La crisi che il Venezuela sta attraversando in queste settimane, dopo il contrastato risultato delle elezioni presidenziali del 28 luglio, costituisce un’ennesima occasione di divisione nella sinistra non solo italiana, ma a livello mondiale. E la divisione che si registra non è quella tradizionale che ha segnato la vita ultrasecolare della sinistra, tra radicali e moderati, tra massimalisti e gradualisti, tra riformisti e rivoluzionari, divisi sui metodi, sui tempi, sulle strategie, ma sostanzialmente accomunati dall’obiettivo del progresso sociale e della trasformazione politica. No, la divisione di questi tempi colloca le diverse forze della sinistra su barricate opposte, a volte persino militarmente contrapposte, come già fu al tempo della rivolta del popolo siriano nel 2011, tra chi sosteneva il regime di Bashar Al-Assad e chi le rivendicazioni democratiche delle popolazioni, come è stato platealmente nell’ormai incancrenito conflitto russo-ucraino, tra chi appoggia le ragioni dell’invasione russa (la “denazificazione”, la “difesa armata” delle rivendicazioni delle popolazioni russofone, l’impedire l’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente) e chi considera legittima la resistenza popolare e militare del paese aggredito. E com’è in queste settimane, appunto, tra chi vuole dichiarare il proprio schieramento a sostegno del regime di Nicolàs Maduro e chi ritiene più che fondate le denunce dello stravolgimento di quel risultato elettorale e della repressione dei giorni successivi.
Le presidenziali del 28 luglio
Le vicende venezuelane in qualche modo possono essere riassunte così. Lo scorso 28 luglio l’elettorato venezuelano è stato chiamato all’appuntamento elettorale quinquennale delle presidenziali. Il paese conta 28,5 milioni di abitanti residenti, più 7,7 milioni di emigrati (dati ONU), soprattutto economici, e le liste elettorali contano 21,2 milioni di iscritti, ma si stima che almeno 5 milioni di questi non voteranno, perché non hanno potuto registrarsi come elettori nei paesi esteri dove vivono. Grazie a plateali impedimenti burocratici sono riusciti a registrarsi solo 69.211 elettori residenti all’estero (su oltre 5 milioni di teorici aventi diritto).
Sono stati presentati dieci candidati presidente, ma era a tutti chiaro che la partita si sarebbe giocata tra il presidente in carica e il candidato dell’opposizione di destra Edmundo González Urrutia, ingegnere di 75 anni, appartenente a una delle famiglie venezuelane più ricche e esponente del gruppo liberale Vente Venezuela, il principale partito dell’opposizione di centrodestra, attorno al quale si era raccolta una coalizione, la Mesa de la Unidad Democrática (MUD, il Tavolo dell’Unità democratica). Questa formazione, dopo numerose traversie e mancate registrazioni della sigla da parte del Consiglio nazionale elettorale (CNE) con i più disparati pretesti, era finalmente riuscita a presentarsi, indicando come candidata alla presidenza quella che ne è realmente la più popolare figura di punta, María Corina Machado, fondatrice e leader del partito Vente Venezuela e scelta nelle primarie dell’opposizione con oltre il 92% dei consensi (oltre 2 milioni e 250 mila voti).
Ma María Corina, che era stata eletta deputata con un massimo storico di voti nel 2011, era stata successivamente privata, per presunte omissioni di dichiarazioni patrimoniali, della sua carica con un decreto adottato nel 2015 dal presidente del parlamento, Diosdado Cabello, il numero due del regime di Maduro. Il provvedimento, oltre ad annullare la sua elezione all’Assemblea nazionale, l’aveva anche privata per 15 anni (dunque fino al 2030) della possibilità di esercitare funzioni pubbliche. Quindi il CNE, richiamandosi a quella interdizione e inoltre rammentando che la politica si era compromessa nel 2019 appoggiando l’autoproclamazione a presidente di Juan Guaidó, annullò immediatamente la sua candidatura, facendo la stessa cosa, con motivazioni analoghe, anche con la sua vice, Corina Yoris. Così la variegata opposizione fu costretta a ripiegare sulla candidatura, molto più scolorita, di Edmundo González.
María Corina Machado, comunque, mantenne un ruolo centrale nella campagna preelettorale e elettorale, utilizzando la straordinaria popolarità conquistata grazie ad un capillare tour nel paese, realizzato in auto, (visto che il governo aveva “consigliato” la compagnia aerea nazionale di non venderle biglietti), raccogliendo folle che la acclamavano al suo passaggio in quartieri popolari di città e angoli di provincia precedentemente tradizionali roccaforti chaviste. Del successo di questa campagna danno conto anche giornali di altri paesi latinoamericani non certo ostili al regime venezuelano.
Maduro, il presidente uscente in cerca di una riconferma, sostenuto dal Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), creato dal carismatico ma defunto ex presidente Hugo Chávez (1999-2013), e da una dozzina di gruppi minori alleati, ha affidato gran parte della sua campagna a due leader piuttosto bellicosi, il capitano in pensione Diosdado Cabello, di fatto il numero due del PSUV, e lo psichiatra Jorge Rodríguez, attuale presidente dell’Assemblea Nazionale.
Dalla campagna è emerso comunque un diffuso desiderio di cambiamento, tanto che nove dei dieci sondaggisti venezuelani più noti davano il candidato dell’opposizione come vincitore, con una previsione oscillante tra il 55 e il 70% e solo uno ipotizzava la vittoria di Nicolás Maduro peraltro di strettissima misura. Uno scenario che ha spinto i commentatori e i politologi a interrogarsi sul futuro di un “chavismo di opposizione”, un movimento formatosi sostanzialmente già al potere, dopo l’elezione nel 1998 di Hugo Chávez e abituato a gestire tutto il potere, avendo nelle proprie mani il parlamento, la Corte suprema, la Procura generale e la maggior parte delle cariche di governatori e sindaci, ed essendo sostenuto in modo compatto anche dall’alto comando delle Forze Armate Nazionali Bolivariane.
È in questo scenario, dunque, che domenica 28 luglio le venezuelane e i venezuelani sono andati a votare, in una giornata che, al contrario anche di recenti analoghe scadenze elettorali, si è svolta nel massimo della compostezza. Gli inviati della stampa internazionale e anche gli osservatori di varie ONG testimoniavano che si stava realizzando una bella giornata di voto, in cui i cittadini esprimevano tranquillamente la loro opzione, evidentemente con il desiderio di iniziare a risolvere l’acuta conflittualità politica che da anni attanaglia il paese.
Poi, poco dopo la mezzanotte, alle prime ore del 29, Elvis Amoroso, presidente del Consiglio nazionale elettorale, ha annunciato che Nicolás Maduro Moros aveva vinto con il 51,2% dei voti espressi, staccando il candidato dell’opposizione che aveva ottenuto il 44,2%, ma ha rifiutato di mostrare i verbali che dovevano accreditare quei risultati, mentre l’opposizione, non solo quella guidata da María Corina Machado ma anche alcune formazioni minori dell’opposizione di sinistra, come il Partido comunista venezuelano, hanno esibito numerosissimi verbali, raccolti seggio per seggio dai rappresentati di lista, che indicavano risultati totalmente diversi, con González al 67% e Maduro al 30%. L’opposizione ha caricato questi risultati (corrispondenti all’83,50% dei seggi totali) in un sito web che è stato immediatamente dichiarato illegale e bloccato dalla polizia e poi riaperto all’estero, nel quale ogni elettore introducendo il numero del proprio certificato elettorale può consultare il verbale del seggio in cui ha votato.
Da quel momento in poi, una parola ha dominato tutte le discussioni e le polemiche: la parola “actas”, le carte, le prove.
Maduro, per cercare di confermare il risultato delle elezioni diffuso dal CNE, ha chiesto anche il parere della “sezione elettorale” del Tribunal Supremo de Justicia (TSJ, la Corte suprema venezuelana), che, pochi giorni fa, con la sua larga maggioranza filogovernativa, ha confermato l’elezione di Maduro, ma ha anche raccomandato di “rendere pubblici i risultati”.
Il sistema elettorale
Qui occorre fare un excursus sui meccanismi elettorali del paese. Il voto avviene su dispositivi elettronici nei quali gli elettori esprimono il voto cliccando sul touch screen il nome candidato e la lista prescelti. Periodicamente e poi alla fine, la macchina genera un verbale che viene verificato dai componenti del seggio e dai rappresentanti di lista, che lo firmano e ne ottengono una copia ciascuno. Naturalmente il risultato viene telematicamente trasmesso al CNE che è incaricato di prenderne atto. Ma, da una certa ora in poi, verso le 14,30, in un numero consistente di seggi, i coordinatori dei centri di voto, funzionari del CNE, in larghissima parte militanti del PSUV, hanno denunciato un non meglio precisato “attacco informatico” (peraltro negato dalle autorità internazionali di gestione del web) e hanno cominciato a negare ai rappresentanti dell’opposizione l’ottenimento delle copie degli atti.
Peraltro, al di là del web e della versione telematica, dei risultati esiste anche una versione cartacea composta dai registri dei votanti e dai plichi contenenti le ricevute di ogni singolo voto che ogni seggio è tenuto a consegnare ai militari che sorvegliano i seggi, i quali li raccolgono per portarli ai vari centri di conteggio.
Dunque, al di là di ogni attacco hacker, i verbali esistono e sono nelle mani dei militari. Il CNE e il sistema elettorale venezuelano hanno caratteristiche e norme che permettono di verificare e garantire che quanto pubblicato nei bollettini corrisponda ai voti espressi dalle macchine elettroniche. È questo il processo stabilito dalla legge elettorale e che è stato palesemente violato ed è ciò che ha portato alla crisi in atto.
Ecco perché, a Caracas, anche nei quartieri popolari un tempo feudo chavista, già dalla mattinata del 29 si diceva ovunque: “Tutti sanno che cosa è successo”. E perché il regime ha reagito alle manifestazioni di protesta in maniera durissima, con almeno 25 morti e oltre 2.400 arresti (compresi 117 adolescenti, 185 donne, 17 disabili e 14 indigeni), tanto che il governo ha dovuto annunciare l’apertura di due nuove carceri.
Una protesta popolare repressa
La durezza della repressione si è concentrata fin dal primo giorno sui settori popolari mossi alla protesta non solo per il diritto di conoscere i risultati concreti delle elezioni, ma anche per le loro condizioni di vita precarie e per redditi miserabili, per la rabbia accumulata contro gli abusi di potere nelle loro comunità, mentre il governo designava i manifestanti come terroristi, criminali, trafficanti, vandali, accusandoli di reati come blocco stradale, istigazione all’odio, “tradimento della Patria”…
Va sottolineato che il PIL del paese dal 2018 a oggi è crollato di circa l’80% (anche se negli ultimi due anni è in leggerissima ripresa, ma assolutamente lontano da riportare la situazione a quella di 15 anni fa). E ancor più il PIL pro capite è crollato dal picco dei circa 20.000 dollari del 2008 ai circa 6.000 del 2023, per non parlare della caduta libera degli altri indici di sviluppo umano. E che, viste le crescenti disuguaglianze, sono soprattutto le classi lavoratrici a pagare il prezzo più alto di questa situazione: il salario minimo (formalmente a 130 dollari mensili, che comunque secondo gli analisti sono sufficienti a coprire non più del 30% del paniere di base) è ovunque non rispettato e sono milioni i lavoratori che devono sostenere le proprie famiglie con salari di poco più di 100 bolivares (corrispondenti a circa pochi dollari mensili), a fronte di una soglia di povertà estrema fissata a 57 dollari. Il tutto aggravato economicamente e socialmente dalla fuga massiccia dal paese di 6-7 milioni di venezuelani, quasi un quarto della popolazione.
Il regime ha affrontato la situazione con la moltiplicazione delle “zone franche”, con l’incremento dell’estrattivismo predatorio e con attacchi al diritto di sciopero, mentre le sanzioni internazionali e la costante pressione interventista imposta dagli Stati Uniti (ma anche dall’Unione Europea) stanno drammaticamente strangolando il paese e degradando ulteriormente le condizioni di vita dei venezuelani.
E’ per questo che la protesta del 29 luglio, iniziata con colpi di pentole per poi diffondersi spontaneamente a macchia d’olio ovunque, si è concentrata proprio nei quartieri periferici, nelle zone popolari di Caracas e di altre città, da sempre considerati bastioni del chavismo, ed è sempre lì, in quei quartieri, che si è concentrata la repressione militare e paramilitare più dura, da parte di un governo che non poteva tollerare la perdita del controllo di quelle zone, abituato com’era a confrontarsi con la tradizionale base sociale dell’opposizione di destra nelle tradizionali roccaforti collocate nella parte più prospera e benestante della capitale e delle altre città. A conferma di questa collocazione “topografica” della protesta, il coordinamento degli avvocati degli arrestati precisa che il 95% dei detenuti provengono dai barrios delle periferie.
E la repressione è continuata anche nelle settimane successive e continua ancora, con l’arresto di amministratori di gruppi Facebook o WhatsApp, di persone che hanno pubblicato l’immagine di una manifestazione “non autorizzata” o hanno registrato un video di denuncia del regime, e con l’imminente approvazione della “legge sull’odio”, volta a colpire più sistematicamente le attività critiche nei social network.
Devono essere “rieducati”, ha detto Maduro, proponendo anche il ripristino della pratica dei “lavori forzati”.
Ma perché il regime è arrivato a imporre questa situazione? Maduro e i suoi hanno dovuto organizzare il processo elettorale offrendo qualche legittimità all’opposizione per rispettare, almeno formalmente quanto concordato a livello internazionale con gli “accordi di Doha”, stipulati nel settembre scorso nella capitale del Qatar, che impegnano gli Stati Uniti a revocare tutte le sanzioni contro il paese latinoamericano in cambio “di un regolare svolgimento delle elezioni presidenziali e dell’insediamento del presidente regolarmente eletto”. Il regime aveva accettato quell’accordo perché era convinto che l’opposizione sarebbe arrivata al voto divisa e indebolita e che il settore guidato da María Corina Machado, colpito dai veti sulla candidatura della sua indiscussa leader (e poi della sua vice), avrebbe rinnegato le elezioni e invocato una sorta di insurrezione, com’era già accaduto nella precedente tornata presidenziale del 2019 con l’autoproclamazione a presidente di Juan Guaidó, poi rifugiatosi negli Stati Uniti.
Un’opposizione diversa che ha spiazzato il regime
Ma non è andata così. L’opposizione è rimasta ferma nel perseguimento della via elettorale e del rispetto delle norme, perfino ingoiando senza troppo protestare le forzature del regime, ed ha rigorosamente mantenuto la sua unità, nonostante le significative differenze interne, e ha continuato a riconoscersi unitariamente nella leadership di María Corina Machado.
Tutti i commentatori sottolineano questa “evoluzione dell’opposizione” e ne attribuiscono il merito proprio all’intuito politico di María Corina Machado. Questa leader dall’esterno era sempre stata vista come una figura molto radicale, come capo di un’opposizione “insurrezionale” che accusava tutti coloro che volevano partecipare alle elezioni di essere in qualche modo collusi con il regime. Improvvisamente, pur mantenendo intatto il proprio programma neoliberale e filostatunitense, ha iniziato a muoversi in maniera totalmente diversa, con un intenso rapporto popolare, girando tutto il paese, scavalcando i vertici dei partiti, stabilendo un forte legame diretto con la gente. Il suo messaggio era quello di promuovere un movimento che andasse ben oltre coloro che si erano identificati con la tradizionale opposizione di destra, tanto che alcuni analisti hanno paragonato il suo stile (certo non il suo programma) a quello di Hugo Chávez. E tanto da riuscire a integrare nella sua coalizione anche settori di centrosinistra.
In alcune interviste la leader dell’opposizione aveva rivelato che cosa l’aveva cambiata, ed era stato il divieto governativo di lasciare il paese. E il fatto che, di fronte a questo divieto, era stata obbligata a viaggiare in auto per tutto il Venezuela, incontrando tanta gente, verificando la reale situazione che il paese stava vivendo, e comprendendo che la rielezione di Maduro non era affatto scontata e che le elezioni del 2024 non sarebbero state una mera formalità, come quelle precedenti, da contestare in maniera “insurrezionale”, come fece Guaidò.
Insomma, un ruolo importante l’ha avuto proprio un elemento che il regime non ha capito, ovvero la diffusissima sofferenza sociale causata dal deterioramento delle condizioni di vita. Deterioramento che, certo, può anche essere attribuito alle sanzioni, ma che è anche il prodotto di un cattivo governo. Molti giornalisti internazionali, intervistando prima delle elezioni cittadini dei quartieri popolari, riportavano quelle che potevano essere le urgenze denunciate dalla gente: risolvere la crisi economica, investire nell’istruzione e, soprattutto, agevolare il ritorno di coloro che hanno lasciato il paese, con un’emigrazione di massa che ha colpito e diviso sostanzialmente tutte le famiglie.
Cioè si è resa conto di poter battere il PSUV, un partito strutturalmente indebolito, che controllava ancora il potere, ma stava perdendo la sua base sociale di sostegno, una base che si stava allontanando dal chavismo e che poteva votare per l’opposizione. E nei fatti, al di là dei verbali, è questo quel che è accaduto.
La caduta delle illusioni del regime
Ma né il PSUV né il governo avrebbero mai immaginato che tutto questo avvenisse. Così hanno in fretta e furia inventato l’attacco hacker e hanno nascosto i verbali, arrivando a far dire con estrema rozzezza al numero due del regime, Diosdado Cabello: “non consegneremo i verbali, non mostreremo nulla”.
La verità è che i dirigenti del regime hanno potere, beni, privilegi e una vita economicamente facile, cosa che li ha portati a vivere in una bolla, isolati dalla realtà e da ciò che accade alla base, perdendo il contatto con la vita quotidiana, lontani da tutto ciò che vivono i cittadini comuni.
Lo scorso anno il regime ha stipulato un accordo con la Fedecámaras, la locale confindustria, cosa che ha indotto il governo a ritenere vicina la risoluzione della crisi economica. Anche sulla base di quell’accordo e delle opzioni neoliberali lì concordate, da qualche tempo è in corso una “dollarizzazione di fatto” in un paese in cui due o tre anni fa era un crimine parlare di dollari. La dollarizzazione neoliberista ha compensato la carenza di beni di consumo di base, ma ha stimolato l’aumento delle disuguaglianze, colpendo la classe lavoratrice con una inflazione che nel 2023 è stata di oltre il 330% (anche se rimane distantissima dal picco del 6.000% toccato nel 2018).
Naturalmente, la soluzione dei problemi delle classi popolari non sta certo nei programmi dell’opposizione, nonostante la “svolta populista” e “democratica” di María Corina Machado. La sua politica non aiuterà le classi popolari, perché lei è ultraliberale, filoimperialista, in fin dei conti chiaramente reazionaria. Ma la soluzione delle sofferenze popolari non sta neanche nelle politiche neoliberali sulle quali si è assestata la “boliburguesía” (è il neologismo giornalistico usato da qualche tempo in qua per indicare gli uomini d’affari e i funzionari pubblici legati al governo “tardochavista”). E non sarà il sostegno dato a Nicolás Maduro da Cina, Russia e Turchia, i principali partner commerciali e militari del Venezuela, che permetterà di trovare una soluzione emancipatrice alla crisi.
La coalizione di opposizione ha scelto intelligentemente di cavalcare la voglia di cambiamento, ma le forze della destra che la dominano continuano a rappresentare la borghesia tradizionale e i grandi imprenditori privati, che contestano il potere politico del regime di Maduro ma beneficiano delle sue politiche con lo sfruttamento di una forza lavoro a bassissimo salario. E, d’altra parte, il suo programma avanza demagogicamente la parola d’ordine della “democrazia”, ma va verso un’ulteriore dollarizzazione e un ulteriore incremento delle disuguaglianze.
La crisi post elettorale ha inoltre messo in discussione le relazioni amichevoli che il Venezuela intratteneva con altri tre importanti paesi latinoamericani amministrati da governi di sinistra, il Brasile di Luiz Inácio “Lula” Da Silva, la Colombia di Gustavo Petro e il Messico di Andrés Manuel López Obrador.
In merito alla possibilità di riconoscere la vittoria di Maduro, Lula e Petro, pur “prendendo atto” della decisione del Tribunale Supremo e pur prendendo le distanze dalle sanzioni internazionali che “danneggiano la popolazione del paese sanzionato e in particolare i settori più vulnerabili”, sabato 24 agosto hanno emesso un comunicato congiunto nel quale ricordano di “attendere ancora la diffusione, da parte del CNE, dei verbali suddivisi per seggio elettorale”, anche per rispettare “gli impegni assunti dal governo e dall’opposizione con la firma degli Accordi di Barbados”, perché “la credibilità” del processo elettorale “può essere ripristinata solo attraverso la pubblicazione trasparente di dati disaggregati e verificabili”. I governi del Brasile e della Colombia affermano di voler “mantenere aperti i loro canali di comunicazione con le parti” per “facilitare la comprensione tra loro”. Il giorno prima, venerdì, anche il presidente del Messico aveva anticipato una posizione simile a quella dei suoi omologhi brasiliano e colombiano: “Aspetteremo che i risultati siano resi pubblici”.
Una sinistra democratica divisa
Ecco, perché il Venezuela e la sua crisi post elettorale costituiscono un’ulteriore occasione di divaricazione all’interno del mondo della sinistra. Un ex ministro chavista ha detto: “È impressionante vedere che la destra è riuscita ad avere il suo candidato, ma a noi della sinistra non è permesso avere un candidato. Non abbiamo alcuna rappresentanza in queste elezioni”. Essere di sinistra in Venezuela e allo stesso tempo opporsi al governo di Maduro, divenendone bersaglio della repressione politica e sociale, non è un compito facile. Non a caso il mondo della sinistra venezuelana, privato di candidature di riferimento si è frammentato tra chi ha scelto l’astensione, chi di annullare il voto, chi di votare uno dei candidati “turandosi il naso”, per poi comunque tutti quanti assistere alla drammatica sceneggiata del dopo voto.
Ma al di là della scelta elettorale, c’è la questione di un’organizzazione collettiva e unitaria della sinistra che si oppone al governo post-chavista. Divisa tra partiti politici, sindacati, movimenti sociali e altri spazi plurali, la convergenza delle lotte sembrava difficile prima delle elezioni, quando i vari partiti si criticavano a vicenda per le loro posizioni divergenti rispetto alla storia della Rivoluzione bolivariana, rinfacciandosi di non aver appoggiato quella rivoluzione quando ancora perseguiva obiettivi popolari o, al contrario, di averla appoggiata troppo, nonostante le sue ambiguità.
Dunque, una situazione drammatica ed estremamente complessa, gravida di incertezze e comunque rivelatrice della necessità di una generale riconsiderazione dei parametri di riferimento. In questo dossier, reperibile sul sito refrattario.link, è possibile seguire i tentativi di azione comune dei vari raggruppamenti della sinistra venezuelana di opposizione.
E la cosa non riguarda solo la sinistra venezuelana. Chiudere un occhio sull’autoritarismo di Maduro, come fa una certa sinistra qui come in America Latina, significherebbe rendere invisibili tutti coloro che in Venezuela lottano su basi antiautoritarie e democratiche di giustizia sociale e privarli di ogni sostegno internazionalista. Anzi, dimenticare le organizzazioni della sinistra di opposizione, i movimenti anticapitalisti riuniti nella coalizione “La otra campaña”, i vari gruppi di sindacalisti in lotta, i tanti collettivi di quartiere, le comunità del chavismo critico, significa avallare la presunta centralità della destra e il suo vestirsi da “baluardo della democrazia” di fronte al madurismo, significa regalare alla destra ulteriore sostegno popolare.
E purtroppo non si tratta solo di una dinamica venezuelana. E’ anche per questo che rammentiamo la dichiarazione rilasciata in questi giorni da Mónica Baltodano, ex comandante della guerriglia sandinista, costretta all’esilio e privata della cittadinanza nicaraguense, che ha affermato che quella del Venezuela è “un’altra rivoluzione tradita”.
*articolo apparso su https://www.micromega.net il 27 agosto 2024