Ogni anno, milioni di tonnellate di plastica entrano nei nostri polmoni, nel sangue e nel cervello.
Plastica ovunque, anche in ciò che beviamo
L’immagine della plastica fumante in una piccola fossa sul ciglio della strada, con ciuffi di fumo bianchi che si alzano danzando, è rimasta impressa per sempre nel mio cervello. L’ho vista, insieme a molte altre fosse simili, durante una ricerca di educazione etica a Bangalore, in India, nel 1998. Per questo, il recente studio di Nature sulla quantità di plastica bruciata a cielo aperto nel mondo[1] – con l’India al primo posto a livello globale – ha riportato quell’immagine alla mia coscienza. Solo ora, però, cerco di fare i conti. L’ho visitata ventisei anni fa. In questi due decenni e mezzo, quanta innumerevole plastica è stata bruciata nelle strade di Delhi, Kolkata, Mysore e così via? Nel 2020, Bangalore ha bruciato 55.000 tonnellate, e Delhi 144.000 tonnellate. Anno dopo anno, l’India sta bruciando milioni di tonnellate – 5,8 milioni nel 2020 – e si tratta di un solo paese. In totale, nel 2020 il mondo ha bruciato circa 22 milioni di tonnellate di plastica, mentre altri 30 milioni di tonnellate finiranno in natura.
Con tutti questi rifiuti di plastica riversati sulla terra, nell’acqua e nell’aria nel corso dei decenni, sorge spontanea una domanda: quanta plastica è finita nei polmoni, non solo degli esseri umani ma anche di innumerevoli creature grandi e piccole?
Diversi studi recenti hanno rilevato che la plastica ha ormai invaso ogni luogo. Secondo questo studio, gli esseri umani respirano circa 74.000-121.000 particelle di microplastica all’anno. La plastica è nei nostri cervelli (contribuendo forse alla demenza); è nei nostri vasi sanguigni, aumentando le probabilità di attacchi cardiaci e ictus, e in altri organi, causando potenzialmente ogni sorta di cose negative, come l’aumento dei tassi di cancro e forse una nuova malattia, la plasticosi.[2]
Peggio ancora, questo è uno di quei problemi che sono diventati quasi invisibili, o talmente radicati nei sistemi culturali ed economici di cui facciamo parte che non riusciamo più a vederli. A giugno è stato pubblicato un articolo sull’uso diffuso della plastica in agricoltura, tanto che la plastica sta diventando una parte permanente del suolo, portando gli scienziati a ribattezzare l’agricoltura come “plasticoltura”. Questo comporta ogni sorta di problemi, tra cui i cambiamenti nel suolo della flora e della fauna, la ritenzione di tossine e la riduzione della disponibilità di sostanze nutritive.[3]
Questa è la fine?
Quest’orgia di plastica continuerà finché non saremo tutti riproduttivamente compromessi e il problema si risolverà da solo? Oppure esiste una soluzione a questo mondo di plastica in cui ci stiamo imprigionando?
Un tentativo è quello di approvare un trattato mondiale per affrontare l’inquinamento da plastica (compresa la progettazione, la produzione e lo smaltimento), iniziato nel 2022 e che dovrebbe concludersi questo novembre. Tuttavia, c’è una forte resistenza da parte delle industrie chimiche e dei combustibili fossili (che hanno inviato quasi duecento lobbisti agli ultimi negoziati di aprile, con un aumento del 37% rispetto all’incontro precedente). È probabile che questo processo venga ritardato o che il trattato non sia abbastanza forte da incidere sui 462 milioni di tonnellate di plastica che il mondo produce ogni anno.
In effetti, secondo ricerche condotte dall’industria del settore, la plastica è destinata a rimanere nel prossimo futuro. Un recente caso di studio da parte di un consulente di «un grande produttore di attrezzature sportive di cui non si sa il nome», che utilizza molta plastica nei suoi prodotti e imballaggi, ha rilevato che anche nello scenario migliore – in cui la riduzione dei rifiuti di plastica e i programmi di economia circolare siano integrati nel suo modello aziendale – l’inquinamento da plastica diminuirà solamente dalle 83.000 tonnellate nel 2023 alle 75.000 tonnellate nel 2040. Certo, si tratta di 8.000 tonnellate in meno, e di 46.000 tonnellate in meno rispetto al suo percorso di business as usual (se non si implementa alcun programma riduttivo), ma moltiplicate questo dato per centinaia di migliaia di aziende che dipendono dalla plastica, e la fine del problema della plastica non si vede all’orizzonte.
Un nuovissimo rapporto dell’OCSE rafforza queste analisi del settore, scoprendo che il mondo è sulla buona strada per produrre 736 milioni di tonnellate di plastica all’anno entro il 2040, ovvero il 70% in più rispetto ai livelli del 2020. Il rapporto prevede che aumenteranno anche i rifiuti di plastica gestiti in modo scorretto, a meno che il mondo non implementi «politiche rigorose», come la limitazione della domanda di plastica a 508 milioni di tonnellate all’anno e il quadruplicamento dei tassi di riciclaggio della plastica. Sebbene questo scenario riduca del 96% le «perdite di plastica nell’ambiente», ciò che è più significativo è che il mondo continua a produrre 508 milioni di tonnellate di plastica all’anno!
È almeno dagli anni ’70 che circolano grandi idee politiche per affrontare l’inquinamento da plastica. In A Blueprint for Survival, Edward Goldsmith ha suggerito una tassa differenziata per le plastiche monouso rispetto a quelle durevoli. Già questo potrebbe contribuire a ridurre la domanda delle forme di plastica meno pregiate, soprattutto se la tassa venisse aumentata di anno in anno.
Ma in realtà, a questo punto siamo così dipendenti dalla plastica – e i produttori hanno passato così tanto tempo a ingannare i consumatori sul suo uso – che sarà difficile cambiare direzione. Questo non vuol dire che sia impossibile. Proprio la settimana scorsa, il procuratore generale della California ha citato in giudizio la ExxonMobil, il più grande produttore di polimeri plastici al mondo, sostenendo che l’azienda ha per cinquant’anni ingannato i consumatori sulla riciclabilità della plastica, e che continua ad ingannarli con le sue recenti affermazioni secondo cui il riciclaggio “avanzato”, o chimico, risolverà la crisi della plastica.[4]
Come nel caso dei PFAS, se più fronti vengono aperti contro le aziende produttrici, più queste vengono messe sulla difensiva, creando spazio per iniziative maggiori, come il trattato mondiale sulla plastica. Ma in realtà, a differenza del problema dei PFAS che hanno un numero relativamente piccolo di produttori, la plastica è ormai onnipresente in ogni cosa e non sono sicuro che ci sia la volontà di avviare un percorso di cambiamento. Inoltre, i produttori di petrolio, che esercitano un’influenza notevole sui politici di tutto il mondo, dipendono sempre più dalla produzione di plastica per difendere i loro futuri modelli di business, soprattutto perché la produzione di petrolio è ostacolata dalla transizione verso le energie rinnovabili, e quindi lotteranno con le unghie e con i denti per difendere questo flusso di entrate.
Considerando la natura bicefala di queste aziende che sputano sostanze tossiche, tutto questo sottolinea la necessità di nazionalizzare, controllare e persino smantellare queste aziende petrolchimiche. Ma questo è solo un pezzo del puzzle: come per la maggior parte dei problemi ambientali, gran parte della soluzione si troverà nella decrescita: ridurre la produzione e il consumo complessivi (e, col tempo, la popolazione umana e le specie che ne dipendono). È fondamentale passare da una cultura dell’usa e getta orientata alla crescita, ad una cultura che sostenga e aiuti gli agricoltori ad usare materiali più durevoli, eliminando gradualmente la plastica; eliminandola il più possibile da tutte le industrie, riservando il suo impiego solo agli usi più essenziali.[5]
Ma questo presuppone che si segua un percorso razionale per uscire da questa crisi, il che potrebbe essere una speranza irrazionale, considerando la nostra incapacità di farlo con la crisi climatica; per non parlare del fatto che i nostri cervelli, sempre più plastificati, potrebbero presto avere sempre più difficoltà nel concepire pensieri razionali!
[1] Per combustione aperta si intende la combustione in “fuochi all’aperto non controllati”.
[2] A questo proposito, questo nuovo articolo di Nature descrive la “plastisfera” come nuovi ecosistemi che si formano a causa dei rifiuti plastici globali e che fungono da sede per molti batteri e virus patogeni (e persino resistenti agli antibiotici).
[3] Lavorando in una piccola azienda agricola locale, posso testimoniare la plastificazione dilagante del suolo: dai muri in decomposizione delle casette, ai teli di plastica per prevenire le erbacce, fino all’inevitabile contaminazione da plastica che si trova nel compost comunale.
[4] Se non avete familiarità con il riciclaggio chimico, qui trovate un buon manuale su tutti i suoi problemi.
[5] In alternativa, forse, possiamo evitare il problema mangiando la plastica. Un film di fantascienza del 2022, Crimes of the Future, inizia con la scena di un giovane umano che mastica un piccolo secchio rosa della spazzatura del bagno, essendosi evoluto per mangiare la plastica. Più realisticamente, un nuovo studio ha scoperto che alcuni batteri possono mangiare la plastica PET. Come si legge nell’articolo, questa non è una soluzione quando produciamo centinaia di milioni di tonnellate di plastica all’anno, ma forse è una parte della soluzione per ripulire l’ambiente dall’inquinamento da microplastica persistente, una volta che sia finita l’era della produzione di plastica.
*articolo apparso su Clime&Capitalisme il 19 ottobre 2024. La traduzione in italiano è stata curata dal Alessandro Cocuzza per https://antropocene.org/