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Una delle rappresentazioni più evidenti dei costi ambientali della guerra si è avuta quando settecento campi petroliferi del Kuwait sono stati incendiati durante la prima guerra del Golfo, facendo fuoriuscire ben undici milioni di barili di greggio nel Golfo Persico e creando un pennacchio di fumo che si estendeva per 800 chilometri. Quasi trecento laghi di petrolio si svilupparono nell’entroterra sulla superficie del deserto, contaminando il suolo per molti anni.[1]

A distanza di due decenni, dopo molti disastri di questo tipo nelle zone di guerra di tutto il mondo, e dopo infinite analisi e dibattiti sul rapporto tra guerre e cambiamenti climatici, il genocidio di Israele a Gaza sta ancora una volta mettendo a nudo le emissioni letali delle guerre e il loro ruolo nel riscaldamento del pianeta. Eppure i governi di tutto il mondo, compreso il nostro, ignorano ampiamente l’impatto delle scelte di politica estera e di difesa sul clima.

Secondo una valutazione preliminare pubblicata dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), l’impatto ambientale della guerra a Gaza è senza precedenti, esponendo la comunità a un inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria in rapida crescita e al rischio di danni irreversibili agli ecosistemi naturali.[2]

Un’altra ricerca rivela che le emissioni di carbonio durante i primi due mesi di guerra a Gaza sono state superiori all’impronta di carbonio annuale di oltre venti delle nazioni più vulnerabili al clima del mondo.[3]

Il sostegno dell’Occidente al genocidio di Israele e l’incapacità della comunità internazionale di porre fine a questa guerra catastrofica hanno evidenziato ancora una volta la loro dannosa ipocrisia in merito alla crisi climatica. Da un lato, continuano a blaterare sui pericoli del collasso climatico, ma non riconoscono la crescente preoccupazione per gli effetti a lungo termine della guerra e dell’occupazione di Israele. Ma non è solo l’impronta di carbonio della guerra a essere sconcertante. La ricostruzione di Gaza avrà un prezzo ambientale ancora più alto. È stato stimato che la ricostruzione di Gaza genererà quasi 60 milioni di tonnellate di CO2. Si prevede che le emissioni collegate alla ricostruzione di Gaza saranno superiori alle emissioni annuali di oltre 135 Paesi, equiparandole a quelle di Svezia e Portogallo.[4]

Il popolo palestinese è da tempo vittima della guerra e dell’occupazione, ma vive anche in una regione assai vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. La Striscia di Gaza, la Cisgiordania e le aree circostanti sono zone prevalentemente calde, con gran parte del territorio arido o semi-arido.[5] Con il cambiamento climatico, l’aumento delle temperature e la mancanza d’acqua, gli effetti del cambiamento climatico stanno diventando sempre più estremi.[6] La scarsità d’acqua, l’insicurezza alimentare e gli eventi meteorologici estremi, stanno ulteriormente aggravando la crisi umanitaria a Gaza e minacciano il benessere della popolazione rimanente.

La guerra a Gaza è solo un assaggio della più ampia impronta militare delle guerre e del complesso militare industriale. Le emissioni militari sono ai massimi storici e dati recenti rivelano che nel 2022 le emissioni globali di CO2 erano 182 volte superiori a quelle del 1850.

La guerra in Ucraina ci insegna lezioni simili sull’impronta di carbonio delle guerre. Uno studio completo di EcoAction ha rivelato che dall’invasione sono stati rilasciati nell’atmosfera 175 milioni di tonnellate di CO2 e altri gas serra. In Yemen, Somalia e Sudan, la guerra e i cambiamenti climatici stanno intensificando le crisi umanitarie con l’aumento di malattie endemiche ed epidemiche, siccità estrema, inondazioni e scarsità di cibo. Paesi vulnerabili e devastati dalla guerra come la Siria, l’Afghanistan e l’Iraq continuano a fare i conti con le condizioni climatiche estreme e i relativi disastri, e sono stati lasciati soli ad adattarsi alle crudeli realtà del cambiamento climatico, senza finanziamenti e sostegni adeguati.

Le conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP) hanno ripetutamente evitato di considerare il complesso industriale militare responsabile delle sue impressionanti emissioni. E non si tratta solo delle emissioni dei combustibili fossili, ma anche della contaminazione radioattiva dell’energia nucleare, per la quale i militari devono essere chiamati a rispondere. Infatti, l’anno scorso, alla COP28, non c’era «nessun documento finale che menzionasse il contributo delle attività militari o dei combattimenti bellici alla crisi climatica».[7]

Gli Stati Uniti hanno registrato la spesa militare più alta nel 2023, con 916 miliardi di dollari dedicati alle forze armate. Hanno promesso solo 17,5 miliardi di dollari al fondo per le perdite e i danni della COP28, mentre Israele, Russia e Ucraina, che stanno causando un’enorme distruzione ambientale in tempo di guerra, aumentando le emissioni militari di gas serra, non hanno promesso nulla. Mentre le emissioni militari sono state assenti dai negoziati e dal documento finale, i militari non sono certo mancati alla conferenza con il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg, che ha rilasciato dichiarazioni false sull’impatto dei cambiamenti climatici sulla difesa, l’eredità tossica delle guerre e la necessità di strategie “net zero”.[8]

Gli attivisti per il clima chiedono da tempo che le nazioni ricche dirottino il 5% dei loro bilanci militari verso i finanziamenti per il clima.[9] Mentre la spesa militare è aumentata in modo esponenziale, superando i 2.200 miliardi di dollari nel 2022, nel 2021 sono stati spesi solo 90 miliardi di dollari per i finanziamenti per il clima, una cifra di gran lunga inferiore a quella necessaria per affrontare la crisi climatica. Senza tagliare le spese militari non necessarie – soprattutto da parte dei trentuno Stati membri della NATO che rappresentano più della metà di tutta la spesa militare globale e le cui emissioni totali rappresentano oltre 233 milioni di tonnellate di gas serra equivalenti a CO2 – non possiamo raggiungere gli obiettivi climatici stabiliti.

Le prove sono evidenti. Guerre, NATO e il complesso militare industriale sono tre dei maggiori responsabili dell’emergenza climatica. La riluttanza dei governi e dei politici ad attuare politiche estere e di difesa che riducano le future emissioni militari, deve essere contrastata. Solo costruendo un forte movimento contro la guerra che si concentri sul catastrofico impatto ambientale del militarismo, e si batta efficacemente per porvi fine, potremo davvero iniziare ad affrontare la devastazione climatica.

[1] https://unfccc.int/news/conflict-and-climate

[2] https://www.unep.org/news-and-stories/press-release/damage-gaza-causing-new-risks-human-health-and-long-term-recovery

[3] https://www.theguardian.com/world/2024/jan/09/emissions-gaza-israel-hamas-war-climate-change

[4] https://www.qmul.ac.uk/media/news/2024/hss/new-study-reveals-substantial-carbon-emissions-from-the-ongoing-israel-gaza-conflict.html

[5] https://earthjournalism.net/stories/cop28-how-the-wars-in-ukraine-and-gaza-affect-climate-action

[6] Ibid.

[7] https://ceobs.org/always-money-for-war-reflecting-on-cop28/

[8] Ibid.

[9] https://www.theguardian.com/environment/2023/dec/02/cop28-climate-change-military-funds

*articolo apparso su Stop the War coalition  il 31 agosto 2024. La traduzione è stata curata per https://antropocene.org/ da Alessandro Cocuzza.