Le alluvioni mortali in Spagna rivelano in modo drammatico l’illusione dell’adattamento al riscaldamento globale. Con la temperatura già a +1,2°C, come possiamo aspettarci che le nostre politiche pubbliche siano in grado di anticipare un aumento di 4°C?
Almeno 72 [quasi 200 dato aggiornata al 1° novembre NdT] persone sono morte nelle violente inondazioni che hanno devastato la regione di Valencia, nel sud-est della Spagna, la sera del 29 ottobre. Il bilancio delle vittime è provvisorio. Le piogge torrenziali sono state le peggiori nel Paese dal 1996.
Anche in Francia, nelle ultime settimane, interi territori sono stati devastati da inondazioni senza precedenti. Mentre le ondate di calore e le terribili inondazioni hanno scosso gli abitanti dei Paesi dell’emisfero meridionale nella primavera del 2024, questi eventi climatici estremi più vicini a noi evidenziano tragicamente ciò che l’ultimo rapporto dell’IPCC ha sottolineato tre anni fa: non una sola regione del globo è oggi risparmiata dal caos climatico.
Di fronte a queste tragedie, negli ultimi anni, nell’opinione pubblica, nei circoli diplomatici e nei ministeri responsabili dell’ecologia dei Paesi industrializzati si è diffusa una nuova prospettiva: di fronte all’intensificarsi di questi cataclismi, dobbiamo certamente ridurre le emissioni di gas serra, ma dobbiamo anche adattarci.
Il 25 ottobre, Agnès Pannier-Runacher, ministro francese per la Transizione ecologica, ha annunciato un piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici per preparare la Francia a +4°C entro la fine del secolo. La prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29), che si terrà in Azerbaigian dall’11 al 22 novembre, includerà un intero ciclo di negoziati sull’adattamento e il suo finanziamento a livello internazionale. Infine, l’IPCC ha deciso che il suo prossimo ciclo di lavoro, previsto per il 2029, si concentrerà sull’adattamento al riscaldamento globale.
Ma va detto che, visti i terribili disastri causati dagli sconvolgimenti climatici in un mondo che già si avvicina a +1,2°C, sembra sempre più irrealistico riuscire ad adattarsi a un pianeta a +4°C.
In uno scenario di riscaldamento a +4°C, le piogge decadali – eventi che attualmente hanno una possibilità su dieci di verificarsi ogni anno – si verificheranno quasi tre volte più spesso, secondo l’IPCC. L’organismo delle Nazioni Unite stima che l’intensità di questi eventi estremi di precipitazione aumenterà del 7% per ogni grado di aumento della temperatura. Si tratta di una vera e propria tempesta sulla Terra.
Dietro l’adattamento, l’estensione del neoliberismo
Quindi, se è necessario adattare i nostri territori al riscaldamento globale, è ancora più urgente ridurre drasticamente le nostre emissioni per limitare il cambiamento climatico a +1,5°C, come previsto dall’Accordo sul clima di Parigi del 2015.
Inoltre, per evitare di rimanere intrappolati dai paraocchi politici che possono derivare da discorsi incentrati esclusivamente sull’adattamento, è anche essenziale ricordare la storia intellettuale di questa nozione.

L’idea di adattamento è stata forgiata nel crogiolo neoliberista americano degli anni Settanta come risposta alla crisi climatica. Come ha affermato il politologo Romain Felli, autore di La Grande Adaptation. Climat, capitalisme et catastrophe (Seuil, 2016), gli economisti americani calcolarono all’epoca che una massiccia riduzione delle emissioni fosse “una politica troppo costosa, perché implica la modifica dell’organizzazione economica del capitalismo, che si basa sui combustibili fossili”, e che “lo sforzo che i Paesi ricchi farebbero per ridurre le loro emissioni andrebbe a beneficio di tutte le nazioni del mondo, il che è inaccettabile dal punto di vista economico per i neoliberali”.
D’altra parte, questi economisti neoliberali hanno sostenuto che “le politiche di adattamento sono dispiegate localmente e beneficiano direttamente al Paese”. Dagli anni ’80 in poi, sono sembrate il modo economicamente più ragionevole di rispondere all’emergenza climatica.
“L’adattamento avrà la precedenza sulle politiche di riduzione delle emissioni, perché l’aumento delle emissioni è intrinsecamente legato al nostro modello di crescita”, afferma Romain Felli; “A parte una radicale inversione di rotta, l’adattamento è quindi la migliore risposta al cambiamento climatico, continuando a mantenere il business as usual”.
Nascondere il motore del caos climatico
Le prime immagini dalla Spagna dopo le alluvioni hanno mostrato impressionanti cumuli di auto in strade sommerse, rivelando sia la portata del disastro sia un indizio della sua causa principale: i combustibili fossili.
Le ingiunzioni statali ad adattarsi al riscaldamento globale nascondono la forza determinante del cambiamento climatico: la combustione di carbone, petrolio e gas, responsabile di circa il 90% delle emissioni mondiali di CO2. E permettono di distogliere l’attenzione politica dall’inazione internazionale sul clima in termini di abbandono dei combustibili fossili.
Infatti, abbiamo dovuto aspettare circa trent’anni prima che i Paesi riuniti alla COP28 di Dubai (Emirati Arabi Uniti) “chiedessero” timidamente l’anno scorso “una transizione dai combustibili fossili”. E il 28 ottobre scorso, l’Osservatorio sul clima delle Nazioni Unite ha calcolato che gli attuali piani climatici dei vari Stati del mondo riusciranno a ridurre le nostre emissioni solo del 2,6% da qui al 2030, mentre dovrebbero diminuire del 43% per rimanere al di sotto del limite di + 1,5°C di riscaldamento.
Peggio ancora, gli Emirati Arabi Uniti, che hanno organizzato la COP l’anno scorso, l’Azerbaigian, che ospita i negoziati internazionali sul clima quest’anno, e il Brasile, che ospiterà la prossima COP30, stanno pianificando collettivamente di aumentare la loro produzione di petrolio e gas di un terzo da qui al 2035. Questo potrebbe mettere a rischio il limite di 1,5°C che dovrebbero difendere in qualità di presidenti della COP e, in ultima analisi, di custodi dell’accordo sul clima di Parigi.
Storicamente la più ambiziosa nelle sedi diplomatiche internazionali, l’Unione Europea sta soffrendo l’ascesa della destra conservatrice e radicale, che sta minacciando l’attuazione del Patto Verde, la tabella di marcia per frenare il cambiamento climatico inarrestabile entro il 2050.
Solo in Francia, uno dei Paesi diplomaticamente più impegnati nell’abbandono dei combustibili fossili, il bilancio 2025 prevede di tagliare 1,9 miliardi di euro di sussidi pubblici legati all’ambiente.
Tutti segnali di un continuo contrapporsi alle politiche pubbliche di transizione ecologica, sacrificate in nome dell’austerità di bilancio e dell‘“ecologia punitiva”. Ma questa incoerenza politica fa poco per nascondere il fatto che, mentre il caos climatico si intensifica sotto i nostri occhi, è il capitalismo a essere punitivo. E di fronte ai cataclismi climatici che ormai costellano le nostre vite, cambiare l’ordine sociale è l’unica politica di adattamento possibile.
*articolo pubblicato su mediapart.fr il 30 ottobre 2024