China in Global Capitalism (di Eli Friedman, Kevin Lin, Rosa Liu e Ashley Smith, Haymarket Books, 2024) è un’ottima introduzione alla Cina di oggi. Esamina la natura della società cinese e le ragioni del crescente conflitto tra Cina e Stati Uniti.
Il libro inizia affermando (in modo convincente, a mio parere) che «la Cina del XXI secolo è capitalista» [p. 11]. Gli autori dimostrano che la ricerca del profitto domina l’economia:
«In un’ampia gamma di settori, è chiaro che è la produzione di beni a scopo di lucro a governare l’economia, e non la produzione per i bisogni umani…Beni come il cibo, l’alloggio, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, i trasporti e il tempo libero e sociale non sono forniti dal governo. Al contrario, la stragrande maggioranza della popolazione cinese deve vendere la propria forza lavoro, cioè la propria capacità di lavorare, ad aziende private o pubbliche in cambio di un salario per soddisfare i propri bisogni essenziali» [p. 14].
Si tratta di un cambiamento importante rispetto al sistema precedente:
«La comparsa di un mercato del lavoro capitalista è stata politicamente controversa alla fine degli anni ’70, poiché molti membri del PCC [Partito Comunista Cinese] sostenevano ancora il sistema maoista del «lavoro a vita» [sicurezza del posto di lavoro], chiamato «ciotola di riso di ferro». Sebbene i salari fossero irrisori in questo sistema, i lavoratori urbani della maggior parte delle imprese avevano accesso gratuito o quasi gratuito all’alloggio, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Ancora più importante, era praticamente impossibile licenziare qualcuno… Ma negli anni ’90, lo Stato aveva chiaramente deciso che il futuro apparteneva ai mercati del lavoro capitalistici, come chiaramente indicato dalla legge sul lavoro del 1994, che ha stabilito un quadro giuridico per il lavoro salariato… Tuttavia, invece di istituire un mercato del lavoro altamente regolamentato sul modello socialdemocratico (come auspicato da molti riformatori), il lavoro è stato mercificato e rimane molto informale». [p. 15]
Gli autori affermano che lo Stato cinese
«governa nell’interesse generale del capitale… La natura capitalista dello Stato è molto evidente nella politica condotta nelle imprese. La Cina ha vissuto un’esplosione di contestazioni operaie negli ultimi tre decenni; il Paese è il leader mondiale degli scioperi selvaggi. Come reagisce lo Stato quando i lavoratori ricorrono alla tradizione ancestrale di rifiutarsi di lavorare per il capitale? La polizia interviene quasi esclusivamente a nome dei padroni contro i lavoratori e le lavoratrici, un servizio che rende sia alle imprese private nazionali che a quelle straniere e pubbliche. Esistono innumerevoli esempi in cui la polizia o sicari al soldo dello Stato hanno fatto ricorso alla coercizione per reprimere uno sciopero». [p. 17]
Spiegano che non esistono veri e propri sindacati:
«L’unico sindacato legale è la Federazione dei sindacati di tutta la Cina (ACFTU-All-China Federation of Trade Unions), un’organizzazione controllata dal PCC. Anziché rappresentare i lavoratori e difendere i loro interessi, l’ACFTU garantisce la pace sociale per le imprese. Non sorprende quindi che i responsabili delle risorse umane delle imprese siano sistematicamente nominati alla guida del sindacato della loro azienda». [p. 18]
Ai capitalisti è stato permesso di aderire al PCC e agli organi governativi:
«Durante la sessione 1998-2003 dell’Assemblea popolare nazionale (APN), i lavoratori rappresentavano solo l’1% dei rappresentanti, mentre gli imprenditori costituivano il 20,5%, un capovolgimento completo rispetto agli anni ’70. Oggi, l’APN e il Consiglio consultivo politico del popolo cinese presentano una sorprendente concentrazione di plutocrati. Nel 2018, i 153 membri più ricchi di questi due organi del governo centrale disponevano di un patrimonio complessivo stimato in 650 miliardi di dollari». [p. 19]

Come negli Stati Uniti, esiste un fenomeno di “revolving door” tra le imprese e le istituzioni pubbliche. [p. 19]
Il settore pubblico relativamente forte dell’economia cinese è talvolta citato come prova che la Cina non è capitalista. Tuttavia, gli autori sottolineano che prima dell’era neoliberista le imprese pubbliche erano comuni nei paesi capitalisti. Inoltre, il settore pubblico cinese è stato notevolmente ridimensionato:
«Decine di milioni di lavoratori del settore pubblico sono stati licenziati negli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 nell’ambito della campagna condotta dallo Stato per “rompere la ciotola di riso di ferro”. Proiettando i lavoratori in un mercato del lavoro per il quale non erano assolutamente preparati, questa campagna di privatizzazione ha provocato crisi di sussistenza e una lotta di classe massiccia. A seguito di questa ondata di vendite e di appropriazioni indebite delle pensioni dei lavoratori, le imprese pubbliche rimanenti sono state sottoposte alle pressioni del mercato, anche nei loro regimi di lavoro». [p. 21]
Ciò include il ricorso generalizzato a lavoratori temporanei.
Una «potenza imperiale»
Gli autori affermano che la Cina è diventata «una nuova potenza imperiale»:
«Lotta per la sua quota di mercato mondiale, rafforza il sottosviluppo del Sud e conclude accordi per assicurarsi risorse in tutto il mondo. L’integrazione della Cina nel capitalismo mondiale ha generato sia una collaborazione che una concorrenza tra essa e gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste». [p. 27]
L’economia cinese ha conosciuto una rapida crescita:
«L’economia cinese è passata dal rappresentare solo il 6% del PIL statunitense nel 1990 all’80% di tale PIL nel 2012. Le multinazionali hanno stimolato questa crescita. Ma la Cina ha imposto alle imprese straniere ad alta tecnologia e ad alta intensità di capitale di trasferire la loro tecnologia alle imprese pubbliche e private locali. In questo modo, lo Stato cinese ha sostenuto lo sviluppo del capitale indigeno e gli ha permesso di essere competitivo all’interno del sistema mondiale». [p. 32]
Gli autori affermano che la Cina ha contribuito al persistente sottosviluppo dei paesi del Sud:
«In America Latina, le sue esportazioni a basso costo hanno minato le industrie della regione e ridotto i paesi all’esportazione di materie prime verso la Cina, il classico tranello della dipendenza». [p. 34]
La Cina ha anche aumentato la spesa militare a 293,35 miliardi di dollari nel 2021, posizionandosi al secondo posto mondiale dietro agli Stati Uniti. [p. 41]
«Ha inoltre condotto un programma aggressivo di creazione di basi militari sulle isole che rivendica nel Mar Cinese Meridionale e ha rivendicato territori a vari Stati nel Mar Cinese Orientale…
«Questa proiezione di potere nel Mar Cinese Meridionale e Orientale ha messo la Cina in conflitto con diversi Stati asiatici, come Giappone, Filippine, Brunei, Taiwan, Vietnam, Indonesia e Malesia». [p. 42]
Gli autori osservano che,
«nonostante il suo sviluppo, la Cina rimane dipendente dai paesi capitalisti avanzati, in particolare dagli Stati Uniti. Ha bisogno di loro per i suoi mercati e i suoi fattori produttivi, in particolare i microprocessori avanzati che non è ancora in grado di produrre da sola». [p. 43]
Sono d’accordo sul fatto che la Cina agisca sempre più come una potenza imperialista. Ma la situazione è complessa: la classe lavoratrice cinese è ancora sfruttata in modo eccessivo dal capitale straniero, il che è generalmente la caratteristica di un paese semicoloniale.
Resistenza
La rapida crescita economica della Cina è talvolta definita un «miracolo». Ma gli autori affermano che
«la crescita della Cina si basa sullo sfruttamento della classe lavoratrice, sul lavoro riproduttivo non retribuito, in particolare quello delle donne, e sulla spoliazione della terra, delle risorse naturali e dei beni collettivi. Queste forme di sfruttamento e spoliazione non solo avvantaggiano le élite cinesi, ma hanno anche contribuito a garantire la redditività del capitalismo a livello internazionale, arricchendo così le imprese e gli investitori dei paesi ricchi del Nord America, dell’Europa e dell’Asia». [p. 47]
C’è stata anche una resistenza all’oppressione e allo sfruttamento:
«I contadini hanno sempre lottato contro le pratiche corrotte e antidemocratiche di confisca delle terre e di mercificazione. I loro omologhi urbani hanno fatto lo stesso. Le popolazioni si sono organizzate contro la distruzione di interi quartieri su richiesta di promotori immobiliari avidi di terreni e dei loro alleati all’interno dei comuni. Negli anni ’90, i lavoratori si sono mobilitati contro il furto di beni pubblici durante la privatizzazione delle imprese pubbliche… I lavoratori migranti provenienti dalle campagne hanno preso il testimone della resistenza nelle fabbriche e nel settore dei servizi in piena espansione…I disordini sociali si sono notevolmente intensificati negli anni ’90 e 2000. Gli «incidenti di massa», come il governo definisce le azioni collettive di oltre venticinque lavoratori e contadini, hanno raggiunto il numero di 87.000 nel 2005, anno in cui il governo ha smesso di comunicare questi dati…
Anche senza un’organizzazione formale, queste lotte hanno strappato importanti vittorie simboliche, giuridiche e materiali allo Stato e al capitale». [p. 47-48]
Numerosi scioperi hanno ottenuto aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro. Ma i disordini hanno anche costretto il governo a modificare alcune delle sue politiche.
La resistenza alla privatizzazione delle imprese pubbliche ne è un esempio:
«I lavoratori hanno resistito a queste riforme del mercato con un’ondata di lotte. Dalla fine degli anni ’90 alla fine dei primi anni 2000, hanno organizzato manifestazioni e scioperi contro i licenziamenti, il furto delle pensioni e la privatizzazione. L’esempio più famoso è forse il movimento di Liaoyang del 2002, quando decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici delle imprese pubbliche si sono ribellati contro la chiusura delle fabbriche, minacciando la stabilità sociale. Molte altre manifestazioni hanno fatto ricorso a tattiche radicali come il blocco delle strade e delle ferrovie. Nel 2009, i lavoratori del gruppo Tonghua Iron and Steel, nella provincia di Jilin [nord-est], hanno catturato e picchiato a morte un dirigente di un’azienda privata che stava conducendo una campagna di privatizzazione. Lo Stato ha reagito con la repressione, arrestando e condannando i leader a lunghe pene detentive. I lavoratori che hanno perso il lavoro si sono ritrovati sul mercato del lavoro privato senza grandi speranze di trovare un lavoro dignitoso. Tuttavia, la loro tenace resistenza ha contribuito alla decisione di Hu Jintao [presidente dal 2003 al 2013] di rinunciare a proseguire la privatizzazione dell’industria statale». [p. 55]
Un altro esempio è la lotta dei lavoratori migranti:
«I lavoratori migranti provenienti dalle campagne sono lavoratori di seconda classe nel sistema di cittadinanza interna stratificato. Sono esclusi dai servizi sociali nelle loro città di adozione perché la loro registrazione ufficiale, il loro hukou, è legata al loro villaggio di origine. Da un lato, l’accesso alle prestazioni sociali nel loro villaggio offre loro una certa protezione in caso di disoccupazione. Dall’altro lato, però, il loro status precario nelle città li rende una forza lavoro estremamente sfruttabile per le industrie cinesi e transnazionali…
Questi lavoratori hanno risposto al loro sfruttamento con lotte sindacali militanti, seguendo l’esempio delle classi operaie di altri paesi che hanno vissuto processi di industrializzazione simili. Le loro rivendicazioni riguardavano principalmente i salari, le condizioni di lavoro e le tutele giuridiche…
Per cercare di soffocare questa ondata di militanza, il governo cinese ha adottato riforme del lavoro che hanno codificato i diritti fondamentali dei lavoratori e delle lavoratrici… Ma ciò non è riuscito a porre fine agli scioperi e alle manifestazioni e potrebbe persino aver ispirato i lavoratori, ricompensando le loro azioni e conferendo loro legittimità giuridica…
I lavoratori sono passati all’offensiva, chiedendo aumenti salariali superiori a quelli previsti dalla legge. Uno sciopero nella fabbrica di trasmissioni Honda Nanhai, nella provincia del Guangdong [vedi China Labour Bulletin 20 maggio 2015], ha scatenato un’ondata di scioperi di massa nell’industria automobilistica durante l’estate del 2010”. [p. 55-57]
Il libro affronta il tema dell’oppressione delle donne e della resistenza femminista. La privatizzazione ha aggravato l’oppressione delle donne. In passato, le aziende pubbliche fornivano ai propri dipendenti alloggi, assistenza sanitaria, servizi di assistenza all’infanzia e assistenza agli anziani. La privatizzazione ha comportato la perdita di questi servizi.
I genitori devono pagare servizi di assistenza all’infanzia privati, prendersi cura dei propri figli a casa o, nel caso di molti lavoratori migranti, chiedere ai nonni nel loro villaggio d’origine di occuparsene.
«Oggi la Cina è uno dei pochi paesi al mondo in cui la spesa pubblica per l’assistenza all’infanzia sotto i tre anni è pari a zero». [p. 64]
Questa situazione aggrava il carico che grava sulle donne e ha contribuito ad aumentare il divario salariale tra uomini e donne.
Alcune donne si sono organizzate per cercare di migliorare la situazione. Un gruppo chiamato “Youth Feminist Activism” (Attivismo femminista giovanile) ha
«condotto campagne, organizzato manifestazioni, intentato cause legali, creato piattaforme sui social media, messo in scena spettacoli teatrali e organizzato marce, chiedendo riforme per combattere la discriminazione e la violenza contro le donne in tutta la società». [p. 71-72]
Cinque leader del gruppo sono state arrestate nel 2015.
Questioni nazionali in Cina
La Cina conta 56 etnie ufficialmente riconosciute, ma il 92% della popolazione appartiene alla maggioranza Han. Le minoranze vivono principalmente nelle regioni periferiche della Cina.
Queste regioni hanno vissuto diverse rivolte:
«Dal 2008 al 2020, la periferia della Cina è stata teatro di un’intensa resistenza sociale. Questo periodo di dodici anni è stato caratterizzato da sconvolgimenti di massa in Tibet, Xinjiang e Taiwan. Hong Kong ha vissuto due episodi spettacolari di insurrezione di massa, il primo nel 2014 e poi di nuovo nel 2019». [p. 77]
Questi eventi hanno avuto diverse cause immediate, ma
«a differenza del carattere delle proteste nelle regioni centrali della Cina, sono stati tutti caratterizzati da un’aperta ostilità nei confronti dello Stato cinese». [p. 77]
Per quanto riguarda il Tibet, gli autori affermano:
«Sebbene la crescita del PIL della regione sia stata impressionante, la maggior parte dei posti di lavoro qualificati e delle opportunità imprenditoriali sono andati ai coloni Han… La discriminazione anti-tibetana sul mercato del lavoro è ben documentata…I coloni Han nelle regioni tibetane sono stati i principali beneficiari dell’aumento della spesa pubblica per le infrastrutture, progetti che spesso hanno comportato lo sfollamento e l’espropriazione delle popolazioni tibetane». [p. 81]
Oltre alla repressione della cultura tibetana, la discriminazione economica ha portato a «un risentimento latente nei confronti del dominio coloniale Han». [p. 82] Gli autori affermano che: «Di fronte a tale oppressione nazionale, i tibetani affermano il loro diritto all’autodeterminazione nazionale e il diritto di plasmare il proprio futuro come meglio credono». [p. 83]
La situazione è simile nello Xinjiang [nord-ovest]:
«Il governo centrale ha finanziato grandi progetti infrastrutturali e incoraggiato gli investimenti privati nella regione…Tuttavia, gli uiguri hanno beneficiato solo in misura limitata dell’impressionante crescita economica dello Xinjiang, i cui frutti sono andati in gran parte ai coloni han. Questa disuguaglianza razziale è il risultato di una discriminazione nell’istruzione e nel mercato del lavoro. Per progredire nel sistema di istruzione superiore cinese è necessario padroneggiare il mandarino, il che pone i madrelingua uiguri (così come i parlanti tibetani, kazaki e di altre lingue minoritarie) in una situazione di netto svantaggio». [p. 84]
Questa situazione ha portato a rivolte razziali nel 2009, seguite da
«un’insurrezione di bassa intensità e talvolta violenta [che] covava da anni. I uiguri hanno condotto numerosi attacchi con coltelli contro le stazioni di polizia nello Xinjiang». [p. 85]
Lo Stato cinese ha lanciato una «guerra popolare contro il terrorismo» per sradicare «l’estremismo islamico». Gli autori descrivono questa «guerra» come segue:
«Nel 2017, lo Stato aveva costruito enormi campi, eufemisticamente chiamati «centri di rieducazione», dove ha imprigionato centinaia di migliaia di musulmani. Sebbene il pretesto fosse che si trattasse semplicemente di centri di formazione professionale, numerose fughe di notizie e documenti governativi accessibili al pubblico hanno rivelato che lo scopo di questi campi era quello di promuovere la «deradicalizzazione» e un senso di «unità etnica», nonché la sottomissione al regime del PCC». [p. 85]
La lingua e la cultura uigura sono state attaccate e in tutto lo Xinjiang è stato istituito un «sistema di sorveglianza distopico». [p. 85]
Le aziende occidentali hanno approfittato della repressione degli uiguri fornendo parte della tecnologia di sorveglianza e utilizzando il lavoro forzato nei campi per produrre merci destinate al mercato mondiale.
Le proteste a Hong Kong hanno riguardato principalmente questioni relative ai diritti democratici: opposizione alle leggi repressive e richieste di elezioni libere. Gli autori affermano che l’assenza di democrazia è legata all’elevato livello di disuguaglianza economica a Hong Kong, dove una ricca oligarchia controlla il governo, mentre gli alloggi sociali sono insufficienti e i poveri sono «costretti ad ammassarsi in minuscoli appartamenti con affitti esorbitanti». [p. 90] Anche la discriminazione nei confronti di chi non parla mandarino è fonte di malcontento.
Taiwan non è mai stata controllata dal PCC, ma quest’ultimo sostiene che fa parte della Cina perché un tempo faceva parte dell’impero Qing. Taiwan è stata governata dal Giappone tra il 1895 e il 1945, poi ripresa dal Kuomintang (KMT), il partito sostenuto dagli Stati Uniti che ha governato la Cina fino alla sua sconfitta da parte del PCC nel 1949.
Gli autori affermano che il popolo taiwanese considerava il KMT una «forza di occupazione brutale». Quando si ribellò, il KMT «rispose con una repressione brutale, uccidendo diverse migliaia di persone e arrestando e torturando altre migliaia». [p. 94]
Negli anni ’80, il movimento democratico taiwanese è riuscito a ottenere la liberalizzazione politica e la democrazia parlamentare. Allo stesso tempo, le riforme economiche di Deng Xiaoping [presidente dal 1983 al 1990] hanno creato opportunità nella Cina continentale per i capitalisti taiwanesi:
«Le aziende taiwanesi hanno investito somme colossali nelle zone industriali franche in piena espansione della Cina. L’esempio più famoso è quello della Foxconn [che produce tra l’altro per Apple], che ha trovato in Cina un ambiente senza sindacati, dove le autorità locali erano in grado di garantirle immensi terreni e manodopera a basso costo… Ironia della sorte, è stato proprio il KMT, l’ex nemico giurato del PCC, a sostenere una maggiore integrazione delle due economie in nome della cooperazione economica tra le due sponde dello Stretto». a basso costo… Ironia della sorte, è stato proprio il KMT, ex nemico giurato del PCC, a sostenere una più profonda integrazione delle due economie a nome della ricca élite di Taiwan». [p. 96]
Tuttavia, nel 2014, «centinaia di migliaia di persone hanno invaso le strade per esprimere la loro opposizione a un accordo commerciale neoliberista che avrebbe rafforzato l’influenza economica della Cina. Centinaia di manifestanti hanno occupato l’edificio del Yuan legislativo per settimane, mobilitando un sostegno massiccio della popolazione e riuscendo a far fallire l’accordo commerciale». [p. 97]
In sintesi, gli autori affermano:
«Così, l’aperta adesione del PCC allo sciovinismo Han e all’etnonazionalismo ha scatenato lotte per l’autodeterminazione nazionale nel suo territorio e nella sua periferia». [p. 99]
Pur riconoscendo che i politici occidentali cercano di trarre vantaggio da questi movimenti, essi affermano che la sinistra dovrebbe sostenere le lotte per la democrazia e l’autodeterminazione.
Stati Uniti e Cina
La rivalità tra Stati Uniti e Cina si intensifica:
«Come dimostra chiaramente il conflitto intorno a Taiwan, l’emergere della Cina come nuova potenza capitalista l’ha portata a un crescente scontro con gli Stati Uniti». [p. 103]
Fino alla prima amministrazione Trump, la politica statunitense nei confronti della Cina era «una combinazione di contenimento e impegno». [p. 108] Gli Stati Uniti hanno cercato di integrare la Cina nel loro ordine mondiale neoliberista.
«Allo stesso tempo, Washington rimaneva diffidente a causa della riluttanza di Pechino a piegarsi completamente ai suoi diktat e ha quindi preso precauzioni mantenendo alcuni elementi di una politica di contenimento nei confronti della Cina. Ad esempio, ha mantenuto il suo vasto arcipelago di basi militari nella regione Asia-Pacifico e ha pattugliato regolarmente le sue acque, compreso lo stretto di Taiwan, con portaerei e corazzate». [p. 109]
Trump ha adottato un approccio più apertamente ostile, lanciando una guerra tariffaria e tentando di porre fine ai trasferimenti di tecnologia tra aziende statunitensi e cinesi. Biden ha ampiamente proseguito questa politica. Gli autori commentano:
«Questo conflitto ha innescato una logica di ristrutturazione della globalizzazione, frammentando il sistema in blocchi di sicurezza nazionale rivali in alcuni settori economici strategici, pur mantenendo le catene di approvvigionamento globali in altri». [p. 121]
Esiste anche una «corsa agli armamenti nella regione», con gli Stati Uniti, la Cina e altri Stati che aumentano le spese militari. [p. 122]
Ambiente
La Cina è diventata il maggiore emettitore mondiale di anidride carbonica nel 2006. Nel 2019, le emissioni annuali di anidride carbonica della Cina erano doppie rispetto a quelle degli Stati Uniti. L’industrializzazione ha anche portato all’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria.
Questi problemi sono il risultato dello sviluppo capitalistico della Cina:
«Le multinazionali… hanno delocalizzato gran parte delle loro “industrie inquinanti” in Cina, dove la normativa ambientale era e rimane poco rigorosa». [p. 127]
L’inquinamento ha dato luogo a manifestazioni di massa:
«In realtà, il malcontento e la resistenza popolare hanno costretto lo Stato ad adottare misure che rimediano almeno in parte al degrado ambientale. Ad esempio, le critiche popolari degli abitanti delle grandi città come Pechino contro l’inquinamento atmosferico hanno spinto il governo a chiudere o delocalizzare le industrie altamente inquinanti». [p. 130-131]
Solidarietà internazionale
Nel contesto dell’intensificarsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina, gli autori invocano la solidarietà internazionale:
«I leader dei due Stati ricorrono al nazionalismo per deviare la rabbia popolare verso i popoli oppressi e i loro rivali imperialisti. Allo stesso tempo, l’aumento dello sfruttamento e dell’oppressione ha provocato e continuerà a provocare intense lotte tra i lavoratori e gli oppressi negli Stati Uniti e in Cina. In questo contesto, la sinistra deve adottare un approccio chiaro volto a costruire una solidarietà internazionale dal basso contro i due Stati imperialisti e le loro classi dirigenti» [p. 163].
Aggiungono:
«Il nostro lavoro consiste nel tessere reti, per quanto rudimentali, tra militanti negli Stati Uniti, in Cina e altrove, che in futuro potranno rendere la solidarietà reciproca dal basso una forza in grado di opporsi al capitalismo mondiale, al nazionalismo delle grandi potenze e alle rivalità interimperialistiche che esse alimentano». [p. 175]
*Articolo pubblicato sul sito Links.org l’8 maggio 2025.
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