Die Linke ha conseguito sicuramente un importante successo elettorale nelle elezioni tedesche di domenica 23 febbraio. Ma questo successo non è ancora la garanzia che possa rispondere in modo adeguato alle sfide del futuro, superando pratiche e orientamenti che l’avevano portata ad una crisi quasi esistenziale. L’articolo di Loren Balhorn, scritto alcuni giorni prima delle elezioni, si interroga sul futuro di Die Linke. (Red)
***********************************
Quando l’ex leader di Die Linke, Sahra Wagenknecht, e i suoi sostenitori hanno lasciato il partito per formare il proprio nell’ottobre 2023, entrambe le parti sembravano convinte che ne sarebbero stati i principali beneficiari.
I leader dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW) speravano che, finalmente liberati dal “lifestyle di sinistra” dei loro ex compagni, avrebbero potuto raggiungere l’ampio ceto medio della società e riconquistare gli elettori disillusi che erano passati all’estrema destra dell’Alternativa per la Germania (AfD). I leader di Die Linke hanno affermato che ora avrebbero potuto riconquistare coloro che avevano abbandonato il partito a causa della presunta xenofobia di Wagenknecht e uscire finalmente dalla spirale discendente in cui il partito aveva visto il suo consenso nei sondaggi scendere al 3%, ben al di sotto della soglia del 5% necessaria per rimanere in Parlamento.
All’inizio, il BSW sembrava aver valutato in modo più realistico il suo potenziale elettorale. Ha sottratto centinaia di migliaia di voti ai suoi ex compagni in occasione delle elezioni europee e di quelle regionali del 2024 e ha raggiunto il 10% nei sondaggi nazionali, mentre Die Linke ha registrato i suoi peggiori risultati. Allo stesso tempo, Die Linke ha lanciato una nuova identità visiva, eletto una nuova direzione (tra cui un ex caporedattore di Jacobin) e migliorato sensibilmente la sua presenza digitale, rimanendo però ferma al 3%, sempre più relegata in secondo piano dai media.
Nelle ultime settimane, tuttavia, la tendenza sembra essersi invertita. Per la prima volta da anni, diversi sondaggi attribuiscono a Die Linke il 5 o il 6 per cento, e decine di migliaia di nuovi membri si sono uniti al partito, di cui circa 11.000 nel solo mese di gennaio. Due settimane prima delle elezioni del 2025, il BSW e Die Linke sono improvvisamente testa a testa nei sondaggi, e i grandi media iniziano a parlare con cautela di un “ritorno” per un partito che, fino a pochi mesi prima, veniva menzionato solo in termini di declino e inevitabile estinzione.
Da cosa è alimentato questo nuovo spirito combattivo? Contrariamente alle (comprensibili) affermazioni dei dirigenti secondo cui la concordia regna all’interno del partito da quando BSW se ne è andato, le profonde divisioni strategiche e politiche non sono state superate. Ciò è particolarmente evidente su Gaza, dove una minoranza ristretta ma persistente di parlamentari continua a sostenere apertamente Israele, andando così contro la posizione ufficiale del partito, della sinistra internazionale e della maggior parte degli esperti di diritto internazionale.
Anche i fedeli del partito non si sono veramente uniti attorno ad una strategia coerente: mentre uno slogan della campagna elettorale di Die Linke afferma “tutti vogliono governare, noi vogliamo cambiare le cose”, nello Stato di Sassonia, nella Germania orientale, il minuscolo gruppo parlamentare di Die Linke, decimato dopo il peggior risultato elettorale mai registrato lo scorso settembre, ha deciso di tollerare un governo di minoranza guidato dai cristiano-democratici (CDU).
Sembrerebbe quindi che la svolta sia alimentata più da un comune desiderio di sopravvivenza che da una percezione più chiara degli obiettivi politici, nonché da una congiuntura politica relativamente favorevole. Il partito ha beneficiato della svolta a destra della politica migratoria in tutto lo spettro politico, compreso il BSW, nonché della decisione di quest’ultimo di partecipare a due governi regionali a meno di un anno dalla propria fondazione. Mentre il sostegno all’AfD aumenta di giorno in giorno, Die Linke beneficia di un impeto inaspettato da parte degli elettori (e dei nuovi membri) costernati all’idea di perdere un’opposizione parlamentare di sinistra.
È una piccola ironia della storia che un’impennata dell’estrema destra possa rivelarsi l’ancora di salvezza della sinistra, ma non sempre si può scegliere. Se Die Linke dovesse ottenere un successo a sorpresa il 23 febbraio, ciò potrebbe offrirle l’opportunità di ripensarsi e ricostruirsi. Ma ciò avverrà solo se eviterà di tornare allo schema dell’ultimo decennio.
La vertigine del successo
Come molte delle sue controparti tra i partiti europei della “nuova sinistra”, Die Linke è stata fondata su un programma che consisteva principalmente nell’opposizione alle riforme del mercato del lavoro attuate da un governo di centro-sinistra, all’economia neoliberista e alle guerre distruttive e illegali condotte contro l’Iraq e l’Afghanistan. I suoi obiettivi politici, per non parlare del modo con cui raggiungerli, rimanevano molto più vaghi.

Le due componenti che si sono fuse per formare Die Linke nel 2007 provenivano da ambienti molto diversi. Lavoro e giustizia sociale – l’Alternativa elettorale (WASG) era una scissione del Partito socialdemocratico (SPD) al potere, da cui si era allontanata a causa del suo bilancio di governo sotto Gerhard Schröder. Per loro, qualsiasi nuova formazione doveva inevitabilmente distinguersi nettamente dai loro ex compagni. Al contrario, gli ex comunisti del Partito del Socialismo Democratico (PDS) avevano passato quindici anni a cercare di prendere le distanze dal bilancio della Germania dell’Est, e molti di loro probabilmente sarebbero entrati a far parte della SPD dopo la riunificazione tedesca se ne avessero avuto la possibilità. Governare con la SPD, come hanno fatto a Berlino e nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore negli anni 2000, è diventato l’orizzonte delle loro ambizioni politiche, almeno in pratica, se non in teoria.
Colmare questo divario si sarebbe rivelato inevitabilmente difficile. Ma la questione di come Die Linke dovesse posizionarsi rispetto al centro-sinistra è stata inizialmente risolta nella pratica dal rifiuto da parte della SPD e dei Verdi di prendere in considerazione qualsiasi forma di cooperazione con loro. L’allora leader di Die Linke, Oskar Lafontaine, ex membro della SPD, ha cercato di formulare una risposta politica sotto forma di quelle che ha chiamato le «linee rosse», un insieme di requisiti minimi per entrare a far parte del governo.
Non è un caso che Die Linke abbia raggiunto il suo apice in quel periodo, essendo l’unica opposizione politica significativa allo zelo neoliberista che stava allora prendendo il sopravvento sulla corrente politica dominante. Die Linke ha conquistato un parlamento statale dopo l’altro e, in pochi anni, ha acquisito una presenza istituzionale che aveva poco a che fare con il suo reale peso sociale o la sua forza organizzativa.
Ma questa configurazione non doveva durare, come simboleggiato dalle dimissioni a sorpresa di Lafontaine dalla direzione del partito nel 2010. I progressi elettorali di Die Linke si sono bloccati e si sono rapidamente trasformati in un lungo e lento arretramento. Nel frattempo, il partito non è stato in grado di trovare una risposta comune alla situazione. Nessuno dei successori di Lafontaine e del co-leader Gregor Gysi è riuscito a unire il partito attorno a una strategia comune.
In alcuni Stati, Die Linke ha aderito o addirittura guidato governi regionali le cui politiche erano praticamente identiche a quelle della SPD. In altri, è rimasta una presenza parlamentare marginale, ampiamente limitata all’agitazione e alla propaganda. Mentre Syriza in Grecia o il partito laburista di Jeremy Corbyn conoscevano un’ascesa vertiginosa, Die Linke ha continuato a navigare negli anni 2010 in una serie di alleanze mutevoli tra fazioni rivali con idee politiche a volte molto diverse, sempre più legate alle routine e alle risorse finanziarie del Parlamento stesso, fino a quando la sua quasi totale sconfitta nel 2021 ha mostrato chiaramente che qualcosa non andava.
Dietro le quinte
Non si può fare a meno di chiedersi se il successo iniziale di Die Linke non sia stato in parte un regalo avvelenato: mentre la giovane organizzazione aveva bisogno di dirigenti locali competenti ed entusiasti per costruire strutture e sviluppare una cultura politica vivace, molti dei suoi elementi migliori sono stati attratti dall’apparato parlamentare, spesso a scapito della costruzione del partito sul terreno. Sebbene Die Linke sia stata per un breve periodo la terza forza politica del paese in termini di numero di iscritti, una parte sproporzionata di questi membri erano pensionati. Era chiaro fin dall’inizio che avrebbe perso rapidamente lo slancio iniziale senza un serio rafforzamento della sua base.
Il Parlamento è un’arena cruciale di conflitto politico in ogni democrazia capitalista, ma è anche intrinsecamente sbilanciato contro le forze che cercano di far avanzare gli interessi della classe lavoratrice a scapito di quelli delle élite possidenti. Per questo motivo, i partiti socialisti hanno sempre storicamente combinato le campagne elettorali con l’organizzazione sui posti di lavoro e nelle comunità per rafforzare le loro forze dentro e fuori il Parlamento. I governi possono facilmente aggirare un voto parlamentare o persino un referendum, come dimostrato alcuni anni fa dalla campagna di Berlino per espropriare le società immobiliari private. D’altra parte, un’organizzazione permanente in grado di minacciare scioperi e mobilitazioni di massa non può essere ignorata così facilmente.
Die Linke non ha mai perseguito seriamente questo tipo di strategia duale, almeno non in modo coerente, e non è emersa alcuna visione unificata della costruzione del partito. Probabilmente molti dei suoi eletti non erano molto interessati a una tale strategia fin dall’inizio, ma avevano anche un argomento convincente dalla loro parte: entrare a far parte di coalizioni di governo era una prospettiva molto più immediata e tangibile dell’astratto proposito di costruire un potere di classe al di fuori dello Stato. Infatti, non a caso, la Germania è un paese in cui i partiti a sinistra della SPD sono marginali dagli anni ’50.

Non tutti i membri del partito hanno accettato senza batter ciglio questa deriva parlamentare. Ma le iniziative organizzative a favore di una strategia più interventista, come la “Partei connectiv” o la “Partei der Aktiven” (per citare due slogan degli anni 2010), sono rimaste timide e paralizzate da un apparato di partito ereditato dal PDS, ampiamente strutturato attorno a imperativi parlamentari.
«Linksaktiv», il primo tentativo di Die Linke di costruire un partito, illustra bene questo dilemma: mentre un team di permanenti, stagisti e volontari organizzava decine di corsi di formazione per gli organizzatori al fine di utilizzare la campagna elettorale del 2009 come strumento di reclutamento, un’altra sezione dell’apparato del partito lanciava un bizzarro social network con lo stesso nome – un’imitazione a buon mercato di Facebook per i sostenitori del partito, presto dimenticata. Le iniziative dell’ex campo di Wagenknecht, in particolare la famigerata campagna “Aufstehen” che pretendeva di rappresentare una mobilitazione multipartitica per la giustizia sociale, hanno cercato di risolvere lo stesso dilemma copiando modelli stranieri di successo.
L’evoluzione del partito negli ultimi quindici anni non è quindi tanto il risultato di una “imborghesimento”, come potrebbero sostenere alcuni critici di sinistra, quanto di una progressiva domesticazione, legata in gran parte all’inerzia istituzionale. Sulla carta, le posizioni del partito non si sono spostate verso destra in quanto tali, ma il divario tra retorica e pratica si è ampliato. In assenza di un’alternativa tangibile, ha prevalso il pragmatismo parlamentare, associato a un radicalismo verbale astratto e a una politica di guerra culturale alla moda, che riflette l’evoluzione della composizione dei membri.
Questa deriva ha a sua volta minato progressivamente la rivendicazione di Die Linke del voto di protesta e quindi le sue possibilità elettorali. Non è un caso che, proprio quando questo circolo vizioso sembrava giungere al termine, diversi membri di spicco della cosiddetta ala “riformista” abbiano annunciato le dimissioni o il pensionamento anticipato alla fine dello scorso anno. Semplicemente non avevano più nulla da guadagnare in un partito che si stava avvicinando all’estinzione elettorale.
Il migliore della classe
Col senno di poi, si può dire che la presenza istituzionale smisurata di Die Linke ha avuto l’effetto di mascherare le sue fragili fondamenta e di ritardare la consapevolezza che era necessario un cambiamento più radicale. Non sapremo mai se la parte avrebbe potuto essere trasformata in un partito dei lavoratori in quel momento, ma ora che sembra uscire dal fango, forse è possibile provare ad andare in quella direzione.
Anche prima dell’inversione di tendenza delle ultime settimane, alcuni avevano invitato Die Linke a ispirarsi ai successi di partiti fratelli come il Partito del Lavoro del Belgio (PTB) e a concentrarsi sulla sua presenza nelle comunità operaie e sul sostegno alle lotte sindacali. Queste voci hanno ricevuto un grande sostegno durante il recente congresso del partito lo scorso ottobre, anche se si inseriscono solo in una direzione molto più ampia. Il loro successo deve essere accolto con favore, ma gli innovatori hanno ancora molta strada da fare – dopo tutto, il divario tra Die Linke e la classe lavoratrice tedesca non è mai stato così grande.
In un recente studio condotto per la Fondazione Rosa Luxemburg, vicina al partito, il sociologo Carsten Braband mostra come il sostegno elettorale di Die Linke tra gli operai (blue collars) e gli impiegati dei servizi sia andato costantemente diminuendo dalla sua fondazione, passando da quasi il 20% nel 2009 al 3 o 4% di oggi. Sebbene non siano disponibili dati comparabili sulla composizione dei membri, si può immaginare che la tendenza sia la stessa. Come potrebbe essere altrimenti? L’attivismo politico nelle democrazie capitaliste sviluppate è stato a lungo appannaggio della classe media, una tendenza contro cui le organizzazioni di sinistra non sono affatto immuni.
Anche il numero di sindacalisti tra i membri e gli elettori di Die Linke è diminuito quasi ininterrottamente. Ciò riflette sia l’assenza di una strategia sindacale da parte della dirigenza, sia il crescente disinteresse di Die Linke per i sindacati, man mano che il suo peso parlamentare diminuisce.
Il loro posto è stato preso da nuovi membri e responsabili a tempo pieno, la maggior parte dei quali proviene dalla classe media professionale, o da quelli che Braband chiama “esperti socioculturali”. A causa della loro socializzazione, i membri di questo ambiente tendono ad adottare il tipo di politica che è diventato comune nelle democrazie capitaliste in generale: le “campagne”, l’attivismo sui social network, i flash mob e, in ultima analisi, il parlamentarismo. La loro estetica può differire da quella dei tradizionalisti, ma è lo stesso modello di scarsa mobilitazione.
Lentamente, sembra che ci si stia rendendo conto che lo status quo non è più sostenibile. Per invertire la tendenza attuale, sarebbe tuttavia necessario un impulso concertato da tutto il partito, che si tradurrebbe anche in una modifica delle priorità in materia di organizzazione e formazione dei membri. L’esempio spesso citato del PTB belga, che dagli anni 2000 è passato da una micro-partito di poche centinaia di persone a una piccola “partito di massa” di circa 25.000 membri, suggerisce che una tale trasformazione è almeno possibile.
Tuttavia, la lezione più importante da trarre da questa esperienza belga è probabilmente che la costruzione di un partito richiede tempo. Per decenni, il PTB ha combattuto ai margini della vita politica, identificando e organizzando strategicamente campagne energiche su questioni divisive e formando sistematicamente quadri del partito in un modo che semplicemente non ha tradizione all’interno di Die Linke. I recenti successi elettorali dei compagni belgi non sono stati il catalizzatore di un’organizzazione più ampia, ma il risultato di essa.
Per Die Linke, un tale cambiamento di rotta significherebbe essenzialmente ripartire da zero, senza la disciplina politica e la coerenza ideologica che caratterizzano i piccoli partiti come il PTB della generazione precedente. Ciò comporterebbe un notevole ridistribuzione delle risorse e del personale senza garanzie di guadagni a breve termine, e si scontrerebbe quindi probabilmente con una forte resistenza interna. Il ritorno in parlamento darebbe qualche anno di tregua per intraprendere un’impresa del genere.
Ciò significherebbe anche che alcuni degli elementi più refrattari al cambiamento rimarrebbero al loro posto. È quindi particolarmente importante che la nuova direzione si dimostri tenace e resistente alla tentazione di scendere a compromessi alla prima occasione, per paura che il ciclo di declino ricominci dopo le elezioni.
Su un terreno accidentato
Le ultime settimane di campagna, e in particolare l’impressionante aumento del numero di membri di Die Linke, sono tuttavia motivo di cauto ottimismo. Alle contraddizioni esistenti si aggiungono nuove sfide: i due governi dei Länder in cui è ancora presente Die Linke hanno poche possibilità di sopravvivere alle prossime elezioni, e la forza istituzionale della vecchia guardia probabilmente continuerà a diminuire, spiazzata dal massiccio afflusso di giovani membri negli ultimi mesi. Inoltre, l’attuale forza del BSW nelle ex roccaforti della Die Linke nella Germania dell’Est significa che un ritorno allo status quo sarà impossibile. Il partito non avrà altra scelta che esplorare nuove strategie.
Nessuna di queste evoluzioni garantisce che Die Linke stia diventando un partito socialista radicato nella classe lavoratrice. Tuttavia, ci sono ragioni per credere che una strategia di sinistra incentrata sulla costruzione del partito e su campagne su questioni legate alla classe lavoratrice possa avere successo oggi. Il BSW può rappresentare una minaccia esistenziale per Die Linke in queste elezioni, ma l’approccio politico di questo partito non prevede in alcun modo la costruzione di un’organizzazione di classe o di una politica al di fuori del parlamento. La sua alleanza strategica con settori delle piccole e medie imprese renderebbe del resto poco praticabile una tale impostazione, per non dire altro.
In questo senso, il campo è aperto. Anche se il terreno politico non è ideale, in Germania non mancano i temi attorno ai quali un partito socialista possa riunire le persone. L’esplosione dei canoni di locazione – l’unico argomento su cui Die Linke ha ottenuto un successo significativo negli ultimi anni – è la scelta più ovvia, ma ce ne sono altre. La complicità della Germania nella guerra di Israele a Gaza, che tutti, dall’AfD all’SPD passando per i Verdi, sostengono senza riserve, sarebbe un altro argomento su cui una sinistra combattiva potrebbe imporsi in un panorama politico sempre più congestionato.
Considerati i risultati poco impressionanti di Die Linke, un pessimista potrebbe concludere che una politica socialista è impossibile in Germania – e spesso si può avere questa impressione. Una visione un po’ più ottimistica sarebbe che Die Linke, nonostante tutti i suoi difetti, ha dimostrato che le idee socialiste attraggono una parte importante della popolazione tedesca, ma che le strutture istituzionali di cui ha ereditato si sono rivelate troppo deboli o inadeguate per tradurre questa attrazione in un’organizzazione significativa.
Data la mancanza di alternative, Die Linke rimarrà un punto di riferimento centrale per la politica socialista in Germania, qualunque cosa accada il 23 febbraio. Nella migliore delle ipotesi, potrà vantare una debole ma rumorosa opposizione parlamentare e decine di migliaia di nuovi membri molto motivati a mettersi al lavoro. Tuttavia, tutto questo avrà importanza solo se utilizzerà questa nuova opportunità per non limitarsi a copiare gli slogan dei suoi vicini più prosperi e continuare a fare finta di niente, ma per chiarire finalmente le sue priorità politiche e sviluppare una vera strategia per perseguirle.
*Articolo pubblicato per la prima volta da Jacobin.