Il 2024 è ormai alle spalle e, tra un paio di settimane, le salariate e i salariati di questo paese (cioè circa il 70% della popolazione attiva) riceverà il nuovo stipendio che dovrebbe accompagnarle/i per tutto il 2025.
Rispetto al 2024 il salario a fine gennaio sarà di poco o nulla superiore. I soliti studi di metà anno ci diranno (come fanno da anni) che “le buste paga sono più pesanti”, anche se poi, un semplice sguardo alla evoluzione dei salari reali negli ultimi 15 anni, ci segnala una sostanziale stagnazione, diventata negli ultimi anni una reale diminuzione dei salari. Secondo l’Ufficio federale di statistica (UST), tra il 2020 e il 2023 i salari sono diminuiti del 3,1% (-0,8% nel 2021; -1,9% nel 2022; -0,4% nel 2023).
Per quel che riguarda l’anno appena trascorso il rincaro – calcolato sul mese di novembre 2024 – è stato dello 0,7%. Naturalmente questo indice, quello dei prezzi al consumo, misura solo l’evoluzione dei prezzi e non l’aumento del costo della vita. Come noto, ad esempio, in questo indice non sono considerati gli aumenti dei premi di cassa malati (o le imposte) che negli ultimi anni hanno pesato molto su salari e redditi.
L’UST calcola da qualche anno un indice dei premi di cassa malati e quanto la loro evoluzione pesi sul potere d’acquisto di redditi e salari. Ebbene, questo indice (denominato IPAM), nel 2023 ha comportato una perdita del potere d’acquisto dello 0,4 e nel 2024 dello 0,5%.
In altre parole, un rincaro per il 2025 inferiore all’1,2 -1,3% rappresenterà un ulteriore handicap che si aggiungerà a quel 5% già perso negli ultimi anni.
A conti fatti…
Non vogliamo (e non possiamo) fare un calcolo complessivo di quanto ottenuto con gli adeguamenti salariali validi dal 1° gennaio 2025. Ci limitiamo quindi in questa sede ad alcuni sondaggi relativi ad importanti settori: ebbene, tutti ci mostrano che siamo confrontati con un ulteriore passo indietro per il potere d’acquisto.
Cominciamo con i lavoratori e le lavoratrici della grande distribuzione. Da sole Migros e COOP occupano in Svizzera più di 150’000 persone. Migros ha concesso tra l’1% e l’1,3% a seconda del livello salariale (praticamente in media 50 franchi al mese); COOP ha concesso l’1%. Non molto meglio le altre grandi catene di distribuzione: Aldi, ad esempio, ha messo a disposizione l’1,3% della massa salariale.
Un settore importante, come quello dell’edilizia dovrà accontentarsi – dopo che lo scorso anno i lavoratori non avevano ottenuto nulla – di un aumento dell’1,4%, cioè 70 fr. mensili per tutti. Ricordiamo che la rivendicazione dei sindacati del settore (UNIA e Syna) era di un aumento di 250 franchi al mese.
In altri settori (da quello dell’industria delle macchine MEM a quello di diversi settori artigianali o della ristorazione) non si è andati, nel migliore dei casi, al di là della compensazione del rincaro dell’anno appena trascorso.
Non meglio il settore pubblico, dove la Confederazione ha concesso un adeguamento dell’1% e i Cantoni non si sono spinti al di là della compensazione del rincaro ufficiale.
Siamo quindi ben lontani dal 4 o 5% lanciato come rivendicazione fondamentale nel mese di settembre dai sindacati; è verosimile che la perdita del potere d’acquisto subita negli ultimi anni aumenterà ulteriormente.
Annunci sindacali, come sempre, roboanti
Come ormai tradizione, le organizzazioni sindacali avevano annunciato a fine estate le loro rivendicazioni per gli adeguamenti salariali di fine anno e promesso un “autunno caldo”. È uno scenario che si ripete da diversi anni con miserabili risultati.
Ricordiamo, ad esempio, che le organizzazioni sindacali (USS e SYNA) avevano chiesto aumenti salariali tra il 3 e il 5% per il 2023 nell’agosto del 2022; proposta reiterata nel settembre 2023 per il 2024: “E’ giunto il momento di aumenti generali di circa il 5 per cento nelle attuali trattative salariali. Chi ha concluso un apprendistato deve guadagnare almeno 5000 franchi al mese” tuonava il parolaio Pierre-Yves Maillard – presidente dell’USS nella conferenza stampa del settembre 2023. Passa un anno e lo scenario è sempre lo stesso. Nella conferenza stampa del 2 settembre 2024, i dirigenti delle maggiori federazioni dell’USS ricordavano che “…negli ultimi anni si è accumulato un ritardo dei salari superiore al 5%”. Il segretario generale Daniel Lampart sottolineava che “le persone a basso e medio reddito guadagnerebbero ora da 300 a 500 franchi in più al mese se il potenziale di crescita dei salari fosse stato sfruttato”. La rivendicazione generale vedeva l’USS (così come i sindacati cristiani) rivendicare a partire dal 2025 aumenti salariali tra il 4 e il 5%.
Dalle parole…alle parole
Simili importanti rivendicazioni necessitano, affinché possano concretizzarsi, di una grande pressione sociale da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, nonché delle loro organizzazioni. È così che funziona qualsiasi strategia sindacale degna di questo nome.
Si tratta di una strategia che può passare attraverso tappe progressive, dalle manifestazioni al di fuori degli orari di lavoro a quelle durante gli orari di lavoro; dalle manifestazioni di piazza agli scioperi aziendali, di categoria, regionali. L’obiettivo è cercare, nelle forme diverse, di mettere in movimento, di mobilitare i salariati e le salariate: unico elemento decisivo per smuovere il padronato dalla proprio posizione che, quasi sempre, parte dall’idea che i salari non debbano essere adeguati o, se proprio bisogna farlo, gli adeguamenti siano ridotti al minimo indispensabile, costino il meno possibile, coscienti che quel che va ai salari non va ai profitti.
Ebbene, facendo passare questi ultimi anni e concentrandoci proprio sulla ricerca di azioni tese a far pressione sui datori di lavoro, difficilmente troveremmo mobilitazioni significative e inserite in una continuità tesa a stabilire un rapporto di forza.
Alle conferenze stampa annuali nelle quali i sindacati hanno annunciato, per restare agli ultimi tre anni, rivendicazioni di adeguamenti salariali pari a circa il 15% sono seguite soltanto le tradizionali manifestazioni di inizio settembre – e di sabato – a Berna.
Le due ultime – il 16 settembre 2023 e il 21 settembre 2024 – hanno visto migliaia di persone a Berna manifestare a sostegno di aumenti salariali (in realtà nella manifestazione del 2024 c’era un po’ di tutto: dalla rifiuto della riforma della LPP al tema dei premi di cassa malati). Ma il tutto si è fermato lì.
Non si sono viste, né lo scorso anno né in quelli precedente, azioni, mobilitazioni, men che meno scioperi; una strategia che avesse come obiettivo di piegare in qualche modo la resistenza padronale. Come si poteva pretendere, allora, che i padroni, pubblici e privati, concedessero qualcosa in più?
Sindacalismo, quo vadis?
La debolezza sindacale è da tempo manifesta. Una debolezza che si caratterizza sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.
Per quel che riguarda la “rappresentatività” numerica (l’aspetto quantitativo), basterà qui ricordare che la maggiore confederazione sindacale del paese (l’USS) conta oggi poco più di 300’000 iscritti (e questo grazie anche all’affiliazione recente di alcune nuove federazioni): circa trent’anni fa, verso la fine degli anni ’90, contava più di 400’000 membri. Tutto questo in un contesto che ha visto la popolazione attiva aumentare in modo importante. Infatti, alla fine degli anni ’90 la popolazione attiva (in grandissima parte composta da salariate/i) in Svizzera era di poco inferiore ai 4 milioni: oggi si contano 5,3 milioni di persone attive. In sintesi, negli ultimi 25/30 anni abbiamo assistito ad un aumento di circa il 25% della popolazione attiva e ad una diminuzione pure di circa il 25% del numero degli iscritti alla maggiore confederazione sindacale del paese. Se allargassimo il confronto coinvolgendo le federazioni minori (sindacati cristiani – Travail suisse – e altre piccole entità) la situazione non muterebbe.
Ma è sicuramente sul terreno della “qualità” che la crisi del movimento sindacale si manifesta, ormai da tempo, in modo drammatico. Alla ripresa di un sindacalismo perlomeno attivo rappresentato dal Sindacato Edilizia e Industria (SEI) tra gli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, è seguito un declino iniziato con la fusione dei SEI e FLMO (la federazione dei metalmeccanici, “tenutaria” della tradizionale politica di pace del lavoro) e un allinearsi (con qualche eccezione – pensiamo in particolare ad alcuni settori del sindacato dei servizi pubblici SSP/VPOD in Svizzera romanda) ad una politica di “concertazione” attiva di tutto il movimento sindacale. Attiva non certo nel senso di un ricorso sistematico alla mobilitazione dei salariati e delle salariate, ma nel tentativo di costruire un’immagine (attraverso una buona comunicazione, il ricorso a strumenti quali iniziative e referendum, ad azioni isolate stile Greenpeace, etc.) di combattività che, tuttavia, resta solo come immagine e non influisce concretamente nella modificazione dei rapporti di forza con il padronato.
A questo si è aggiunto lo sviluppo di una logica di “fornitore di servizi” per i propri membri (dalla protezione giuridica al perfezionamento professionale, dalla compilazione della dichiarazione delle imposte a buoni vacanza ed altre prestazioni) che ha contribuito a cancellare ulteriormente il riferimento a qualsiasi variante della lotta di classe.
Per tornare al punto di partenza, quello delle trattative salariali, esse diventano una sorta di esercizio segreto e retorico (sono sempre “durissime” nei resoconti dei negoziatori) con il quale il “bravo” sindacalista dovrebbe riuscire a “convincere” (appunto con un esercizio di alta retorica) il riluttante rappresentante padronale a concedere i meritati adeguamenti salariali (o altre richieste).
È una visione del mondo nel quale la realtà degli interessi antagonistici tra capitale e lavoro scompare e nel quale il sindacalismo ufficiale si è ormai ridotto al ruolo di accompagnatore del declino di salari, condizioni di lavoro, diritti di chi per vivere è costretto ogni giorno a vendere la propria forza lavoro.
Eppur si muove…
L’immobilismo e il declino non possono essere il destino a cui sono condannati i salariati e le salariate di questo paese (ed anche per altri paesi nei quali – pur partendo da tradizioni diverse e ben più combattive – abbiamo potuto constatare la stessa dinamica).
All’interno e al di fuori del sindacalismo tradizionale vi sono settori e movimenti che mostrano la possibilità di costruire, partendo dal basso, mobilitazioni che tentano (e a volte riescono anche, magari parzialmente) di istituire rapporti di forza a favore delle rivendicazioni dei salariati e delle salariate.
Pensiamo, ad esempio, a diverse lotte e mobilitazioni che hanno visto protagonisti – negli ultimi anni – settori del sindacato SSP/VPOD della Svizzera romanda per restare nell’ambito del sindacalismo ufficiale; o, ancora, alla bella esperienza con la quale i lavoratori e le lavoratrici delle acciaierie in Svizzera tedesca (e con il sostegno di Unia) sono riusciti a mobilitare una regione e anche parte della classe politica a sostegno dell’occupazione nel settore coniugando preoccupazioni economiche e ambientali.
O, più vicina noi, l’esperienza di ErreDiPi che, nel volgere di un paio di anni, ha saputo costruire una mobilitazione e una rappresentanza – certo ancora fragile – su temi sui quali il sindacalismo ufficiale aveva fin lì fallito.
Sono tutti esempi parziali ma significativi di come un’altra via per la difesa delle condizioni di lavoro di chi vive del proprio salario e dei suoi diritti sia possibile; ma solo partendo dal basso, dalla costruzione di percorsi che vedano i salariati e le salariate costantemente protagonisti, con la convinzione che solo l’azione diretta dei salariati e delle salariate può permettere di fare passi avanti concreti e significativi nella difesa delle rivendicazioni e dei diritti di chi lavora.