In un recente incontro con il presidente del Senato Davi Alcolumbre (União Brasil), il presidente Lula ha spiegato per la prima volta il suo sostegno alla prospezione petrolifera lungo la fascia equatoriale dell’Amazzonia, un territorio marittimo che si estende da Amapá (lo stato di Alcolumbre) al Rio Grande do Norte.
Nonostante l’opposizione degli ambientalisti a questa esplorazione, compresa la ministra dell’Ambiente Marina Silva, e la resistenza dell’Ibama (Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili) a rilasciare l’autorizzazione per l’inizio delle ricerche di prospezione, Lula è sempre stato a favore del progetto e ha appena fatto un passo decisivo in questo sostegno. Questa azione si inserisce nel contesto della nuova presidenza del negazionista Donald Trump negli Stati Uniti e della sua lotta contro la transizione energetica, favorendo l’industria dei combustibili fossili che ha finanziato gran parte della sua campagna. Nonostante le enormi differenze tra il presidente brasiliano e quello americano, lo slogan di Trump “Drill, drill, drill!” trova eco in Brasile con le nuove dichiarazioni di Lula e potrebbe mettere ancora più a rischio il bioma amazzonico già così minacciato.
L’idea del governo è di portare avanti questo processo il più possibile all’inizio del 2025 per evitare di dover pagare un eccessivo prezzo politico di tale misura in vista della COP30 che si terrà a Belém a novembre. Tutto questo mentre il suo alleato Helder Barbalho (MDB), governatore del Pará, deve affrontare un’importante mobilitazione indigena in difesa dell’attuale sistema educativo per i popoli indigeni; è prevedibile che quest’anno sarà caratterizzato da mobilitazioni ambientaliste, mentre gli occhi del mondo saranno puntati sul paese ospitante la COP30.
Perché opporsi all’estrazione di petrolio alla foce del Rio delle Amazzoni?
I motivi per cui l’intero movimento ambientalista si oppone alla ricerca di petrolio e gas nella regione sono molteplici. La regione ospita una biodiversità estremamente ricca ed è abitata da popolazioni indigene e comunità rivierasche che subirebbero gli effetti diretti di tale misura. I sistemi costieri e marini situati intorno alla foce del Rio delle Amazzoni ospitano una biodiversità unica al mondo. Si tratta di un territorio strategico per la conservazione, che concentra l’80% della copertura di mangrovie del paese.
Sono già stati perforati quasi 100 pozzi nella regione, senza alcun ritrovamento significativo. Inoltre, tra il 2011 e il 2022, in Brasile si è verificato quasi un incidente all’anno legato all’estrazione di petrolio e prodotti petroliferi. Nel 2019, uno dei principali incidenti ha interessato più di 1’000 siti in 130 comuni di 11 stati del nord-est e sud-est del Brasile, interessando la costa per quasi 4’000 chilometri e sono state raccolte più di 5’000 tonnellate di rifiuti.
L’Istituto Mapinguari sottolinea che le ricerche per individuare giacimenti petroliferi sulla fascia equatoriale comportano la perforazione di pozzi e la raccolta di materiali, procedimenti che possono provocare incidenti ambientali irreversibili. Uno dei problemi principali è il tempo di risposta a eventuali perdite. Secondo gli studi condotti da questo istituto, Petrobras prevede di avere 43 ore di tempo per contenere una marea nera, ma in sole 10 ore il petrolio raggiungerebbe le acque internazionali, fino alla Guyana francese.
Oltre alla catastrofe ambientale, l’impatto sociale di un tale scenario sarebbe incommensurabile e colpirebbe principalmente le popolazioni tradizionali che perderebbero le loro condizioni elementari di sussistenza. Va anche ricordato che in questi casi i risarcimenti non sono mai sufficienti a riparare tali conseguenze, poiché l’impatto è già preventivamente valutato dalle compagnie estrattive. Se esistesse una politica di risarcimento veramente equa per le persone più colpite, questo tipo di sfruttamento probabilmente non sarebbe economicamente sostenibile.
Anche le prospettive economiche dello sfruttamento sono incerte. Sebbene le stime suggeriscano la presenza di 30 miliardi di barili di petrolio nella regione, il passato recente suggerisce uno scenario meno ottimistico. Dei 94 pozzi già perforati alla foce del Rio delle Amazzoni, solo il 2% ha registrato la presenza di carburante, e in volumi così bassi che l’estrazione non si è rivelata economicamente sostenibile. Inoltre, diversi tentativi precedenti sono stati interrotti a causa di difficoltà tecniche e di forti correnti marine che hanno spostato le piattaforme di perforazione.
Chi trarrebbe vantaggio dall’esplorazione petrolifera in Amazzonia?
La motivazione principale per correre così tanti rischi è di natura economica. Secondo il governo, le riserve – stimate in 30 miliardi di barili di petrolio alla foce del Rio delle Amazzoni – potrebbero generare entrate per 1’000 miliardi di reais [160 miliardi di dollari USA], una cifra che dovrebbe compensare i rischi e i danni collaterali dell’esplorazione. Tuttavia, una tale posizione è fallace, e non solo a causa dell’incertezza sulle riserve di cui abbiamo detto qui sopra.
Petrobras dispone oggi di riserve sufficienti per i prossimi 12 anni ed è possibile aumentare la produzione nella zona pre-salifera già in fase di sfruttamento. Inoltre, le royalties presentate come un beneficio per i siti sfruttati non sono realmente un “pagamento” agli Stati e ai comuni interessati, ma una compensazione per gli impatti socio-ambientali che questa attività estrattiva comporta necessariamente. Diverse regioni brasiliane che già ricevono questo “pagamento” soffrono dei problemi ambientali causati dall’estrazione e continuano a mostrare un basso livello di sviluppo sociale, come il nord di Rio de Janeiro e la costa nord di San Paolo; per contro, le compagnie petrolifere continuano a macinare profitti stratosferici che vanno principalmente a beneficio dei loro grandi azionisti.
Nel bel mezzo di una crisi climatica globale che provoca grandi tragedie e influenza sempre più la vita quotidiana di tutti, l’appello per una transizione energetica giusta è all’ordine del giorno dei movimenti sociali più diversi, che chiedono un cambiamento del modello di produzione di energia che si basi sempre meno sui combustibili fossili. Il capitalismo globale ha già identificato questa necessità e cerca di commercializzare le possibilità di uscita dalla crisi attraverso un mercato dei crediti di carbonio che genera profitti ma ha un impatto molto limitato sulle emissioni di CO2 all’origine del problema climatico. Proponendo una remunerazione per i paesi meno inquinanti, questo progetto mira soprattutto a garantire il mantenimento delle emissioni delle economie più inquinanti e non tocca la questione centrale del riscaldamento globale.
Ma ciò che il governo Lula propone è ancora più regressivo e assai più vicino alla politica di Trump che al cosiddetto “capitalismo verde”. Il suo obiettivo principale è quello di soddisfare gli investitori che traggono profitto non solo dallo sfruttamento dei combustibili fossili, ma anche dalla speculazione sulle riserve potenziali. Lula riafferma così il suo impegno a favore degli interessi della grande borghesia a scapito di gran parte della popolazione che lo ha eletto.
Alla vigilia della COP30, è urgente unire i movimenti sociali e i diversi settori popolari attorno a una politica che si opponga ai nuovi attacchi del capitale contro l’ambiente e le popolazioni più vulnerabili. La dichiarazione dello stato di emergenza climatica, che garantisce obiettivi reali nella lotta contro la crisi climatica, è una tappa essenziale, così come la mobilitazione contro qualsiasi progetto di estrazione predatoria. Il tempo stringe e le risposte concrete a questa domanda possono venire solo dalle comunità e dai lavoratori più colpiti dal cambiamento climatico.
*L’articolo, pubblicato il 5 febbraio 2025 dalla rivista Movimento, ha utilizzato i dati del sito ClimaInfo.