Alla vigilia del 1° maggio, la Confederazione europea dei sindacati (CES) ha pubblicato il 28 aprile 2025 un comunicato stampa intitolato: «L’epidemia di stress sul lavoro uccide 10’000 persone all’anno». Queste cifre si basano su uno studio che valuta la percentuale di malattie cardiovascolari e depressioni attribuibili ai rischi psicosociali sul lavoro [1].
Con questa presa di posizione, la CES vuole «chiedere nuovamente oggi alla Commissione europea di presentare con urgenza una direttiva sui rischi psicosociali nell’ambito di un pacchetto sul lavoro di qualità. Tale direttiva dovrebbe imporre ai datori di lavoro l’obbligo di identificare i rischi psicosociali attraverso adeguate valutazioni dei rischi, con la partecipazione dei lavoratori e dei sindacati». Il comunicato cita la segretaria generale della CES, Esther Lynch: “L’Unione europea è da tempo un punto di riferimento mondiale in materia di diritti dei lavoratori. Abbiamo aperto la strada in materia di sicurezza fisica. Oggi dobbiamo dare l’esempio in materia di sicurezza mentale”.
La RTS (Radio Télévision Suisse), in particolare, ha riportato questo appello nel suo notiziario delle 12:30 del 28 aprile, citando per la Svizzera i dati pubblicati nel 2024 dall’Ufficio federale di statistica (UST) [2], che mostrano un aumento significativo in dieci anni della percentuale di lavoratori che dichiarano di essere quasi sempre o sempre stressati sul lavoro (tra il 2012 e il 2022, dal 17% al 25% per le donne e dal 18% al 21% per gli uomini).
Il fatto che l’organizzazione mantello dei sindacati europei sollevi nuovamente la questione delle condizioni di lavoro e del loro impatto sulla salute dei lavoratori non può che essere accolto con favore. L’importanza dei rischi psicosociali sul lavoro è indiscutibile [3]. La loro forte crescita è stata evidenziata già all’inizio degli anni ’90 [4] ed è stata chiaramente associata all’intensificazione del lavoro imposta dai datori di lavoro, sulla scia della lunga crisi occupazionale iniziata a metà degli anni ’70, alla ristrutturazione degli apparati produttivi e al conseguente aumento della disoccupazione, dagli attacchi al diritto del lavoro condotti dai governi europei e dai colpi inferti in questo contesto alla capacità dei lavoratori di organizzarsi collettivamente per difendersi dalle richieste dei datori di lavoro.
«Abolire la giornata lavorativa di otto ore: bene, ma non basta!»
Ma che senso può avere oggi l’appello rivolto dalla CES alla Commissione europea di Ursula von der Leyen? Prendiamo un esempio: la durata dell’orario di lavoro. Le lunghe giornate lavorative costituiscono un rischio per la salute. L’esposizione a lunghe giornate lavorative è uno dei cinque rischi psicosociali responsabili dei 10’000 decessi denunciati dalla CES. Il 26 aprile, due giorni prima del comunicato della CES, il quotidiano borghese Neue Zürcher Zeitung titolava: «La CDU e la SPD vogliono abolire la giornata lavorativa di otto ore in Germania. È un passo avanti, ma non è sufficiente». Nell’articolo si apprende che la nuova coalizione di governo tedesca vuole sostituire la durata giornaliera del lavoro di otto ore con una durata settimanale. A tal fine, si basa sulla direttiva europea sull’orario di lavoro, che fissa una durata massima settimanale di 48 ore, compreso il lavoro straordinario. Questo cambiamento risponde alle esigenze dei datori di lavoro che vogliono poter modulare la durata giornaliera del lavoro in base ai propri obiettivi di redditività e imporre, se lo ritengono opportuno, giornate lavorative molto lunghe e dannose per la salute. Ma l’appetito dei padroni non si ferma qui. La NZZ cita Oliver Stettes, esperto del mercato del lavoro presso l’Institut der deutschen Wirtschaft (IW), un think tank vicino agli ambienti borghesi: «Per avere più crescita, i tedeschi non dovrebbero solo essere più flessibili, ma anche lavorare di più».
In realtà, sono ormai molti mesi che i circoli padronali e borghesi stanno conducendo una campagna in tutta Europa – Svizzera compresa! – sul tema della «necessità di lavorare di più». Gli shock causati dall’offensiva economica e commerciale degli Stati Uniti e dall’accelerazione del massiccio riarmo dell’Europa rafforzano la dinamica politica che combina attacchi ai diritti sociali e pressioni sempre più forti sui lavoratori nelle aziende. Tutto questo in un contesto in cui i governi nazionali dei paesi membri dell’Unione europea sono sempre più orientati (molto) a destra e in cui la nuova Commissione europea, presieduta da Ursula von Leyen, è la più a destra e la più favorevole agli interessi padronali da molto tempo.
«Il capitale non ha scrupoli quando si tratta della salute e dell’aspettativa di vita del lavoratore…»
Un secolo e mezzo fa, Marx analizzava nel primo libro de Il capitale la questione della «lotta per la giornata normale di lavoro». Estratti che parlano anche dell’intensificazione del lavoro, poiché quest’ultima «comporta un aumento del dispendio di lavoro nello stesso lasso di tempo» [5] e quindi a un’altra forma di aumento dell’orario di lavoro: «Qui non è la normale conservazione della forza lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa, ma al contrario il massimo dispendio di forza lavoro possibile in una giornata, per quanto traumatico e penoso esso sia, a fissare il limite del tempo di riposo del lavoratore. Il capitale non si pone domande sulla durata della forza lavoro. Ciò che gli interessa è solo ed esclusivamente il massimo della forza lavoro che può essere ricavata in una giornata di lavoro. Egli raggiunge questo obiettivo riducendo la longevità della forza lavoro, come un agricoltore avido ottiene un rendimento maggiore dal suo terreno privandolo della sua fertilità. […] Questo è il motto di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista. Il capitale non ha quindi alcun scrupolo riguardo alla salute e all’aspettativa di vita del lavoratore, se non è costretto dalla società. A tutte le lamentele riguardanti il degrado fisico e intellettuale, la morte prematura, la tortura del lavoro eccessivo, egli risponde: e perché questi tormenti dovrebbero tormentarci, dal momento che aumentano il nostro piacere (il profitto)? Ma, nel complesso, ciò non dipende nemmeno dalla buona o cattiva volontà del singolo capitalista. La libera concorrenza impone a ogni singolo capitalista le leggi immanenti della produzione capitalistica, come leggi che lo vincolano dall’esterno. La fissazione di una norma per la giornata lavorativa è il risultato di una lotta secolare tra capitalisti e lavoratori». [6] La diagnosi e la conclusione non hanno perso un briciolo di attualità.
Agire sul posto di lavoro
Nel 2015, le edizioni La Découverte hanno pubblicato un’opera collettiva di riferimento [7] sulle condizioni di lavoro e il loro impatto sulla salute. Nell’introduzione alla quarta parte, «Agire sui rischi, istruzioni per l’uso», Laurent Vogel, ricercatore in salute sul lavoro presso l’Istituto sindacale europeo (ETUI), creato dalla CES, ha richiamato l’attenzione sulla « differenza tra una prevenzione burocratica o formale e cambiamenti nell’organizzazione del lavoro che garantiscono la salute e la vita umana [differenza che risiede nella ] dinamica sociale, ovvero le innumerevoli mobilitazioni di conoscenze e forme di azione collettiva.» (p. 384). Più avanti aggiungeva: «Nell’attuale contesto di paralisi delle politiche europee in materia di salute sul lavoro, il ruolo dell’azione collettiva dei lavoratori è sempre più importante. Il movimento di riforme “dall’alto” legato alle direttive europee non sarà più in grado di apportare cambiamenti significativi finché la pressione dal basso non avrà stabilito un rapporto di forza più favorevole». (p. 386) Di che far fischiare le orecchie!
Già negli anni ’90 del secolo scorso, l’ETUI e Laurent Vogel hanno contribuito a diffondere un approccio alle questioni della salute sul lavoro basato in particolare su indagini condotte nelle imprese, con la partecipazione congiunta dei lavoratori e di specialisti impegnati nelle questioni dell’organizzazione del lavoro, con l’obiettivo di costruire una consapevolezza condivisa dai lavoratori sulle condizioni di lavoro imposte dai datori di lavoro e sulle minacce che queste rappresentano per la salute e, sulla base di questa consapevolezza, di sviluppare una capacità di azione collettiva per imporre cambiamenti, sul posto di lavoro, ma anche a livello convenzionale o normativo.
È questa la strada da riprendere per difendere la salute sul lavoro, e non quella delle richieste, anche «urgenti», rivolte alla Commissione di Ursula von der Leyen.
*articolo apparso sul sito alencontre il 1° maggio 2025
[1] Hélène Sultan-Taïeb, Tania Villeneuve, Jean-François Chastang e Isabelle Niedhammer (2023), The fractions and burden of cardiovascular diseases and depression attributable to psychosocial work exposures in the European Union, ETUI, Bruxelles
[2] UST (2024), Indagine svizzera sulla salute Condizioni di lavoro e stato di salute, tra il 2012 e il 2022, Neuchâtel
[3] Ciò non significa che i rischi fisici abbiano perso importanza, contrariamente a quanto suggerisce, ad esempio, la psicologa del lavoro Anny Wahlen durante il programma 12h30 del 28 aprile, quando afferma che «da ormai decenni sono stati compiuti sforzi enormi per la salute fisica. Ed è vero che oggi i rischi si sono spostati verso problematiche piuttosto emotive, psicologiche o relazionali sul lavoro». Pertanto, i dati per la Svizzera mostrano complessivamente una stabilità nella frequenza dei rischi fisici tra il 2012 (e persino il 2007) e il 2022, con un aumento dei movimenti ripetitivi del braccio e della mano. Come stupirsi se ci si ferma un attimo a pensare al lavoro concreto che devono svolgere le persone attive in settori come l’assistenza, la cura degli anziani o della prima infanzia, o ancora la logistica, tutti settori in forte crescita occupazionale? In realtà, è il cumulo e la combinazione di rischi fisici e psicosociali che caratterizzano le condizioni di lavoro delle persone attive in questi settori, ma anche in settori come l’edilizia, la vendita o l’industria alberghiera e della ristorazione.
[4] Cfr. in particolare l’analisi di Michel Gollac e Serge Volkoff (1996), « Citius, altius, fortius, l’intensificazione del lavoro », Atti della ricerca in scienze sociali n. 114
[5] Karl Marx, Il capitale, libro 1, Editions sociales, Les essentielles, 2016, p. 503
[6] Idem, pp. 258, 262-263
[7] Annie Thébaud-Mony, Philippe Davezies, Laurent Vogel e Serge Volkoff (2015), Les risques au travail. Pour ne pas perdre sa vie à La gagner, La Découverte