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La strategia di Trump non è una scelta irrazionale, è il frutto di una crisi globale e della fine delle illusioni della globalizzazione. Avrà effetti diretti sui paesi concorrenti, come la Cina, e sull’Unione europea. Ma non è priva di controindicazioni.

Il ritorno di Trump imprime una secca accelerazione a processi in corso da tempo. Il vento di destra a guida nazional-sovranista si sta imponendo nei principali paesi occidentali: dalla Brexit alla prima presidenza Trump, fino al nuovo premier austriaco di estrema destra, passando per il governo italiano. Poi, forze sovraniste importanti sono vicine alla stanza dei bottoni in paesi del calibro di Francia e Germania, dove già condizionano le scelte politiche. Tra le ricette della destra per uscire dalle difficoltà economiche esistenti, il protezionismo è forse la formula più in voga. 

Dalla globalizzazione a un nuovo protezionismo

La crisi della globalizzazione spinge l’Occidente verso un ripiegamento su macroaree se non addirittura su base nazionale. Le tensioni commerciali in corso  danno vita a processi i cui esiti sono di difficile previsione. La rincorsa a mettere barriere per proteggere produzioni interne è stata innescata dagli Usa, con la presidenza Obama, è andata aumentando e consolidandosi con Trump I fino a Biden. Oggi il Trump II sembra annunciare un’ulteriore radicalizzazione. Campioni finanziari-industriali di livello globale (Amazon, Google, BlackRock, per fare solo alcuni esempi) organizzati su una scala sovranazionale sembrano calarsi nel nuovo contesto competitivo adeguandosi con una repentinità a volte persino imbarazzante. Trump sembra rappresentare un rilancio del loro dominio senza interventi governativi, un’opportunità per alleggerire provvedimenti antitrust e regolamentazioni che con l’ultimo Biden erano apparsi sulla scena politica democratica. Sembra esser nato un nuovo schieramento socio-politico fortemente segnato dal protagonismo delle classi dominanti.

Non riteniamo che questa ulteriore accelerazione sia semplicemente la risultante di una logica che intende «avvelenare i pozzi». Troppo facilmente, nel mondo liberale europeo, è stato puntato il dito su un Trump irrazionale, denunciando le sue scelte come al limite del masochistico per l’economia del suo paese. L’appoggio a Trump del «meglio» delle Big Tech, le quali  fino a ieri si presentavano con un volto progressista e inclusivo, rende evidente che la questione non può più essere posta in questi termini. 

È poco convincente anche utilizzare riferimenti provenienti principalmente dal passato. Sul New York Times David Brooks dice che Trump può essere paragonato a una serie di presidenti statunitensi populisti eletti tra il 1825 e il 1899, presidenti anti-establishment, privi di preparazione e strutture adeguate, che cavalcavano il malcontento popolare, per poi non essere rieletti una volta che le attese alimentate risultarono insoddisfatte. Oppure Rita di Leo che, sul il manifesto, ha paragonato il potere del tycoon a quello di un monarca del XVIII secolo, «un monarca repubblicano in America?» (si domanda) per via della legislazione speciale approvata a ritmi serrati già nei primi giorni di mandato. Interpretazioni che colgono elementi reali, in maniera anche acuta e interessante, ma che rischiano di non leggere le novità e il connotato di attualità di quel che sta accadendo. 

In gioco, invece, sembra esserci un cambiamento di orientamento strategico del capitalismo a stelle e strisce e, persino, occidentale. A meno che non si voglia sostenere che il potere politico sia tornato così strabordante da condizionare in maniera decisiva quello economico. Ma costituirebbe una lettura che smentirebbe tutti quei processi, andati assai in profondità, di decostruzione della sfera statuale e pubblica descritti con dovizia di particolari e ormai elemento largamente condiviso per qualsiasi orientamento politico e scientifico. 

Ma se non c’è semplicemente un ritorno improvviso della politica, il ritorno del protezionismo deve essere letto come una risposta economica e politica alle difficoltà occidentali, dove il tendenziale ristagno della crescita mostra come la globalizzazione non sia stata in grado di mantenere le sue promesse di sviluppo per tutti. La crescente liberalizzazione di commerci e produzioni doveva rappresentare il modo attraverso cui il calo dei salari in Occidente, favorito dalla sconfitta del movimento operaio, veniva compensato dall’abbassamento dei prezzi mediante le delocalizzazioni. Un processo che finiva per rendere socialmente sopportabile l’estensione geografica e quantitativa del nuovo ciclo di accumulazione. Come effetto collaterale i paesi emergenti avrebbero visto migliorare le proprie condizioni. In Occidente il benessere si sarebbe esteso. Così non è andata. Nei paesi occidentali la sconfitta politica del lavoro, la ricattabilità di quest’ultimo e la sua destrutturazione hanno condotto a un impoverimento diffuso, risucchiando in tale processo persino una parte significativa delle classi medie. La globalizzazione, dunque, ha compresso le condizioni di vita delle classi medio-basse, creando nuove forme di proletarizzazione, e al contempo ha posto le fondamenta per l’affermarsi di nuovi campioni nazionali, di cui la Cina rappresenta la capofila. Ma non solo. In assenza di una dinamica autopropulsiva, i ritmi di crescita sono stati realizzati drogando la domanda  attraverso un crescente debito privato e pubblico, sia in Occidente sia in Oriente. 

Insomma, il ritorno della geopolitica è il frutto di una crisi globale determinata dalla rarefazione della crescita economica attesa e dalla fine delle illusioni della globalizzazione e della società della conoscenza. Se non si parte da sufficientemente lontano non si comprendono le ragioni delle crescenti guerre commerciali. Il protezionismo è una risposta difensiva a questa crisi, che poggia le sue basi sull’incapacità del capitalismo americano di svolgere una funzione di garanzia dell’accumulazione mondiale, cosa che ha in qualche modo fatto dal Secondo dopoguerra in poi. Una risposta che ha fatto progressivamente breccia nel capitale americano e che è diventata sempre più egemone facendosi linea politica sotto i colpi della concorrenza cinese. Sembra come concretizzarsi la «profezia» di Giovanni Arrighi su una fase di interregno tra la vecchia super potenza, incapace (o non più disposta) ad assumersi i costi della leadership mondiale, e la nuova superpotenza non in grado (ancora) di svolgere questa funzione. Una fase che si è già presentata storicamente nel passaggio tra l’egemonia olandese e quella inglese nel Seicento, e da quella inglese al dominio statunitense tra i due conflitti mondiali. Tutti questi momenti di passaggio sono stati caratterizzati da una forte instabilità, dal tentativo della vecchia potenza di mantenere il proprio ruolo con tutti i mezzi possibili a partire dalla leva monetaria e finanziaria. L’esito di questo interregno non è ovviamente scontato, non è neppure scontato un passaggio del primato lineare da una potenza all’altra come si è verificato dall’epoca moderna in avanti, ciò che è certo è lo scontro e l’instabilità che esso determina.

Problemi di un ritorno al protezionismo

Tornare al principio di protezione per un’economia fino a ieri dispiegata su scala mondiale non risulta, però, così agevole. Innanzitutto perché l’imporsi nuovamente di un sistema centrato su dazi e protezione delle rispettive produzioni implica, perlomeno inizialmente, un riaffacciarsi dell’inflazione. In particolare per i paesi privi di sufficienti risorse energetiche. Le tensioni inflazionistiche di questi ultimi anni sono da ricondursi almeno in parte a questa dinamica e non sono riducibili al solo «effetto guerra». Problemi nelle catene del valore si evidenziano anche negli Usa nonostante la loro capacità di produzione di petrolio e gas. Gli Stati uniti consumano prevalentemente petrolio importato, nonostante siano grandi esportatori a loro volta. Tale fenomeno avviene poiché le raffinerie Usa sono attrezzate per lavorare il greggio vischioso di cui il paese non dispone di grandi riserve, mentre il petrolio derivante dalle rocce di scisto, di cui sono grandi estrattori, viene venduto all’estero. Un mercato import/export che con il crescere dei dazi potrebbe registrare delle difficoltà, se si pensa che tra i principali venditori di greggio vischioso c’è proprio il Canada. 

Il sovranismo, poi, favorisce il processo di rilocalizzazione, cioè riportare a casa ciò che era stato delocalizzato. Ciò significa aumentare i costi che finiranno per scaricarsi sui prezzi al consumo, generando un aumento del costo della vita. Nel caso degli Stati uniti potrebbe essere compensato da un miglioramento della bilancia commerciale e da un apprezzamento del dollaro, che alla lunga però potrebbe pesare sulla competitività delle esportazioni a stelle e strisce. Questa rincorsa ai dazi può anche implicare un certo effetto di ritorno sui consumatori che, sentendosi sotto attacco delle nuove politiche nazionaliste, possono iniziare a escludere le merci dei paesi che impongono nuove tariffe doganali. 

Qualcosa di simile sta già accadendo in Canada e Germania. Nel primo caso dopo gli annunci di Trump di voler annettere il Canada, ci sono stati i fischi per l’inno nazionale statunitense nelle partite di basket a Toronto, tale astio può tradursi in un consumo maggiore di prodotti locali canadesi, mentre in Germania, dopo le intrusioni del magnate Elon Musk nella politica nazionale nel mese di gennaio c’è stato un calo delle vendite della sua azienda di automobili elettriche Tesla del 59%. Tali processi sono visibili nei mercati finanziari, dove una serie di produzioni marcatamente a stelle e strisce, in particolare nei segmenti alimentari, liquori, automotive, cioè dove può esistere un’alternativa nazionale per il consumatore del paese sottoposto a dazi, stanno subendo perdite sui listini azionari.

Si affermano, inoltre, paradossi che, in prospettiva, appaiono piuttosto problematici. Un caso esemplare è costituito nuovamente da Musk che mentre negli Stati uniti (e in Germania e in Gran Bretagna, ecc…) sostiene una politica nazionalista e protezionista senza remora, in Europa, con l’azienda Tesla (assieme a Bmw e a altre case automobilistiche tedesche) fa ricorso alla Corte europea di Giustizia proprio contro i dazi approvati a livello unionale contro le auto elettriche cinesi. Da fine ottobre, infatti, l’Europa sta applicando una sovrattassa fino al 35% sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina, che si aggiunge al tradizionale 10%, per un totale potenziale del 45%. Un provvedimento teso a contenere le importazioni di un prodotto decisamente competitivo nel rapporto qualità/prezzo con l’auto elettrica europea. Il ricorso ha l’obiettivo di annullare tale politica dei dazi, in quanto penalizzerebbe i marchi automobilistici occidentali che hanno almeno parte della produzione in Cina o che non vogliono rinunciare al mercato cinese, preoccupati da un’escalation protezionista. La paura è che, dopo aver fatto ricorso all’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), organismo da tempo caratterizzato da un certo immobilismo (in particolare a causa dell’atteggiamento degli Usa che non rinnovano i propri membri dell’organismo che dovrebbe occuparsi di risolvere le controversie internazionali), Pechino si decida a imporre a sua volta dazi e ostacoli alla produzione e commercializzazione di auto dei marchi provenienti dall’Europa. 

Dazi negli Usa, ma non in Europa dunque. Un vero cortocircuito come quello provocato dagli annunci dei dazi statunitensi contro Messico e Canada, poi congelati. L’obiettivo di favorire le produzioni nazionali deve fare i conti con il fatto che molti produttori interni sono in grado di reggere le sfide del mercato proprio grazie alle importazioni di prodotti ed energia da Messico e Canada. Da questo punto di vista la rincorsa ai dazi mostra tutte le sue contraddizioni, finendo per essere una pratica necessariamente selettiva che non può prevedere una soluzione win win, senza che vi siano dei soggetti perdenti. L’internazionale sovranista, dunque, costituisce un vero e proprio ossimoro.

Obiettivi del nuovo protezionismo

Va precisato, però, che sebbene l’internazionale sovranista sia impraticabile come soluzione universale, ciò non implica che non possa essere praticato un ritorno del sovranismo unilaterale (o volta per volta bilaterale) da parte di importanti attori sulla scena mondiale. Non è in corso semplicemente un indistinto ripiegamento su scala nazionale guidato dalla destra, ma un progetto che potrebbe costituire una vera e propria riconfigurazione del potere politico ed economico. Questa pare la vera scommessa di Trump che spiegherebbe il seguito e l’accodamento di molteplici forze d’impresa della old quanto della new economy. In tal senso, se da un lato il principio sovranista nel suo diffondersi perde di efficacia, dall’altro può funzionare se è funzionale a fondare una nuova logica imperiale, cioè se si mette al servizio di un progetto egemone a guida statunitense per reggere un nuovo scontro bipolare. 

In questo senso i dazi possono diventare elemento di aggressiva competizione con la Cina e i suoi alleati, ma al contempo elemento di contrattazione del nascente blocco, in una logica di riaffermazione di una forte e indiscussa leadership statunitense che deve essere accettata sempre in chiave difensiva verso Cina & C.. Il caso della capitolazione della Colombia sul rimpatrio dei migranti sotto la minaccia di una guerra commerciale costituisce un primo esempio. Lo stesso sembra valere nei confronti di Canada e Messico. La minaccia dei dazi viene sospesa, subordinata al buon esito di trattative che dovrebbero assecondare gli Usa su diversi obiettivi economici, oltre che di politica dell’immigrazione o di controllo delle frontiere. Successivamente, questa logica potrebbe essere adottata per dividere e imperare sull’Europa. In tal senso le proposte di Musk per l’Europa (Mega, Make Europe great again) appaiono di natura diversa, ma non in contraddizione con quelle sostenute dal magnate assieme all’amministrazione statunitense. Sembrano più un modo per aggregare forze ultra-nazionaliste ed estremiste di destra per destabilizzare ulteriormente il quadro del Vecchio continente, favorendo spinte centrifughe. 

Non a caso l’esperta di diritto doganale Sara Arnella ha recentemente sottolineato all’Huffington Post come Trump abbia «detto più volte che non intende discutere di dazi con Bruxelles, ma con i singoli paesi in un faccia a faccia diretto». Per non parlare di come i colossi Big Tech a stelle e strisce possano dover ricorrere ai dazi nel confronto-scontro diretto con l’innovazione tecnologica cinese, come il recente caso dell’Intelligenza artificiale sta a dimostrare. Una sorta di geometria variabile dei dazi, dunque, potrebbe costituire una strategia multipla con un’intrinseca razionalità e pure una qualche dose di efficacia, rimettendo gli Usa al centro dello scontro globale.

Il dollaro per ora resta moneta principale di scambio internazionale, la piazza finanziaria statunitense resta la principale a livello mondiale, una quantità significativa di paesi ha il proprio debito in dollari oppure possiede significativi investimenti in debito sovrano statunitense. Inoltre gli Usa sono uno dei mercati di sbocco principali per i paesi europei e americani, oltre a poter vantare l’esercito più potente del pianeta. 

Ricostruire o rinsaldare un nuovo blocco, condotto col vigore trumpiano, significa rimettere in gioco gli Stati uniti, ma anche ricostituire un aggregato gerarchico funzionale, dove esisteranno paesi di serie A e serie B, anelli concentrici di un sistema economico fatto di un centro e di differenti periferie. Per l’Italia può costituire un’occasione per un certo rilancio, ma deve essere chiaro che è un’occasione di corto respiro, dove paradossalmente il fattore di forza è la debolezza. Salari bassi, produzioni a modesto contenuto tecnologico. Insomma fare la Cina in miniatura degli Usa ai tempi dell’inizio della globalizzazione, ma senza la prospettiva di uno sviluppo autocentrato successivo. Per noi quell’eterogenesi dei fini che ha fatto le fortune di Pechino non è un’opzione prevedibile. Manchiamo del potenziale interno per invertire i rapporti di forza, in barba a qualsiasi internazionale sovranista.

Certo, il meccanismo di ricostruzione di un’alleanza anti Cina, fortemente gerarchizzata a colpi di bastone e qualche carota, offre diversi rischi e contraddizioni. Il gioco può sfuggire di mano, l’opinione pubblica dei paesi «frustati» può sviluppare tendenze antiamericane e nazionaliste, l’alleanza alla lunga potrebbe scomporsi dando vita a nuove geometrie oggi non prevedibili. La minaccia dei dazi, inoltre, non può essere reiterata all’infinito, altrimenti alla lunga apparirebbe un bluff.  Insomma, la strategia dei dazi per una potenza di prim’ordine non è una soluzione senza controindicazioni (probabilmente non è affatto una soluzione a lungo termine), ma un tentativo di reggere qui e ora alla crisi della globalizzazione, riuscendo anche a far leva sul lato politico e dei consensi attraverso la costruzione di un nuovo campo di alleanze politiche ed economiche che ruota attorno a Washington. Difficile fare previsioni sull’esito di questa strategia, ma guai a ridurla a semplice irrazionalità. Piuttosto appare evidente che la strategia sovranista non fa i conti con i problemi di fondo di un capitalismo stanco e distruttivo sul piano ambientale e sociale. Più che una soluzione è un tentativo di adattamento. Sicuramente davanti a noi si apre un periodo di forte instabilità dove crisi economiche e sociali profonde potrebbero portare alla luce le contraddizioni accumulate e non risolte.

*Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma. L’articolo è apparso sul sito di jacobin Italia il 12 febbraio 2025.