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Il fallimento del governo Barnier è soprattutto il fallimento del tentativo di gestire le contraddizioni interne del capitale in un quadro parlamentare. Nominando l’ex commissario europeo come primo ministro nel gabinetto francese, Emmanuel Macron ha cercato di creare un blocco in grado di raggiungere un compromesso all’interno del capitale francese. Ed è questo compromesso che è fallito.

Il punto di partenza di tutta questa vicenda è il disastro ereditato dalla gestione di Bruno Le Maire, l’ex ministro dell’Economia, delle Finanze e della Sovranità industriale, e, più in generale, dalla politica neoliberista attuata da Emmanuel Macron a partire dal 2017. Riducendo massicciamente le imposte per le imprese e i detentori di capitale, ma anche sovvenzionando generosamente gran parte del settore produttivo francese, questa politica sperava di generare uno shock di crescita.

È accaduto il contrario. In cinque anni la crescita è rallentata notevolmente. È vero che per un certo periodo le cifre sono state soddisfacenti, rispetto ad alcuni dei nostri vicini, ma ciò è avvenuto solo perché la produzione è stata massicciamente sovvenzionata. La base produttiva sottostante era a pezzi e il crollo della produttività francese dopo la crisi sanitaria ne è stato un chiaro sintomo. Logicamente, il gettito fiscale non ha tenuto il passo con la crescita poiché drogato da politiche di sostegno al capitale.

Di fronte a questa situazione, si sono formati due campi all’interno del capitalismo francese. Da un lato, i settori produttivi sono diventati fortemente dipendenti dai tagli fiscali e dai sussidi, cioè dal bilancio dello stato. In assenza di crescita della produttività e dal motore di crescita delle esportazioni (il capitalismo francese si concentra principalmente sulla domanda interna), questo è l’unico modo per ottenere profitti a breve termine.

Dall’altro lato, ci sono i settori finanziari che, privati del sostegno incondizionato delle banche centrali dopo la crisi sanitaria, sono di nuovo alla ricerca di garanzie per i loro investimenti e chiedono un ritorno alla disciplina di mercato.  Anche questi interessi sono messi sotto pressione dalla debolezza della crescita. Senza di essa, i rendimenti sono destinati ad essere più bassi e i governi più fragili. Il mondo finanziario chiede quindi un rapido consolidamento fiscale, anche se ciò significa aumentare alcune imposte sulle imprese e tagliare i sussidi. Naturalmente, non chiedono l’abrogazione della riforma fiscale sui capitali del 2018, che li avvantaggia direttamente.

Questa divisione all’interno del capitale non è appannaggio della sola Francia, ma si sta diffondendo in tutto il capitalismo globale. Il primo sintomo era stata la caduta del primo ministro britannico Liz Truss nel settembre 2022, trascinata da una mini-crisi del debito dopo aver voluto tagliare nuovamente le imposte sulle imprese. Da allora, tuttavia, il settore finanziario, che è estremamente potente e ha una grande influenza sull’opinione pubblica data la finanziarizzazione delle economie, si è organizzato attorno a un movimento “libertario” che ha vinto le elezioni in Argentina e negli Stati Uniti.

Il capitalismo francese a bassa crescita produce quindi tensioni interne al capitale. Se la crescita è debole, i profitti in un settore vanno a scapito di un altro. È un gioco a somma zero in cui tutti cercano di ottenere una parte. In questo contesto, è molto difficile raggiungere compromessi, poiché nessuno è disposto a cedere terreno perché c’è poco spazio di manovra. Lo Stato diventa così un campo di battaglia per questi interessi, a cui si aggiunge un terzo soggetto, il mondo del lavoro.

Quali politiche sono possibili?

Quali sono le opzioni in un simile scenario? In teoria, ce ne sono tre. La prima è che il lavoro si opponga frontalmente al capitale, attuando una politica di aumento delle tasse sulle due fazioni in lotta, nella speranza che questo porti a un risanamento delle finanze pubbliche in grado di calmare i mercati finanziari. In realtà, questa opzione implica un ulteriore passo avanti nella misura in cui, nel capitalismo, il lavoro è dominato dal capitale.

Il rischio di una controffensiva sotto forma di una doppia crisi finanziaria ed economica obbliga a una politica di trasformazione, cioè a costruire una società in cui si possa fare a meno del capitale. Ma questa posizione non è all’ordine del giorno.

La seconda opzione cerca di aggirare le difficoltà della prima, organizzando un’alleanza tra il lavoro, o una parte maggioritaria di esso, e una delle fazioni del capitale contro l’altra fazione. In linea di massima, si tratterebbe di preservare una parte della protezione sociale in cambio di un aumento delle imposte sulle imprese o sul capitale finanziario. La difficoltà in questo caso è in parte la stessa di cui sopra: la situazione economica è così tesa che una risposta della fazione del capitale bersaglio di queste misure potrebbe provocare una crisi.

L’ultima opzione è quella di costruire un compromesso tra le fazioni del capitale per preservare gli interessi di entrambi i gruppi, facendo pagare il lavoro attraverso la distruzione dello stato sociale e l’introduzione di nuove riforme strutturali. Questa è l’opzione ideale per il capitale. Il capitale produttivo mantiene il suo accesso al denaro pubblico e, con l’austerità, vede la possibilità di ridurre il costo del lavoro e di accedere a nuovi settori ceduti dallo stato alla privatizzazione. D’altro canto, il capitale finanziario vede garantiti i suoi investimenti (grazie alla riduzione del deficit causata dalla distruzione dello stato sociale) e conserva i suoi vantaggi fiscali.

È questa, ovviamente, l’opzione che Emmanuel Macron ha cercato di promuovere con la nomina di Michel Barnier. Ma il suo compito è stato complicato dalla situazione politica. Il problema dell’opzione del compromesso interno per il capitale è che è devastante per la società. In un contesto democratico, e ancor più in quello francese, è politicamente difficile da attuare, nonostante il costante clamore mediatico a favore dell’austerità.

I francesi hanno rifiutato categoricamente le politiche di Emmanuel Macron e chiedono servizi pubblici più forti e salari più dignitosi. È vero che non sono d’accordo su come raggiungere questo obiettivo, ma l’austerità violenta a favore del capitale non ha alcun sostegno nella società.

Logicamente, i partiti di opposizione che desiderano andare al potere non potrebbero accettare questo compromesso interno con il capitale senza perdere tutta la credibilità presso l’elettorato. Ecco perché i tentativi di aggiungere i socialisti o l’estrema destra del Rassemblemenet National a questa opzione erano destinati a fallire. Michel Barnier se ne è subito reso conto e ha cercato di costruire una quarta via: quella che consisteva nel legittimare l’austerità cedendo su determinate misure fiscali.

Questa strategia si poneva a metà strada tra un compromesso interno al capitale e un compromesso tra una fazione del capitale, in questo caso il capitale finanziario, e il mondo del lavoro. Gli aumenti delle imposte che colpiscono il settore produttivo sono stati ridotti e sono stati giustificati tagli importanti alla spesa pubblica. L’obiettivo era costruire una maggioranza politica a favore dell’austerità. La legge finanziaria 2025 che lunedì 2 dicembre non ha ottenuto la maggioranza nel parlamento è il prodotto di questo tentativo.

Ma significava sottovalutare lo stato reale del capitalismo francese. Come è stato detto, in un gioco a somma zero, il compromesso è impossibile. L’opposizione non poteva accettare l’austerità in cambio di aumenti temporanei delle tasse che avrebbero preservato la maggior parte dei guadagni ottenuti dal capitale dal 2017. Ma, da parte sua, il capitale non poteva accettare alcuna concessione, data, come abbiamo visto, la sua situazione.

Negli ultimi due mesi, l’associazione dei datori di lavoro francesi, il Medef, ha gridato allo scandalo per i pochi aumenti fiscali proposti, mentre il capitale finanziario ha fatto pressione sul mercato dei tassi di interesse per una drastica riduzione del deficit. Dal punto di vista politico, ciò si è riflesso nel malumore del campo macronista e nella sua mancanza di entusiasmo nel sostenere l’esecutivo.

Il bilancio è diventato quindi un rompicapo impossibile da risolvere: ogni concessione da una parte ha portato a uno squilibrio che ha fatto perdere al governo la maggioranza o la fiducia dei mercati. L’annunciata caduta in disgrazia di Michel Barnier è un chiaro segno dell’impossibilità di risolvere questa situazione in un quadro parlamentare e democratico.

L’impossibile esito democratico

La conclusione da trarre da questa vicenda è ovvia. In primo luogo, nell’attuale situazione economica, il capitale non è disposto ad accettare alcuna concessione al mondo del lavoro e allo stato sociale. La sua richiesta è una violenta austerità, l’unico modo per mantenere il flusso di denaro dallo stato al capitale produttivo preservando gli interessi del capitale finanziario.

In secondo luogo, nell’attuale contesto non esiste una maggioranza politica a favore di tale politica. Questo è un punto importante: nessun partito di opposizione ha interesse a mantenere Michel Barnier al governo a costo di perdere credibilità prima delle prossime elezioni presidenziali. Questo non ha nulla a che vedere con le politiche future. Non c’è dubbio che il Rassemblement National (ma anche parte del centro-sinistra) sia pronto a realizzare le politiche richieste dal capitale. Ma la posta in gioco per il capitale è garantire la possibilità di riconquistare il potere. Sostenere una tale politica di austerità prima delle elezioni presidenziali sarebbe un suicidio.

Dal punto di vista del capitale, le cose stanno diventando sempre più chiare. Poiché l’austerità sociale è l’unica opzione accettabile per loro e la società non la vuole, deve essere imposta nonostante la società. In altre parole, l’unica politica possibile è una politica autoritaria.

L’attuale crisi politica in Francia riflette questo fatto: la democrazia e il parlamentarismo stanno diventando ostacoli per il capitalismo francese. Naturalmente, questo fenomeno non è nuovo; è il prodotto di un lungo processo in cui, durante i due quinquenni di Emmanuel Macron al potere, l’autoritarismo al servizio del capitale non ha smesso di crescere. Ma con l’avvicinarsi del 2024 non ci sono più dubbi.

Gli esiti possibili sono due. O una sospensione di fatto delle istituzioni democratiche, come è accaduto durante la crisi del debito della zona euro in diversi paesi tra il 2010 e il 2015. In questo caso, l’esito delle elezioni è irrilevante; la pressione dei mercati finanziari spinge le forze politiche ad allinearsi alla politica voluta dal capitale. Un governo tecnico o un governo di unità nazionale potrebbe adottare questa opzione. Ma anche la sinistra può svolgere questo ruolo se necessario, come in Grecia nel 2015 o nello Sri Lanka oggi.

La seconda opzione è quella dell’estrema destra. In questo caso, l’austerità si nasconde dietro una politica di repressione delle minoranze. Nell’attuale gioco a somma zero, una parte del mondo del lavoro può aderire all’opzione favorita dal capitale con l’unico vantaggio di vedere una parte della società trattata peggio di sé.

L’attuale contesto culturale e politico rende questa opzione possibile per la Francia, e una parte del capitale può aderirvi. Ricordiamo che durante la campagna legislativa di giugno, il presidente del RN, Jordan Bardella, ha preparato il terreno con il suo “audit delle finanze pubbliche” prima di qualsiasi politica di austerità severa, che ora intende respingere.

Il contesto francese non è isolato. Conferma che la situazione attuale sta infrangendo l’illusione che capitalismo e democrazia siano inseparabili. Al contrario, la sfida consiste nel prendere coscienza dell’impasse a cui stanno conducendo gli interessi del capitale e nel comprendere che la difesa dello stato di diritto e delle libertà richiede la lotta per una trasformazione economica e sociale di vasta portata.

*articolo apparso su Mediapart il 2 dicembre 2024.