L’indipendenza del Vietnam fu proclamata per la prima volta nell’agosto del 1945, e presto ne celebreremo l’80° anniversario. Ma De Gaulle decise diversamente, inviando un corpo di spedizione per riconquistare l’ex colonia. L’Indocina dovette affrontare due devastanti guerre imperialiste, prima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti. Washington mobilitò ogni mezzo per reprimere la rivoluzione vietnamita, convinta di poter vincere, ma fu sconfitta. L’immagine è rimasta nella storia: il personale dell’ambasciata americana evacuato in elicottero da Saigon, il 30 aprile 1975.
Gli accordi di Ginevra del 1954 avrebbero dovuto essere seguiti da elezioni in tutto il paese, che avrebbero visto il trionfo del governo di Ho Chi Minh. Ma le elezioni non si tennero: il regime sudvietnamita approfittò del ritiro delle forze rivoluzionarie per scatenare una brutale repressione contro i quadri del movimento di liberazione nel Sud. Nel frattempo, la Francia passò il testimone agli Stati Uniti.
Fermare la dinamica rivoluzionaria nel Sud-Est asiatico
In gioco non c’era solo il destino dell’Indocina. Washington puntava a fermare la dinamica rivoluzionaria in tutto il Sud-Est asiatico. Guardava a ovest verso la Cina, già minacciata a est durante la guerra di Corea (1950-1953), e cercava di consolidare la supremazia globale dell’imperialismo statunitense. La seconda guerra del Vietnam doveva essere la dimostrazione della potenza americana. Il conflitto vietnamita divenne così il punto focale degli equilibri mondiali, dove si intrecciavano i rapporti di forza tra rivoluzione e controrivoluzione, tra il blocco occidentale e quello orientale (Cina-URSS).
Pur contando su una solida base sociale, soprattutto tra i cattolici fuggiti dal Nord, il regime corrotto e autoritario di Saigon deluse le aspettative di Washington, che si trovò a dover intervenire sempre più massicciamente, fino a condurre una guerra totale e senza precedenti: invio di centinaia di migliaia di GIs, bombardamenti a tappeto della Repubblica Democratica del Vietnam, controriforma agraria nel Sud, uso massiccio di defolianti tossici (come l’agente arancione) e sviluppo di tecnologie militari per stanare i combattenti nascosti nei tunnel o individuare i movimenti notturni delle truppe.
Dall’offensiva del Têt alla caduta di Saigon
Il conflitto assunse una dimensione internazionale di primo piano, e il movimento di liberazione nazionale si mobilitò sia sul piano diplomatico sia su quello della solidarietà militante. A differenza delle rivoluzioni russa e cinese, dove il sostegno internazionale si consolidò dopo la vittoria, per il Vietnam (e per l’Algeria) la solidarietà rappresentò una componente essenziale di una strategia dinamica che portò alla vittoria.
Qualcuno sostiene che sia stato il movimento contro la guerra a sconfiggere Washington. È una lettura anacronistica. Per lungo tempo, la borghesia americana sostenne la guerra, così come la maggior parte degli scienziati e tecnici reclutati dall’esercito. Perché la contestazione interna producesse un vero cambiamento, fu necessario che le perdite umane diventassero insostenibili, che il costo economico della guerra esplodesse e che la legittimità internazionale degli Stati Uniti venisse gravemente compromessa.

Dopo l’offensiva del Têt nel 1968, per forzare i negoziati, il movimento vietnamita impose un confronto diretto: da una parte la Repubblica Democratica del Vietnam e il Governo Rivoluzionario Provvisorio del Sud; dall’altra gli Stati Uniti e il regime di Saigon, senza la mediazione di Mosca o Pechino. Poi, nel 1975, lanciò l’offensiva finale.
Tre decenni di guerra
Fu una vittoria storica di portata mondiale, pagata però a un prezzo altissimo. Tre decenni di guerra avevano logorato la società, schiacciato il pluralismo politico, decimato i quadri rivoluzionari del Sud, segnato in profondità le organizzazioni sopravvissute (a cominciare dal Partito Comunista Vietnamita). Washington impose un isolamento diplomatico durato un decennio, con l’appoggio della Cina. L’aiuto sino-sovietico, pur fondamentale, fu sempre condizionato da interessi propri: Pechino, sempre più vicina a Washington contro Mosca, mal sopportava l’indipendenza di Hanoi. Il Vietnam finì vittima dei conflitti tra burocrazie rivali, mentre Stati Uniti e Cina arrivarono a sostenere i Khmer rossi (!) in una nuova guerra in Indocina.
Il Vietnam ottenne la sua liberazione, la rivoluzione vinse, ma sotto un regime autoritario. Non avendo ricevuto il sostegno necessario nei momenti cruciali del 1945, del 1954 e del 1968, il popolo vietnamita combatté una battaglia da cui trassero beneficio molte altre lotte popolari, compresa quella della mia generazione. Il prezzo pagato è stato enorme. Per questo, il Vietnam merita ancora oggi il nostro sostegno, anche contro il proprio governo, quando reprime il suo stesso popolo.
Guerra e rivoluzione
All’indomani della seconda guerra mondiale, il Vietminh seppe approfittare di una finestra di opportunità per dichiarare l’indipendenza. L’occupante giapponese aveva distrutto l’amministrazione coloniale francese prima di essere sconfitto nel Pacifico. Il Vietminh aveva l’iniziativa politica, ma in un contesto fragile: le sue capacità militari erano limitate e la sua autorità contestata da sette religiose e movimenti nazionalisti anticomunisti.
Rivoluzione sociale e riforma agraria
Con l’assenso della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek, nel 1946 il corpo di spedizione francese bombardò Haiphong, nel nord del Vietnam: era l’inizio della prima guerra d’Indocina. Le offerte di negoziato di Ho Chi Minh furono respinte. Considerato il rapporto di forze, il conflitto assunse la forma di una lunga guerra rivoluzionaria, fondata sulla mobilitazione dei contadini. Il patriottismo da solo non bastava: la richiesta di riforma agraria divenne centrale. Da allora, liberazione nazionale e rivoluzione sociale si intrecciarono. Fu questa base a permettere alla resistenza di durare così a lungo.

Bisognava anche tener conto delle differenze rispetto alla Cina (pur ricevendo da Pechino aiuti e consiglieri), e adattarsi in ogni fase alle reazioni del nemico. Esisteva, si può dire, un modo vietnamita di concepire la guerra.
La prospettiva dell’emancipazione sociale e democratica
Decidere di riprendere la lotta armata nella seconda metà degli anni ’50 non fu certo una scelta facile. L’alternativa era chiara: affrontare gli Stati Uniti o accettare la divisione permanente del Paese, come era successo in Corea. E abbandonare, nel Sud, le reti militanti e le basi popolari alla repressione di una dittatura senza scrupoli.
La guerra popolare apriva la possibilità di un’emancipazione sociale, ma una lotta troppo lunga rischiava di logorare le energie. In Asia, questo tema resta attuale: i conflitti armati non si sono mai fermati, ad esempio, nell’isola filippina di Mindanao. È necessario dare risposte concrete a due domande cruciali: come evitare che i gruppi armati degenerino, e come difendere, nella pratica, la libertà democratica e i diritti delle comunità popolari e montane.
In Birmania, quattro anni fa, di fronte al colpo di Stato militare, quasi tutto il Paese entrò in una fase di disobbedienza civile non violenta. La giunta sarebbe potuta cadere, se avesse avuto un minimo sostegno internazionale. Ma così non è stato. E la repressione ha costretto la resistenza a passare alla lotta armata, in particolare sotto la guida delle minoranze etniche.
*Articolo apparso su Hebdo L’Anticapitaliste del 24 aprile 2025