone molto vicine alla Guida suprema possono essere candidate.
Dopo le elezioni presidenziali, è la Guida a nominare il nuovo presidente (articolo 110 della Costituzione). Ha anche il diritto di revocarlo. Sulle questioni importanti, la Guida suprema è responsabile delle azioni del capo dell’esecutivo (articolo 60 della Costituzione). Tra il 1997 e il 2005, un presidente “riformista” come Mohammad Khatami non poteva, ad esempio, avventurarsi  in ambiti che la Guida suprema considerava di sua competenza. Lo stesso valeva per la Costituzione e per tutte le istituzioni che esercitano il potere reale.
È significativo notare che nei 45 anni di esistenza della Repubblica islamica, solo un mandato ministeriale è stato conferito a una donna, in seguito a un voto di fiducia del Parlamento (si trattava del Ministero della Salute).

Qual è la funzione di un Presidente in Iran?

Le posizioni ricoperte in Iran dai funzionari eletti sono analoghe a quelle degli alti funzionari pubblici negli Stati Uniti o in Francia. In Iran, le decisioni più importanti sono prese da funzionari non eletti che costituiscono la spina dorsale permanente dello Stato. Coloro che attuano le decisioni, invece, sono eletti. Khatami, il più riformista degli ex presidenti, una volta ha descritto la sua posizione come “il cameriere della Guida Suprema“. I funzionari eletti possono comunque causare grattacapi ai decisori politici per incompetenza o ambizione. I presidenti possono tuttavia usare il loro potere per promuovere un determinato obiettivo. Nel caso di Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013), tale obiettivo era il suo potere personale; situazione che per la Guida Khamenei non deve ripetersi.
La chiave per risolvere la crisi economica iraniana è la revoca delle sanzioni imposte dalle principali potenze occidentali. Khamenei ha anche bisogno di economisti per dirigere la politica economica dello Stato. La repressione è l’unico settore in cui la Guida Suprema ha una reale competenza. Quando si parla di economia, la sua principale preoccupazione è quella di garantire la distribuzione della ricchezza tra gli organismi più importanti del regime, in particolare i Pasdaran e le “Fondazioni”, che dispongono di notevoli risorse. Per il resto, si affida all’apparato statale.
Il leader Khamenei ha più che mai bisogno di un Presidente per il quale l’economia sia una delle sue principali priorità. Questo non era il caso del defunto Presidente Raissi.

L’elezione del 2024 è diversa da quelle precedenti

Dalle riforme costituzionali del 1988, che hanno abolito la carica di primo ministro e rafforzato il potere presidenziale, è la prima volta che la Repubblica islamica organizza delle elezioni prima del previsto.
Le elezioni in Iran sono caratterizzate da una forma di alternanza ogni otto anni tra le due principali tendenze del regime. Una viene definita “conservatrice”, l’altra “riformista” o “pragmatica”. Nel gergo popolare iraniano si chiamano chol kon, séft kon (allentare, stringere).
Durante gli otto anni in cui un “conservatore” è  al potere, l’oppressione in Iran aumenta, così come l’ostilità verso i Paesi occidentali, con l’obiettivo di compattare la base conservatrice del regime.
Durante gli otto anni successivi di presidenza “riformista”, vengono accordate alcune libertà marginali, che di solito fanno sperare in una riforma al contagocce del regime. Allo stesso tempo, viene sviluppata l’idea che un allentamento retorico della politica estera potrebbe alleggerire la pressione estera e le sanzioni. Fino a poco tempo fa, questa politica “riformista” permetteva di recuperare il capitale politico che il regime aveva perso, sia all’interno che all’estero, durante i precedenti otto anni di amministrazione “conservatrice”.
Questa oscillazione del pendolo è stata la norma da quando l’Ayatollah Ali Khamenei è diventato Guida Suprema nel 1989. Alla presidenza del “conservatore” Ali Akbar Hashemi Rafsanjani (1989-1997) è seguita quella del “riformista” Mohammad Khatami (1997-2005). Poi è stata la volta del “conservatore” Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013), quindi del “pragmatico” Hassan Rohani (2013-2021), seguito dal “conservatore” Ebrahim Raissi (2021-2024).
A fare da sfondo a questo gioco di altalene c’è un clan interno al regime, noto come “Principalisti”, che ritiene che il Parlamento e la Presidenza siano inutili e disturbanti. Questa fazione vuole scioglierli e sostituirli con un Consiglio i cui membri sarebbero nominati dalla Guida suprema, a sua volta scelta da Dio. I “Principalisti” parlano apertamente di un governo islamico privo di qualsiasi elemento di repubblicanesimo. La nazione con cui i “Principalisti” si identificano è l’Ouma. Questa è contemporaneamente umana (i fedeli), politica (la nazione islamica) e spirituale (la comunità dei musulmani). La Guida suprema di un governo islamico non trae la sua legittimità dal popolo, ma da Dio. Un testo fondante dei Principalisti afferma: “Il criterio per la validità della Costituzione e delle decisioni degli Esperti è il consenso della Guida Suprema. Nessun altro può disporre della scelta del popolo. Non abbiamo una repubblica accanto all’Islam; sarebbe una forma di politeismo”. La morte improvvisa del Presidente Raissi, avvenuta quasi tre anni dopo il suo insediamento, ha disorganizzato questo clan “principalista”.
Il regime ha sentito meno la necessità di giocare questa altalena tra “conservatori” e “riformisti”. Sul piano interno, i “riformisti” non riescono più a raccogliere il consenso della popolazione. Sulla scena internazionale, è noto che la Presidenza non è un organo decisionale. Inoltre, le amministrazioni democratiche statunitensi di solito lasciano alla Repubblica islamica un certo margine di manovra, anche se al potere c’è un “conservatore”. Si noti che i negoziati sul nucleare sono iniziati sotto Barack Obama (un “democratico”) e Ahmadinejad (un “conservatore”) nel marzo 2013. Donald Trump, invece, ha aumentato la pressione sull’Iran anche se il Paese è governato da un “moderato” (Rohani).

L’handicap delle personalità note

Un’altra caratteristica del regime è che le personalità note non ottengono mai la carica presidenziale.
L’ultimo presidente che prima di diventare presidente era molto conosciuto all’interno e all’esterno dell’Iran è stato Rafsanjani, al potere tra il 1989 e il 1997. Era un compagno di Khomeini, il fondatore del regime. Rafsanjani era stato comandante in capo delle forze armate durante la guerra Iran-Iraq (1980-1988).
Khatami, Ahmadinejad, Rohani e Raissi, invece, sono diventati famosi solo dopo la candidatura alla presidenza.
Poiché il numero di mandati presidenziali consecutivi è limitato a due, Rafsanjani ha successivamente fatto altri due tentativi di ridiventare presidente, ma entrambi sono falliti: ha perso le elezioni nel 2005, probabilmente a causa di brogli elettorali organizzati dalle autorità, ed è stato poi squalificato durante la sua campagna del 2013.
Il “riformista” Mir Hossein Moussavi, ex primo ministro negli anni ’80, non è stato eletto nel 2009, sempre a causa di brogli organizzati dalle autorità. Ciò ha scatenato le proteste post-elettorali note come “Movimento Verde”.
Khamenei teme che figure note, che conoscono il funzionamento del sistema, possano indebolire la struttura del regime, mettendolo in discussione. Per questo motivo ha preferito figure sconosciute e poco carismatiche, soprattutto quando si tratta di “riformisti”. L’ultimo esempio è Massoud Pezeshkian, eletto presidente il 6 luglio, che in precedenza era sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione.

Il fallimento del presidente Raissi

Le sue politiche, che hanno portato a una sanguinosa repressione del movimento “Donne, vita e libertà”, non hanno raggiunto pienamente i suoi obiettivi. Lo stallo delle politiche repressive sul velo e la continua resistenza delle donne sono chiari esempi del relativo fallimento del regime in questo campo. Se a questo si aggiunge la spaventosa situazione economica del Paese, si può parlare di un fallimento totale.
Nessuno si fa illusioni sulla reale situazione economica del Paese, con un’inflazione dilagante e salari ben al di sotto della soglia di povertà definita dallo stesso governo. La crisi immobiliare è diventata esplosiva, con prezzi degli immobili astronomici e affitti sempre più cari. L’alloggio è diventato sempre più un obiettivo irraggiungibile per la maggior parte dei lavoratori e dei pensionati. Il mancato pagamento delle pensioni, la disoccupazione, soprattutto tra i giovani e le persone con una formazione, la diffusione della droga e dei suicidi tra i giovani, ecc. sono i risultati disastrosi dei successivi governi “riformisti” e “fondamentalisti”.
A ciò si aggiunge l’impasse del regime sulla revoca e la riduzione delle sanzioni e il baratro finanziario della sua politica mediorientale. Inoltre, tutti i clan del regime temono il possibile arrivo al potere di Trump e l’era post-Khamenei.

Un’opposizione diffusa

Molti uomini e donne iraniani, in particolare lavoratori, donne e giovani, sono riusciti a liberarsi dal gioco delle parti (l’altalena) tra “conservatori” e “riformisti”. Hanno fatto tesoro di una lunga esperienza di tentativi ed errori, in particolare durante la rivolta del 2018 [1]. Lo slogan “Riformisti, Principalisti, il gioco è finito” è stato un punto di svolta che va registrato come un grande successo nel percorso del movimento rivoluzionario iraniano. Il movimento di protesta del 2019 e poi il movimento “Donne, libertà di vita” [2] del 2022 lo hanno confermato.
Il potere non è in grado di attuare riforme in grado di migliorare le condizioni di vita della popolazione. Allo stesso tempo, vede qualsiasi arretramento di fronte alle rivendicazioni popolari come pericoloso per la sopravvivenza del regime.


Molti vogliono farla finita con questo regime corrotto che, durante i suoi 45 anni di regno, ha portato più del 70% della popolazione iraniana sotto la soglia di povertà. Il suo “record” è quello della privazione della libertà e dei diritti umani fondamentali, della tortura, del terrore e della morte.

Appelli al boicottaggio

La base sociale del regime si è notevolmente ridotta. Un numero crescente di persone non solo boicotta le elezioni, ma condanna anche la partecipazione a questo ridicolo spettacolo.
L’affluenza finale al primo turno delle elezioni presidenziali di giugno è stata del 39,92%, la più bassa dalla fondazione della Repubblica islamica. Si tratta di un dato ben lontano dall’80% di affluenza alle elezioni presidenziali della fine del XX° secolo. Le figure dell’opposizione al regime, i sindacati come il Vahed [dipendenti della compagnia di autobus di Teheran e della periferia] e il settore dell’insegnamento, i prigionieri politici e i membri della diaspora avevano invitato a boicottare il voto, ritenendo che il campo conservatore e quello riformista rappresentassero due facce della stessa medaglia.
“È completamente sbagliato pensare che chi non ha votato al primo turno sia contro il sistema“, ha dichiarato la Guida Suprema Khamenei, nonostante alla vigilia del primo turno avesse invitato gli elettori a presentarsi in massa.
Oggi il regime ritiene che il suo successo nell’indire queste cosiddette elezioni stia nel fatto di essere riuscito a organizzarle senza incidenti o conseguenze impreviste. A seguito dell’appello al boicottaggio, il regime non si è ritrovato a dover affrontare un movimento paragonabile a quello del 2009 fondato sullo slogan “Dov’è finito il mio voto?”.
Per salvare la faccia, il regime può sempre allestire un minimo di spettacolo facendo appello ai Pasdaran, alle milizie Basij, all’esercito, ai dipendenti pubblici e alle famiglie di questi vari organismi.

Un cambiamento nella tattica del regime

Il regime si è reso conto di non poter più governare con i soliti metodi di imbroglio e repressione. Il fallimento dell’ultraconservatore Raissi ha spinto lo zoccolo duro del regime a voler apportare degli aggiustamenti volti a dargli un po’ di respiro di fronte a un movimento di massa che non si placa, date le condizioni citate.
È chiaro che per la Guida Suprema Khamenei, le elezioni presidenziali anticipate dopo la morte di Raissi hanno offerto un’opportunità insperata di cambiare la linea della politica estera. Khamenei ha colto questa opportunità senza esitare.

Il primo turno del voto (28 giugno)

Venerdì 28 giugno, 61 milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente. Sei candidati su 86 sono stati ammessi al voto.
Masoud Pezeshkian, l’unico candidato “riformista” autorizzato a candidarsi, è arrivato in testa con il 42,5% dei voti, contro il 38,6% del suo principale rivale, l’ultraconservatore Saïd Jalili.
Saïd Jalili è soprannominato il “martire vivente” perché è stato ferito all’età di 21 anni durante la guerra Iran-Iraq. Negoziatore sulla questione nucleare tra il 2007 e il 2013, si è opposto fermamente all’accordo raggiunto nel 2015 [Accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano – JCPOA – Joint Comprehensive Plan of Action] tra l’Iran e le potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti. Questo accordo ha imposto restrizioni all’attività nucleare iraniana in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. I negoziati sul nucleare sono attualmente in una fase di stallo dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti nel 2018, che hanno rilanciato severe sanzioni economiche a Teheran.
Jalili si era già candidato senza successo alle elezioni presidenziali del 2013 e del 2021. Nel 2021 si era ritirato dalla corsa all’ultimo minuto a favore dell’ex presidente Ebrahim Raissi. Questa volta, appena presentata la candidatura, Jalili si è impegnato a preservare l’eredità del presidente Raissi. Sostenuto dal “Fronte per la stabilità della rivoluzione islamica“, la fazione più a destra dello spettro politico, Saïd Jalili ha presentato durante la campagna elettorale tutti i fondamenti ideologici del suo schieramento: ultraconservatorismo sociale, isolazionismo economico e una chiara sfiducia nell’Occidente.
Massoud Pezeshkian, un chirurgo e ministro della Sanità sotto il presidente riformista Khatami (1997-2005) era in precedenza sconosciuto al grande pubblico. Si definisce come un “riformatore”. In particolare, vuole far uscire l’Iran dall’isolamento e ha dichiarato di voler porre fine alla “polizia morale“. Il principale sostenitore pubblico di Pezeshkian è stato l’ex presidente “riformista” Khatami.
D’altronde, Massoud Pezeshkian, un riformista poco ambizioso e obbediente, ha ripetutamente espresso la sua incrollabile fedeltà alla Guida Suprema, assumendo il ruolo di garante dei buoni uffici. In passato, Pezeshkian si era dimostrato un seguace del successore di Khomeiny e della “linea dell’Imam“, reprimendo studenti e studentesse e partecipando a una sanguinosa cosiddetta “rivoluzione culturale” per islamizzare le università.
Con una maggioranza “conservatrice” in Parlamento e il controllo del sistema giudiziario, il clan di Khamenei non ha nulla da temere da questo candidato “riformista”.

Tra i due round

Durante i dibattiti, i due candidati si sono ritrovati d’accordo sulla stessa priorità: la ripresa economica del Paese. Durante i quattro anni di mandato di Raissi, l’inflazione si aggirata annualmente attorno al 40%, mentre la disoccupazione ha continuato a crescere in un contesto di corruzione endemica. “Viviamo in una società in cui molte persone chiedono l’elemosina per strada”, ha dichiarato Pezeshkian. A suo avviso, il modo più rapido per rimediare a questa situazione è di agire “immediatamente” per ottenere la revoca delle sanzioni statunitensi e “riparare l’economia”.
Le sanzioni sono state ulteriormente inasprite dopo la guerra a Gaza e il sostegno dell’Iran al movimento palestinese Hamas. Pezeshkian punta quindi sulla negoziazione di un nuovo accordo. “Storicamente, nessun governo è stato in grado di ottenere risultati rimanendo chiuso in una gabbia”.

L’elezione di Pezeshkian (6 luglio)

Al secondo turno, gli elettori si sono trovati confrontati a una scelta imposta: un “ultraconservatore”, un integralista tra gli integralisti della teocrazia, ostile a qualsiasi concessione ai Paesi occidentali, contro un “riformista”, favorevole a legami più stretti con gli Stati Uniti. Sarebbe stato difficile trovare due candidati più antagonisti.
Il principale sostenitore di Pezeshkian, l’ex presidente Khatami, ha invitato gli elettori a recarsi alle urne per “evitare che la situazione in Iran peggiori”.
Sebbene non abbia dichiarato pubblicamente il suo sostegno a Pezeshkian, il leader Khamenei ha lasciato intendere, attraverso le sue marionette, di essere favorevole all’elezione di Pezeshkian.
Massoud Pezeshkian ha vinto con il 53,6% (16 milioni di voti) a scapito del suo rivale, Saïd Jalili, che ha ricevuto il 44,3% (13 milioni di voti).
Alla fine, però, meno del 27% degli iscritti ha votato per Pezeshian. Si tratta della percentuale più bassa di voti nelle 14 elezioni presidenziali tenutesi dalla rivoluzione del febbraio 1979. Il precedente record per la percentuale più bassa apparteneva a Ebrahim Raissi, che fu eletto da poco più del 30% dell’elettorato. Tuttavia, questi dati devono essere trattati con cautela, poiché sono quelli pubblicati dal regime.
Il giorno successivo alla sua elezione, Pezeshkian ha nominato l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, che ha reputazione di essere filo-occidentale, come suo consigliere diplomatico. Zarif è stato uno degli artefici dell’accordo nucleare firmato nel 2015 con Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Russia e Cina. Con questa nomina, ha inviato un segnale ai governi occidentali. Sebbene le politiche strategiche, comprese quelle relative alla questione nucleare, siano definite dalla Guida Suprema, le tattiche e il modo in cui vengono attuate dipendono dalle capacità e dalla volontà della squadra di governo. Sotto la presidenza Raissi, conduceva le operazioni una squadra incompetente, che non capiva nulla di diplomazia e negoziati. Non ha ottenuto alcun risultato.
Il 18 luglio, due settimane dopo la fine delle elezioni, Tassnim, il giornale ufficiale dei Pasdaran, ha pubblicato la seguente conversazione non scritta tra Farid Zakaria – direttore della rivista statunitense Foreign Affairs, parte del Council on Foreign Relations – e Bagheri Kani – vice di Saeed Jalili nel Consiglio supremo di sicurezza nazionale, vice ministro degli Esteri sotto Raissi, capo del team negoziale della Repubblica islamica e ministro degli Esteri ad interim dopo l’incidente dell’elicottero:
Farid Zakaria:“Ho notato che lei ha menzionato la possibilità di negoziati nucleari e persino di andare verso un nuovo accordo nucleare o di tornare all’accordo precedente”
Bagheri Kani: “Abbiamo un accordo concluso nel 2015. Questo accordo è stato finalizzato con l’accordo dell’Iran e dei P5+1. Siamo ancora membri del JCPOA. L’America si è ritirata da questo accordo e lo ha danneggiato. L’America non è ancora riuscita a rientrare nel JCPOA. Pertanto, l’obiettivo che stiamo perseguendo è il rilancio dell’accordo del 2015 (JCPOA)”.

E ora?

Per far uscire l’Iran dalle sue molteplici crisi è necessario secolarizzare e democratizzare l’intero sistema statale: tutte le istituzioni esecutive, giudiziarie e legislative, nonché le leggi e i regolamenti. Questa strada può essere aperta solo rovesciando la Repubblica islamica.
Fin dalla sua nascita, la borghesia iraniana, di qualsiasi orientamento, è stata legata alla religione e al potere del clero da molti legami visibili e invisibili, diretti e indiretti.
Alcune fazioni, come i monarchici, i mujahedin del popolo (PMOI) e i partiti nazional-religiosi, difendono apertamente questa dipendenza. Le fazioni liberali dell’opposizione non hanno il radicalismo necessario per superare questo ostacolo.


Solo una rivoluzione popolare di massa, basata sulla maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, potrà realizzare una laicità completa e democratica.
Le contraddizioni politiche della società iraniana non si limitano ai conflitti tra le fazioni al potere. Esse riflettono i conflitti di interesse tra gli sfruttatori e gli sfruttati in merito a
– la condivisione dei frutti dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici,
– il controllo delle risorse e le modalità di “gestione della società”,
– il modo di “interagire” con le potenze straniere per ottenere una parte del potere regionale.
Queste lotte all’interno dei diversi settori del capitalismo e il loro riflesso nelle lotte politiche indeboliscono in qualche misura il regime. Possono aprire opportunità per l’espansione delle lotte delle masse lavoratrici. Ma gli sfruttati e gli oppressi devono agire in modo indipendente sulla base dei propri obiettivi, della propria strategia, della propria tattica e soprattutto delle proprie organizzazioni. Solo così saranno in grado di sfruttare adeguatamente le opportunità create dai conflitti interni tra le fazioni al potere. L’alternativa all’attuale regime di ladri e assassini può essere solo socialista.
La parola d’ordine di un “boicottaggio attivo” questa volta è riuscito a tenere la maggioranza delle masse lontane dalle urne. Nonostante i trucchi e le frodi del regime e la propaganda dei “riformisti”, si tratta di un relativo successo per l’opposizione rivoluzionaria in Iran. (Luglio 2024)

*articolo apparso il 29 luglio 2024 sul sito www.alencontre.org. La traduzione in italiano è stata curata dal segretariato MPS.