Italia. A 80 anni dal 25 aprile 1945, alcune riflessioni, al di là dell’ufficialità e dell’ipocrisia delle commemorazioni

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«Venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. Nel giro di poche settimane ognuno di noi maturò, più che in tutti i vent’anni precedenti. Uscirono dall’ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. Il fascismo li aveva ridotti al silenzio per vent’anni, e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l’Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di una legalità e di un ordine detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata. Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva». (Primo LeviIl sistema periodico)

Fino a pochi anni, nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che le celebrazioni dell’80° anniversario del 25 aprile (e quindi della fine definitiva della tragedia nazifascista) si sarebbero svolte nel contesto di un governo in Italia affidato agli epigoni di quella criminale politica e, a livello mondiale, sullo sfondo di una crescita, apparentemente incontrastata, di un’estrema destra che presenta molti tratti che la apparentano a quelle eredità che ritenevamo risolutivamente sepolte.

Non riapriamo qui le valutazioni più volte espresse sui motivi di questo apparente paradosso (i neofascisti che sono chiamati a celebrare, almeno a livello istituzionale, la tragica conclusione dell’opera dei loro maestri, con il rilancio della grottesca ingiunzione a Giorgia Meloni di dichiarare un suo inesistente “antifascismo”), sulle evidenti pulsioni revisioniste che questa realtà legittima (delle quali la più paradossale è l’affermazione di Alice Weidel, la leader dei neonazisti di Alternative für Deutschland, che è arrivata a definire “comunista” Adolf Hitler). Né vogliamo qui concentrarci sulle responsabilità immediate di quella che un tempo (e ancora oggi) veniva definita “la sinistra” per aver agevolato il ritorno di quella cultura, a cui abbiamo dedicato e continueremo a dedicare ma in altra sede ulteriori commenti.

Oggi vorremo soffermarci di più sulle contraddizioni della Resistenza antifascista, proprio di quella che fu l’azione che le antifasciste e gli antifascisti in Italia (ma anche in numerosi altri paesi europei) condussero per contribuire in maniera determinante alla fine dell’incubo nazifascista, fine che avrebbe dovuto essere e che allora sembrava definitiva.

Sappiamo che le celebrazioni, tanto più quelle più solenni come quelle di questi giorni, forse non sono il momento più adatto per le riflessioni critiche, ma il nostro sito (lo dice anche il nome) rifugge da ogni tentazione agiografica, anche di fronte alle pagine più simboliche e “identitarie”.

Sia chiaro, le nostre riflessioni non intendono assolutamente sminuire l’importanza di quegli avvenimenti. Non solo per le loro immediate conseguenze: quella che sembrava la radicale e risolutiva eradicazione del fascismo, la crescita apparentemente inarrestabile della sinistra basata sul suo ruolo determinante nella lotta di liberazione, la stesura di una Costituzione, che con tutti i suoi limiti ha però garantito per decenni una convivenza sociale e civile, ecc.

Ma ci furono anche conseguenze della Resistenza e della Liberazione nel tempo. Affondando le sue radici nella Resistenza, la classe operaia italiana si è costruita nei decenni successivi una solida identità storica e, in qualche modo, “gloriosa”. Fino a non molti anni fa, le celebrazioni del 25 aprile erano molto di più che appuntamenti “rituali”, o peggio istituzionali; erano momenti importanti della lotta sociale, momenti di riaffermazione culturale di massa. L’antifascismo pervadeva in maniera forte la lotta generale, compresa quella sindacale, come se gli scopi di quella che era stata la lotta partigiana e quelli di ogni lotta di ogni giorno coincidessero.

Peraltro, al di là della retorica istituzionale, la Resistenza fu certo guerra “patriottica” per la difesa di una “dignità nazionale” tradita e svenduta all’occupante tedesco, guerra “civile” tra i partigiani e le bande nere alleate dei nazisti, ma fu anche guerra di classe. 

Questi tre aspetti della resistenza (che peraltro furono oggetto di approfondimenti da parte di numerosi storici) emergono dai fatti di quegli anni. E in particolare il terzo aspetto, quello di classe, il più rimosso perché il più scomodo, “imbarazzante” (non solo per l’antifascismo liberale, ma persino per la sinistra socialista e comunista).

La natura di classe della Resistenza affonda in primo luogo nella sua base sociale. Non dimentichiamo che la componente operaia fu una presenza numericamente importante nella lotta partigiana. La Resistenza si affermò certamente come movimento interclassista e solidale, volto alla liberazione del territorio nazionale dall’occupante tedesco, ma al suo interno era largamente diffusa la propaganda clandestina di una sinistra “diffusa”, con i suoi appelli al proletariato alla lotta per la democrazia contro una classe capitalista che aveva permesso al regime fascista di affermarsi.

Durante la Resistenza (non solo in Italia), la coincidenza dei due nemici (della patria e della classe) fu messa in forse dalle scelte di una “unità nazionale”, necessariamente interclassista, perseguita dai maggiori partiti della sinistra, ma contrastata da importanti componenti, come “Bandiera Rossa” romana. E anche nell’animo di tanti quadri comunisti e socialisti, molti dei quali ricordavano il “biennio rosso” e il sostegno offerto da capitalisti, giolittiani e monarchici all’affermarsi di Mussolini, l’opposizione di classe non annegava affatto nell’unità nazionale, nonostante la loro militanza disciplinata nei partiti di Togliatti e di Nenni. Certo, i vertici comunisti e socialisti insistevano perché i quadri proletari fossero consapevoli della loro “responsabilità nazionale”, sostenendo (con la forza dell’evidenza) che gli interessi anche economici della classe lavoratrice non potevano essere difesi, né le sue rivendicazioni conseguite, se il fascismo non fosse stato sconfitto. 

Per il proletariato di allora, infatti, il fascismo coincideva obiettivamente con il capitalismo, la figura del padrone e quella del fascista rappresentavano un medesimo nemico da combattere. La classe dominante prefascista era rimasta la stessa nel “ventennio”. L’autoritarismo e la violenza fascista contro i sindacati e contro le sinistre furono determinanti per schiacciare il biennio rosso e le lotte del 1919-20. Il padronato trasse enormi vantaggi dalla politica economica di Mussolini e dei suoi. 

Il Pci sfruttava queste connivenze tra classe dirigente e fascismo per indirizzare la forza della lotta partigiana, una volta sconfitto il regime, anche contro gli aspetti più retrivi del ceto padronale, ma solo per ottenere condizioni contrattuali più vantaggiose, e un ruolo nella gestione statale.

Anche se per il gruppo dirigente del PCI togliattiano il progetto non era certo la rivoluzione, ma una “democrazia progressiva” politicamente moderata e con pallidi “elementi di socialismo”, per tantissimi militanti e anche per tanti quadri di quel partito l’obiettivo della lotta continuava ad essere l’instaurazione di una vera e propria repubblica socialista, sul modello dell’URSS. E la “doppiezza” togliattiana usava strumentalmente l’ipotesi dell’insurrezione che incuteva un certo timore nelle forze politiche liberali e, soprattutto, nella classe padronale. 

Non a caso, l’ipotesi di una trasformazione complessiva si intravede anche in quel “Manifesto di Ventotene” che è stato recentemente oggetto di polemiche politiche tra i postfascisti e l’opposizione parlamentare. Perché l’aspettativa che la caduta del fascismo travolgesse con sé anche il capitalismo non esisteva soltanto nelle speranze di quadri proletari e rivoluzionari, ma era accarezzato anche nella sinistra liberale “non marxista”, anche nel Partito d’Azione.

Certo, le urgenze sociali del momento legittimavano anche le rivendicazioni di miglioramenti immediati anche solo riformistici, cosa che rafforzava il sostegno alle cautele tattiche e diplomatiche del PCI. Inoltre, il contesto culturale della sinistra, tanto più rafforzato dal rinnovato e massiccio prestigio conquistato dall’URSS di Stalin per il suo ruolo determinante nella sconfitta della Germania nazista, faceva sì che per parte importante della base operaia la trasformazione sociale radicale si traduceva nel mito dell’arrivo del “Baffone”.

Qui vale la pena di inserire un’ulteriore riflessione, sui motivi che spinsero in Italia (ma anche in tanti altri paesi) migliaia di giovani donne e uomini (ma non solo di giovani) a scegliere “la via della montagna”. Originariamente, il motore principale di quella scelta fu il rifiuto di combattere, ma anche il rifiuto di lavorare, di produrre e di contribuire in qualunque maniera alla guerra di Hitler e di Mussolini. Furono questi gli elementi che spinsero tante e tanti ad ingrossare le file della Resistenza sulle montagne: la renitenza alla brutale leva militare messa in atto dal governo collaborazionisti di Salò (e in Francia, ad esempio, dal governo di Vichy), ma anche il rifiuto del lavoro coatto, la fuga di quadri operai costretti a fuggire dalle città per scappare alla repressione dopo le lotte urbane a cui avevano partecipato.

Dunque, per la stragrande maggioranza di coloro che andarono in montagna l’obiettivo inizialmente non era “offensivo”, anzi, tanti andavano in montagna proprio per non dover partecipare alla guerra. La montagna era un rifugio, un modo per sottrarsi ad un contesto di guerra. L’essere partigiano per tante e tanti era il modo forse generico e in qualche modo inconsapevole ma certamente il più naturale per rifiutare la guerra. In fin dei conti, l’aderire alla guerra partigiana era una maniera per “non dover fare la guerra”, quella di Mussolini, in una contraddizione che per tanti, in contesti così drammatici, non era né apparente né reale.

Certo, l’avversione contro l’occupante tedesco e contro i suoi criminali complici italiani facilitò l’azione della direzione del PCI per mettere al centro della lotta e dei “compiti della classe operaia” la “liberazione nazionale”, l’“antifascismo” e l’obiettivo della “democrazia progressiva”.

Lo “straniero oppressore” si configurava come il più immediato responsabile delle sofferenze sociali e ne diventava l’unico responsabile agli occhi di un proletariato a cui era stata sottratta la capacità di individuare le cause più mediate e più profonde della propria condizione, anche grazie agli oltre 20 anni di sconfitte, di reazione borghese e di tradimento opportunista. Le notizie delle efferate azioni dei reparti hitleriani e il più generale feroce comportamento della potenza imperialistica tedesca rafforzavano l’idea della centralità della lotta per la liberazione nazionale. E il presentare le bande nere fasciste come semplici complici dell’occupante e non come espressione terminale della reazione antipopolare del padronato “nazionale” contribuivano ad appannare i contenuti di classe. 

La classe operaia che aveva fatto il biennio rosso era stata privata del suo elemento rivoluzionario e anticapitalista, mentre la sua coscienza di classe veniva subordinata al mito della “unità antifascista”.

Tanti giovani e meno giovani vivevano un confuso e embrionale sentimento di reazione di classe contro una situazione sempre più intollerabile (le cui cause sarebbero state da cercare nel sistema capitalistico in sé), combinato però con una coscienza di classe offuscata dai decenni di dominio fascista e dalla contemporanea degenerazione delle direzioni socialdemocratiche e staliniane.

A completare la situazione, non bisogna dimenticarlo, contribuì anche la distruzione politica e fisica di ogni voce di dissenso all’interno della sinistra italiana, prima con l’emarginazione dal Partito Comunista d’Italia di Amadeo Bordiga (che certo aveva le sue responsabilità, basti ricordare il suo settarismo nei confronti degli “Arditi del popolo”, ma che comunque esprimeva una linea politica più radicale), poi con l’incarcerazione di Antonio Gramsci (che privò il comunismo italiano di una voce attenta e critica) e, infine con la messa al bando e la successiva liquidazione della “Nuova Opposizione Italiana”, che culminò, in una data che potrebbe essere quella del 27 ottobre 1943, nell’assassinio del suo principale esponente, Pietro Tresso, ad opera di partigiani francesi su ordine di Stalin (e forse di Togliatti).

È in questo contesto che la classe operaia italiana arrivò nel 1943 all’appuntamento con la guerra civile. 

La vittoria dei partigiani, il ricordo della lotta per la sconfitta del nazifascismo, la loro commemorazione sono stati ormai da tempo scippati alla sinistra classista, per edulcorarli nella celebrazione (formalmente interclassista, ma in realtà borghese) di una “democrazia” senza aggettivi né storia. A rendere possibile questa appropriazione indebita hanno contribuito in tanti (intellighenzia liberal, stampa mainstream e direzioni riformiste). Ma lo studio di quel che avvenne realmente e concretamente in quei drammatici frangenti può essere un modo per tentare di riparare i danni di quel furto.

*articolo apparso su refrattario e controcorrente il 23 aprile 2025

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