Molti degli economisti cubani che sono favorevoli ad un ruolo maggiore del mercato sostengono che il mercato non è la stessa cosa del capitalismo, poiché i mercati hanno preceduto il capitalismo di molti secoli. Sebbene questo sia vero, ciò che questi economisti non chiariscono è che con l’affermazione e il consolidamento del capitalismo, il mercato non solo è diventato la forza economica dominante in un gran numero di società, come non lo era stato in precedenza, ma ha anche strutturato le relazioni in campo economico e persino le relazioni sociali, politiche e culturali di quelle società.
Questi cambiamenti sono stati analizzati magistralmente dallo storico dell’economia Karl Polanyi nel suo libro La grande trasformazione, diventato un classico dopo la sua pubblicazione nel 1944. Oltre a descrivere dettagliatamente il funzionamento dei mercati precapitalistici, Polanyi distingue concettualmente tra le molte società che avevano mercati senza essere capitaliste e quelle che avevano mercati tipici del capitalismo (“società di mercato”).
Per Polanyi – ha sottolineato la politologa Ellen Meiksins Wood nel suo libro L’origine del capitalismo – in tutte le società precapitalistiche, le pratiche e le relazioni economiche erano incorporate o sommerse in relazioni non economiche, basate su rapporti di parentela, comunitari, religiosi e politici. In queste società, il guadagno materiale non era una delle motivazioni principali; ciò che si cercava era lo status e il prestigio e il mantenimento della solidarietà comunitaria. È importante notare che nelle economie precapitalistiche i mercati locali e quelli a lunga distanza non erano essenzialmente guidati dalla concorrenza.
Nel commercio estero precapitalistico, sosteneva Polanyi, il ruolo del commerciante era quello di spostare le merci da un mercato all’altro per trarre vantaggio da uno scambio monetario ineguale, mentre nel commercio locale l’attività commerciale era strettamente regolamentata. In generale, la concorrenza veniva deliberatamente eliminata perché tendeva a disturbare il commercio locale.
Naturalmente, tutto ciò non intende proporre il modello precapitalista di Polanyi, accuratamente studiato, per le società e le economie contemporanee, compresa quella cubana. Ciò che è veramente importante è sottolineare che l’affermazione che il capitalismo è vecchio come la storia (anche se è durato solo circa 200-250 anni), può essere “senso comune”, ma non è “buon senso”, ed è semplicemente falsa. Questa falsità ha risuonato tra la gente forse a causa della diffusa stanchezza, disillusione e scarsità, data la dura realtà che affrontano quotidianamente, a Cuba e in tanti altri paesi; oppure a causa dei sofismi di alcune persone istruite che difendono lo status quo economico internazionale.
L’opposizione politica progressista e il mercato
L’opposizione politica progressista a Cuba ha giustamente criticato il regime nell’arena politica per il suo autoritarismo antidemocratico, che non riconosce i diritti individuali e collettivi dei cubani e non si fa scrupolo di reprimere la resistenza ai suoi eccessi imprigionando arbitrariamente centinaia di connazionali.
Sulla base di queste critiche, l’opposizione ha delineato molte delle caratteristiche importanti del nuovo ordine democratico a cui aspira. Non così, invece, nel campo dell’economia, dove la critica dell’opposizione al disastro dell’ordine burocratico che governa l’economia è stata indispensabile, ma dove ha scritto e detto molto poco sulla sua visione complessiva del tipo di economia che propone per l’isola.
Mentre l’opposizione di destra propone un ordine apertamente capitalista per l’isola, l’opposizione progressista non è andata molto oltre la registrazione del suo sostegno a cambiamenti e riforme molto specifici nell’ordine economico. Credo sia estremamente importante e necessario che i settori più progressisti dell’opposizione al regime autoritario inizino a chiarire la loro visione generale del futuro, iniziando a chiedersi se una Cuba democratica debba prevedere un ruolo dominante o complementare del mercato.
L’opzione di un mercato che svolga un ruolo complementare richiede, come minimo, il controllo pubblico delle “alturas dominantes” (dei poteri forti, diremmo in politichese italiano, ndt) dell’economia e la creazione di un sistema di pianificazione democratica che prenda decisioni estremamente importanti riguardo a una serie di dilemmi come l’equilibrio appropriato tra il consumo di risorse e il risparmio e l’accumulazione necessari per il progresso economico, soprattutto in paesi che, come Cuba, si trovano in una situazione sfavorevole nel contesto dell’enorme ricostruzione necessaria per la loro ripresa economica.
Questo tema non deve essere affrontato semplicemente da un punto di vista tecnocratico, ma con un’opera di autoeducazione politica attraverso un grande dibattito nazionale, soprattutto tra i lavoratori, sia negli uffici che nelle fabbriche e nelle officine che costituiscono la spina dorsale indispensabile delle economie odierne. Ovviamente, qualsiasi pianificazione a livello nazionale deve tenere conto del potenziale conflitto tra i vari obiettivi e le priorità, le risorse esistenti nel paese e le possibilità di importazione dall’estero. Ma l’inevitabile esistenza di conflitti nelle priorità di pianificazione richiede un processo di negoziazione tra queste differenze in modo aperto, pubblico e democratico, soprattutto tra i settori direttamente interessati.
Un sistema del genere può funzionare solo in un contesto di completa libertà di informazione e di pubblicazione, in cui le colpe, gli errori e i misfatti dei funzionari e delle istituzioni, sia economiche che politiche, siano esposti senza censura. Questa ampia pubblicità è la migliore cura per l’arbitrarietà, l’abuso di potere, l’inefficienza, la mancanza di qualità e la corruzione economica e amministrativa.
È prevedibile che la gente a Cuba associ legittimamente qualsiasi nozione di pianificazione economica alla presunta pianificazione dell’attuale regime, caratterizzata dalla scarsità di beni di consumo e dal cattivo stato dei trasporti e degli alloggi, oltre che da molti altri fallimenti economici. Questo fallimento non deve sorprendere perché, sebbene il blocco economico statunitense abbia avuto un impatto negativo, è stato di minore importanza rispetto al fatto che i piani economici, fin dall’inizio del processo rivoluzionario, sono stati formulati e attuati dal governo dall’alto, senza informazioni accurate e affidabili sull’economia e senza una discussione e un dibattito aperti su questi piani a tutti i livelli della società.
La cosiddetta pianificazione burocratica e centralizzata dell’economia cubana è sempre stata poco trasparente e priva di una discussione aperta, pubblica e senza manipolazioni da parte del PCC. Le informazioni sull’economia non solo sono state sistematicamente distorte, ma addirittura omesse, come nel caso, ad esempio, dei dati sulla povertà e sulla disuguaglianza, che sono stati nascosti per più di vent’anni.
Questo controllo antidemocratico, manipolato dall’alto, blocca la trasmissione di segnali chiari che sono indispensabili (come, ad esempio, l’effettiva produzione di fattori produttivi necessari ad altre imprese) per il corretto funzionamento di un sistema economico. Né il cosiddetto libero mercato né la pianificazione razionale e democratica potrebbero funzionare in un ambiente in cui prevalgono le menzogne e le falsità burocratiche.
Lo stesso sistema burocratico e antidemocratico ha ostacolato, impedito e scoraggiato la risoluzione dei problemi in loco, data la cultura diffusa che consiste nell’eludere o scaricare le responsabilità su altri. La mancanza di potere decisionale dei lavoratori a livello locale, insieme all’assenza di stimoli economici o politici – ad esempio l’autogestione – ha generato indifferenza, ozio e mancanza di coordinamento dei compiti, soprattutto a livello locale.
Per questo motivo – come riportava Carmelo Mesa-Lago a proposito dell’economia cubana negli anni ’70 – le attrezzature importate erano esposte alle intemperie perché non erano state create le strutture necessarie per conservarle. A quanto pare, nessuno osava criticare gli amministratori per questa grave mancanza di responsabilità. Inoltre, l’economia cubana è stata gravemente danneggiata dall’irresponsabilità di Fidel Castro e da numerosi arbitrii economici, tra cui il disastro del raccolto di zucchero di dieci milioni di tonnellate nel 1970, il fallimento delle “mucche F1” (le mucche selezionate che negli anni 70 e 80 si pensava potessero produrre una quantità di latte sufficiente a sopperire alla storica mancanza di questo alimento nell’economia cubana, ndt), il fallimento del Cordón de la Habana (il piano del 1967 che mirava allo sviluppo della cintura agricola che circondava la capitale cubana, ndt) e altri capricci economici.
Tutto ciò non significa che la pianificazione democratica non abbia i suoi problemi, ma è un’alternativa, da un lato, al disastro della pianificazione burocratica del regime e, dall’altro, alle grossolane distorsioni, alle ingiustizie e alle perturbazioni del “libero” mercato capitalista. Quanto detto è in definitiva un tentativo di applicare la democrazia al campo economico.
Occorre trovare alternative sia al passato pre-rivoluzionario – dove erano soprattutto i meccanismi del mercato capitalista a determinare le disuguaglianze economiche e sociali – sia al regime burocratico ed economicamente disastroso del cosiddetto “comunismo ufficiale”.

Rispetto al passato, questo tipo di mercato capitalista ha fatto sì che il 60% dei medici e il 62% dei dentisti si concentrassero all’Avana, dove risiede solo il 21% della popolazione cubana, il che significava un vergognoso abbandono di quasi metà della popolazione. Sebbene la costruzione di abitazioni private abbia avuto un boom nel dopoguerra, essa era destinata per lo più alle classi medie e alte, mentre molti cubani, soprattutto quelli di origine africana, sono rimasti confinati nelle numerose baraccopoli e nei lotti di terreno e, nei casi più estremi, nei quartieri estremamente marginali dell’Avana di Las Yaguas e Llega y Pon. Il fatto che questo fenomeno continui a riprodursi in questi giorni non diminuisce in alcun modo la responsabilità del “libero” mercato capitalista precedente al 1959.
Ciò non significa che la pianificazione, di per sé, sia sufficiente a porre rimedio alle grandi ingiustizie sociali, soprattutto al razzismo, a meno che non ci sia la volontà politica e il controllo democratico in tutta la società cubana per affrontare i problemi e apportare i cambiamenti necessari. Oggi possiamo constatare che le regioni più povere del paese, come la parte sud-orientale, con una netta maggioranza di cubani di origine africana, continuano a soffrire in modo sproporzionato di carenza e povertà.
La disuguaglianza sociale è visibile all’interno della stessa area metropolitana dell’Avana, tra i quartieri relativamente meno poveri situati vicino alla costa e i quartieri “interni” dell’Avana, molto più poveri e lontani dal mare, che si stanno deteriorando a un ritmo più rapido. È dubbio che questi problemi strutturali e queste disuguaglianze possano essere eliminati dal sistema capitalista, anche nella sua versione più moderata del cosiddetto “stato sociale”.
Il controllo dei lavoratori dovrebbe essere una parte cruciale della costruzione di una nuova società. Ciò costituirebbe un incentivo politico affinché essi, controllando democraticamente il loro lavoro, prestino attenzione e si sforzino di ottenere un lavoro più soddisfacente, sia per loro stessi che per la società, in termini di responsabilità ed efficienza, di innovazione dei metodi di lavoro e di utilizzo delle risorse disponibili.
Finora, però, non ci sono stati segnali significativi di un interesse dei lavoratori cubani per questa prospettiva, forse perché vedono l’emigrazione e, in misura minore, il lavoro autonomo come obiettivi più raggiungibili. Non c’è dubbio che, nelle circostanze attuali, il cattivo stato e la bancarotta di fatto di molte imprese statali scoraggi qualsiasi interesse per l’autogestione. Certamente, il controllo burocratico e antidemocratico dei sindacati, così come il timore, del tutto legittimo, di rappresaglie da parte delle autorità, costituiscono un ostacolo importante alle libere deliberazioni che potrebbero stimolare un potenziale interesse per l’autogoverno dei lavoratori.
Bisogna anche ammettere che la preoccupazione quasi esclusiva dell’opposizione a Cuba per l’espansione del lavoro privato ha significato in pratica non solo la negligenza ma anche l’abbandono dei problemi che hanno affrontato i lavoratori statali in quanto tali.
La situazione urgente di Cuba
Cuba sta attraversando una profonda crisi economica e demografica, paragonabile e forse anche peggiore di quella degli anni ’90, con gravi conseguenze politiche e sociali. Tuttavia, le crisi possono potenzialmente avere effetti positivi. Al grande scienziato Albert Einstein è attribuita la frase “nel mezzo di ogni crisi si trova una grande opportunità”. In effetti, le opportunità offerte dalla crisi attuale vengono colte da settori della società che non sono interessati né al futuro della democrazia né all’equità sociale e alla prosperità per tutti nella Repubblica cubana.

Così, ad esempio, sembra che almeno finora l’effetto principale delle cosiddette “piccole e medie imprese” (PMI) non sia stato il tanto necessario aumento della produzione e della produttività nel paese, ma piuttosto l’importazione di beni di consumo dall’estero – tra cui persino automobili – soprattutto per i proprietari delle nuove imprese e per coloro che hanno la possibilità di accedere a dollari ed euro, generalmente inviati dai loro parenti all’estero. In questo modo, la disuguaglianza economica e sociale sta aumentando considerevolmente senza una crescita e uno sviluppo significativi dell’apparato produttivo del paese.
Il governo, da parte sua, ha reagito con una politica sterile e burocratica di vessazione e limitazione delle PMI, invece di concentrare i propri sforzi sull’aumento della produzione statale per poter competere efficacemente con esse. In questo modo, si è comportata come il cane nella mangiatoia, senza mangiare né far mangiare gli altri. Nel frattempo, la GAESA (Grupo de Administración Empresarial S.A., il trust di imprese di proprietà dell’esercito cubano che controlla grande parte dell’economia, ndt) continua a sprecare le scarse risorse della nazione per costruire alberghi senza turisti, ma rafforzando e assicurando la propria posizione economica in un probabile capitalismo di stato nel futuro di Cuba.
I costi di un nuovo mercato capitalista
È necessario parlare in termini molto concreti dell’impatto di un nuovo capitalismo a Cuba, che, tra l’altro, potrebbe essere introdotto dagli stessi gerarchi del regime, come i militari che controllano la GAESA, soprattutto dopo la scomparsa dei leader storici del processo (ormai novantenni). In questo caso, bisognerebbe difendere molti diritti e conquiste, compresi quelli precedenti alla rivoluzione che trionfò nel 1959, come la difesa della rigida separazione tra stato e chiesa e il diritto all’aborto che, sebbene formalmente illegale all’epoca, era ampiamente esercitato nella pratica, anche se spesso in condizioni tutt’altro che ideali.

Sia la sanità che l’istruzione pubblica stanno attraversando una grave crisi. Ma se si verificasse un cambiamento politico a favore della privatizzazione (strettamente legata al mercato capitalista), queste istituzioni diventerebbero i primi obiettivi di una politica di privatizzazione selvaggia. Non essendo tutti soddisfatti del pessimo stato dei servizi pubblici più importanti, come l’istruzione e la sanità, questo mobiliterebbe le classi sociali emergenti, come la nuova borghesia e la classe media, a chiedere non un miglioramento di questi servizi per tutti, ma la privatizzazione dei servizi a loro destinati.
Inevitabilmente la nuova situazione porterebbe, nel caso della medicina, alla creazione di un servizio di tipo Medicaid negli Stati Uniti – un servizio pubblico che molti medici statunitensi non forniscono nemmeno a causa del poco che ricevono dal governo per curare i pazienti più poveri – per curare la maggior parte dei cubani poveri. Come è accaduto negli Stati Uniti, questa divisione del servizio medico tra i poveri e le classi medie e alte indebolirebbe notevolmente il sostegno politico alla costruzione e al mantenimento di un servizio medico pubblico che serva, con dignità e competenza, non solo i ricchi e la classe media, ma tutti i cubani.
Allo stesso modo, ci sarà una grande pressione politica per consentire l’istruzione privata a tutti i livelli. Una volta che ciò avverrà, l’istruzione privata, sia essa di natura religiosa o laica, esploderà. Queste nuove istituzioni saranno in grado di reclutare i migliori insegnanti e di usare i migliori edifici per educare le figlie e i figli di proprietari privati di successo, amministratori, specialisti, tecnici e funzionari pubblici. Va chiarito che l’universalità dell’istruzione pubblica obbligatoria non deve interferire con la libertà religiosa, poiché tutte le religioni e le fedi, senza eccezioni, dovrebbero essere libere di offrire istruzione religiosa, purché la impartiscano nei loro campus durante le ore libere degli studenti della scuola pubblica che sono interessati a riceverla.
Dopo tutto, una scuola pubblica ben finanziata dall’erario e controllata democraticamente nei suoi contenuti, non dallo stato ma dagli insegnanti, dalle facoltà universitarie di scienze dell’educazione e dal corpo studentesco, sarebbe forse l’istituzione più importante per promuovere la democratizzazione, l’equità e l’integrazione sociale, razziale e di genere della società cubana.
La rilevanza della mia esperienza politica
Nella situazione attuale parlo per esperienza di chi ha vissuto a Cuba per quattro mesi nell’estate del 1959, poco dopo il trionfo rivoluzionario. Da un lato, è stata un’esperienza che mi ha profondamente radicalizzato e che ha cambiato il corso della mia vita. Ma, allo stesso tempo, avendo allora una certa conoscenza della storia dell’Unione Sovietica e dei paesi che aveva conquistato dopo la Seconda guerra mondiale, mi preoccupava il fatto che molti giovani come me, quasi nessuno dei quali aveva una formazione politica comunista, seguissero sempre più le linee guida, non tanto del Partido Socialista Popular (PSP, il partito filosovietico di Blas Roca, Aníbal Escalante, ndt), quanto dei cosiddetti “meloni” (verdi all’esterno, ma rossi all’interno) attraverso leader come Raúl Castro e soprattutto Che Guevara.
Quest’ultimo invocava l’“unità” che richiedeva il silenzio sulle tendenze antidemocratiche del regime, sostenendo che il vero nemico era l’imperialismo statunitense e che ogni critica al regime faceva il gioco della borghesia e dei grandi proprietari terrieri locali, un atteggiamento largamente diffuso che già allora temevo avrebbe facilitato un percorso più ingannevole verso lo “stalinismo tropicale”.
In altre parole, la concentrazione esclusiva sui nemici del presente disarmava il popolo contro i potenziali e anzi probabili nemici del futuro. Questo atteggiamento di ieri lo ritrovo rinnovato oggi, quando molti cubani adottano la vecchia teoria delle tappe che ha propagandato l’idea che prima bisogna eliminare la dittatura castrista e poi si vedrà. Questa visione del futuro ignora il fatto che la forza politica che sarebbe possibile sviluppare oggi giocherebbe un ruolo importante nel determinare come si svilupperebbe un futuro che vogliamo democratico e basato sull’uguaglianza.
*articolo apparso il 16 ottobre sul sito cubaxcuba