Italia. Sui referendum abbiamo perso, ripartiamo dai movimenti sociali

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Pubblichiamo questa presa di posizione dei nostri compagni e compagne di Sinistra Anticapitalista. Si tratta di un bilancio lucido delle ragioni e del contesto che hanno portato alla sconfitta sui referendum lo scorso 8 e 9 giugno, a cui si aggiungono alcune piste di riflessione e di azione per costruire un’alternativa a questo stato di cose. (Red)

I referendum su lavoro e cittadinanza, come era ampiamente prevedibile, non hanno raggiunto il quorum della metà più uno degli elettori. E’ una ulteriore sconfitta sia per la classe lavoratrice che per la civiltà, una ulteriore conferma del clima politico degenerato, in cui i padroni fanno il bello e il cattivo tempo, anche in spregio dei principi fondamentali di giustizia, democrazia e solidarietà umana.

Hanno votato solo il 30% degli aventi diritto, circa 15 milioni di persone, oltre 10 milioni in meno di quelle che sarebbero state necessarie. Di questi circa 12 milioni hanno votato sì ai quattro quesiti della Cgil (tra l’87% e l’89%), solo 9 milioni al quesito sulla cittadinanza. Un numero molto basso anche in considerazione del fatto che i lavoratori e le lavoratrici dipendenti sono circa 19 milioni, senza contare i/le pensionati/e, disoccupati/e e chi lavora a nero. Un referendum che non ha mobilitato neanche la totalità della classe lavoratrice, ancora ben lontana dal percepire che difendere i diritti dei suoi settori più deboli è fondamentale per invertire i rapporti di forza sociali. Particolarmente grave il segnale che emerge dal risultato del quesito sulla cittadinanza, che ottiene solo il 65% dei sì e che probabilmente sarebbe stato sconfitto anche nel caso in cui il quorum fosse stato raggiunto grazie ad una maggiore affluenza al voto di elettori presumibilmente orientati a destra.

Rimarranno in vigore le norme che rendono più facili i licenziamenti dei lavoratori e delle lavoratrici, anche quelli illegittimi, a fronte dei quali non si potrà più pretendere il reintegro e nelle piccole aziende l’eventuale risarcimento non potrà superare sei mensilità di retribuzione; le imprese appaltanti continueranno ad essere deresponsabilizzate sulla sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici; si potranno continuare a utilizzare contratti di lavoro precari a tempo determinato senza neanche la necessità di una causale; infine i lavoratori e le lavoratrici migranti continueranno a rimanere per almeno dieci anni discriminati e maggiormente ricattabili, privati dei diritti di cittadinanza pur vivendo, lavorando e pagando i tributi in Italia.

Il governo esce rafforzato

Pur non essendo i quesiti referendari diretti contro norme di legge poste in essere delle attuali forze politiche di Governo, sono proprio le forze di destra che esultano per il fallimento dei referendum. Questo dimostra in maniera lampante il legame indissolubile delle destre con le classi dominanti e il loro disprezzo per i diritti di chi lavora.

Oggettivamente la destra al governo esce rafforzata da questo esito. Hanno scommesso sull’astensione per far fallire i referendum, utilizzando un ventre molle popolare ampiamente spoliticizzato che ormai non vota più, tanto che anche alle ultime elezioni europee del 2024 avevano votato meno della metà degli aventi diritto. Saranno da analizzare approfonditamente i flussi elettorali, tuttavia è probabile che coloro che non votano per le elezioni politiche non siano andati a votare neanche quando c’era da decidere direttamente nel merito di alcune norme di legge. Ancora una volta non ci si può illudere delle potenzialità “sovversive” di chi si astiene.

A poco vale la consolazione dei partiti del cosiddetto campo largo, soddisfatti del fatto che il numero dei sì sarebbe superiore a quello ottenuto alle elezioni europee dalle forze di maggioranza. Se è vero che Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega avevano ottenuto “solo” 11 milioni di voti nel 2024, oggi queste forze si intestano un’egemonia sulla grande maggioranza degli elettori che a votare non ci è andata. In questo senso ha fatto male il centrosinistra a politicizzare il referendum, presentandolo come una consultazione sull’operato del governo.

La medaglia del peggiore tra le forze del campo largo va a quel Movimento 5 Stelle, che non ha dato indicazione di voto sul referendum sulla cittadinanza, accarezzando un senso comune razzista e di destra, come fece già nel 2018 quando accettò di governare con la Lega. La natura interclassista (ma con una direzione piccolo borghese) di questa formazione politica non si è smentita neanche in questo frangente. Anche il PD non era affatto compatto nella sua indicazione di voto, con una parte del gruppo dirigente rimasto ancorato all’impostazione renziana, e con una parte del suo elettorato che, come emerge dalle prime analisi dei flussi, pare abbia votato no al quesito sulla cittadinanza.

Dopo la conversione in legge del decreto sicurezza e il risultato dei referendum, il governo postfascista italiano è sempre più pericoloso. Con il decreto sicurezza, un provvedimento fortemente repressivo e antidemocratico, si minacciano le lotte che possiamo mettere in campo in futuro, instaurando un clima interno coerente con i venti di guerra. La prossima partita fondamentale è quella militarista, dei cospicui investimenti sul riarmo proposti dalla commissione europea e accolti con entusiasmo dalla destra nostrana così come dalle destre che si stanno facendo strada in Europa.

Il referendum non è lo strumento adeguato

Sinistra Anticapitalista non è stata tra i promotori dei quesiti, tuttavia ha partecipato alla campagna referendaria dando indicazione di votare cinque sì. Non abbiamo scelto noi questo terreno di battaglia, ma non ci siamo sottratti dal condurla con tutte le forze militanti di cui disponiamo.

Quando ci siamo trovati di fronte alla possibilità di ingaggiare questa battaglia sui diritti del lavoro e dei/delle migranti non abbiamo esitato, e comunque al di là del risultato è stato importante riaprire il dibattito sul lavoro e sulla cittadinanza e discuterne nei mercati, nei quartieri, sui posti di lavoro. Due leggi, il Jobs Act e la legge sulla cittadinanza, che sono veri e propri cardini dello sfruttamento del lavoro, che tengono sotto ricatto lavoratrici e lavoratori, sottoponendoli ancora di più al potere padronale, l’una con la minaccia del licenziamento, l’altra con quella dell’espulsione, essendo i permessi di soggiorno condizionati all’occupazione. Completano il quadro l’impunità dei padroni sulla sicurezza, con una strage sui posti di lavoro che miete in media tre vittime al giorno e il dilagare della precarietà con l’utilizzo indiscriminato di contratti a termine.

Questa battaglia tuttavia ha dimostrato ancora una volta, come fu nel 1984 mutatis mutandis sulla scala mobile, che il referendum non può essere considerato lo strumento principale a cui affidare le conquiste – o anche la semplice difesa dei diritti – della classe lavoratrice. Sarebbe facile citare il Marx della Prima Internazionale, secondo cui “l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi”, per ricordare che non si può rimettere ad un referendum, in cui ha diritto di voto anche la borghesia, il destino di chi vive del proprio lavoro. Se poi pensiamo al referendum sulla cittadinanza, su cui le persone direttamente interessate non avevano neanche il diritto di voto, l’errore è ancora più evidente. 

E’ vero che grazie ai referendum si sono vinte importanti battaglie di civiltà (il divorzio, l’aborto, la caccia, il nucleare, l’acqua pubblica), ma intanto si trattava per l’appunto di questioni che riguardavano tutta la società e su cui i settori più avanzati della classe lavoratrice e dei movimenti sociali erano riusciti a costruire egemonia, grazie anche alla propria forza soggettiva, alla capacità di organizzarsi e vincere innanzi tutto sui posti di lavoro, in famiglia e nella società in generale. Il senso comune su quei temi era più avanzato del legislatore. Oggi su lavoro e cittadinanza non è evidentemente così. 

Il referendum è inoltre uno strumento distorto di democrazia diretta, che è possibile entro limiti molto stringenti (e le destre stanno già proponendo di renderli ancora più stringenti, aumentando il numero di firme necessarie per richiederlo). Non si può richiederlo su diverse materie, in particolare quelle che modificherebbero il bilancio; necessita di un quorum di partecipazione che da oltre trent’anni si fa fatica a raggiungere; permette solo di cancellare norme di legge già approvate o di confermare riforme costituzionali che non abbiano ottenuto una maggioranza qualificata in Parlamento. Ma soprattutto, il referendum è ben lungi da una vera democrazia diretta. In questa le assemblee sul posto di lavoro o territoriali potrebbero prendere decisioni su ciò che le riguarda direttamente o eleggere rappresentanti temporanei e revocabili in assemblee di ordine superiore per decidere questioni più ampie, in una discussione che permetterebbe di esprimersi e confrontarsi su diverse proposte, anziché decidere solo “sì” o “no” su quesiti determinati. Questa è la democrazia diretta che vogliamo costruire con l’ecosocialismo. I referendum odierni sono solo un simulacro di democrazia diretta, senza contare l’influenza sul voto dei mezzi di comunicazione di massa, ivi compresi i moderni social network, su cui la classe lavoratrice non ha ovviamente nessun controllo. Basti pensare al silenzio mediatico calato intorno a questa scadenza referendaria o alla censura sistematica delle manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese.

Soprattutto in questa fase storica, in cui l’egemonia del capitale e della destra politica è così forte sulla società in Italia come nel resto del mondo, affidare i destini di chi lavora e dei migranti al voto referendario è stata una decisione avventurista, che ha esposto la classe ad una sconfitta del tutto prevedibile, rischiando di indebolire anche le altre battaglie che sono in campo. Forse quando Landini ha pensato di lanciare i referendum della Cgil si è affidato al possibile traino di un sesto quesito, che non è stato ammesso al voto dalla Corte Costituzionale, quello sull’autonomia differenziata. Probabilmente neanche quel quesito avrebbe permesso il raggiungimento del quorum, come ha testimoniato la difficoltà di mobilitare la società in questi anni contro questo ulteriore progetto eversivo delle destre, condiviso anche da settori di centrosinistra nelle regioni del Nord. Questo argomento non può comunque essere una giustificazione, a fronte di una direzione della Cgil che, anziché porsi in modo combattivo e radicale nel conflitto sociale, ha spostato la battaglia sul terreno referendario, come testimoniato dallo slogan “Il voto è la nostra rivolta!”. Bisogna fare i conti con una massa di persone, nelle periferie e tra la stessa classe lavoratrice,  spoliticizzata e desindacalizzata in conseguenza della sconfitta storica del movimento operaio, dei continui arretramenti sul piano salariale e dei diritti, dei tradimenti di chi avrebbe dovuto rappresentarla e le disillusioni sulle esperienze riformiste, della mancanza di movimenti sociali significativi, in grado di invertire i rapporti di forza tra le classi.

I diritti e l’egemonia si riconquistano con gli scioperi

Archiviato il referendum, è ora di tornare a pensare a come difendersi dal governo delle destre e dallo strapotere padronale e riconquistare diritti e salari. In controtendenza con le elezioni politiche e i referendum, le recenti elezioni delle rappresentanze sindacali nei settori pubblici hanno visto una partecipazione al voto molto alta (circa il 70%), e la Cgil è risultato il primo sindacato in tutti i comparti del lavoro pubblico. E’ proprio dai luoghi di lavoro e dalle rappresentanze sindacali che bisogna ripartire per costruire un modo diverso di fare sindacato, conflittuale e solidale. L’emergenza salariale va affrontata con decisione, lottando per ottenere rinnovi contrattuali che restituiscano dignità al lavoro, in particolare nei settori pubblici e tra i metalmeccanici, i cui contratti collettivi sono scaduti e non sono stati ancora rinnovati. Se i metalmeccanici si stanno mobilitando con diversi scioperi (circa 40 ore ad oggi), troppo poco si sta facendo nei settori pubblici, dando per scontato che non ci siano le risorse per garantire il recupero dell’inflazione nel triennio 2022-2024 e rinunciando nei fatti ad attivare una mobilitazione decisa e continuativa per ottenere che il governo stanzi queste risorse.

Anche sul terreno della difesa dell’occupazione e dell’ambiente c’è tanto da fare. L’esperienza dei lavoratori GKN, ancora in campo per costruire una proposta di fabbrica socialmente integrata e finanziata dall’intervento pubblico, segna la strada per una risposta generale alla crisi industriale e ambientale che attanaglia diversi settori del lavoro. La necessaria riconversione ambientale e digitale della produzione non può essere lasciata al mercato capitalistico, che produce disoccupazione di massa, devastazione dell’ambiente e concorrenza al ribasso tra le lavoratrici e i lavoratori di diversi paesi. E’ necessario che la classe lavoratrice si mobiliti per un massiccio intervento pubblico per la riconversione ecologica dell’economia, mantenendo i posti di lavoro.

Per ottenere queste conquiste bisogna tornare a scioperare sul serio, come ci hanno insegnato le lotte che hanno portato all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 o come più recentemente abbiamo visto fare in Francia contro la riforma delle pensioni. Lo strumento dello sciopero deve tornare ad essere centrale per la ricostruzione di un nuovo movimento operaio. La costruzione dello sciopero generale serve a cementare la solidarietà nella lotta tra i vari settori della classe lavoratrice, a restituire fiducia tra le lavoratrici e i lavoratori nella capacità di autorganizzarsi e di vincere con la lotta. Solo una classe lavoratrice cosciente della propria forza può sperare di costruire un blocco sociale intorno a sé e l’egemonia per contrastare la barbarie capitalista e autoritaria.

I sindacati dovrebbero organizzare e mobilitare la classe lavoratrice con un approccio intersezionale, riappropriarsi dello strumento dello sciopero e appoggiarlo quando questo viene messo in atto anche da altri movimenti. Ad esempio lo sciopero dei movimenti femministi e transfemministi che da anni Non Una Di Meno convoca l’8 marzo contro patriarcato e violenza di genere, intrecciando le istanze femministe con quelle della classe lavoratrice, autoctona o migrante che sia. In questa ottica dovrebbe essere massimo l’impegno del sindacato per la riuscita della mobilitazione contro il riarmo europeo del 21 giugno.

Le mobilitazioni in campo e i nostri impegni futuri

L’effetto peggiore di questa sconfitta referendaria potrebbe essere la demoralizzazione degli attivisti politici, sociali e sindacali, che si sono generosamente impegnati in questa campagna. Eppure da qualche mese assistiamo ad una ripresa di mobilitazioni sociali importanti, che vanno continuate ed approfondite nelle prossime settimane. I nove milioni di voti di chi ha votato sì ai cinque quesiti sono certo insufficienti per vincere sul terreno referendario, ma se una parte consistente di queste persone si mobilitassero, scendendo in piazza o partecipando agli scioperi nelle prossime settimane, dimenticheremmo presto questa sconfitta e sarebbe l’inizio di una nuova stagione politica in cui la solidarietà di classe tornerebbe ad essere protagonista.

Il movimento contro il genocidio e per la solidarietà con il popolo palestinese sta scendendo in piazza in questi giorni per protestare contro l’arresto della Freedom Flottilla: un gruppo di attivisti che con Greta Thunberg ha cercato di portare solidarietà e aiuti in Palestina ed è stato attaccato dall’esercito israeliano con sostanze urticanti e poi arrestato illegalmente. Il genocidio perpetrato da Israele deve finire e i governi occidentali devono interrompere immediatamente ogni sorta di complicità con il governo criminale di Netanyahu. Vogliamo uno sciopero generale per protestare contro gli accordi commerciali e militari tra l’Italia, l’UE e Israele.

Sosteniamo la rivolta in corso a Los Angeles contro la politica razzista e autoritaria dell’amministrazione Trump contro i migranti e chi si sta mobilitando in solidarietà. Le politiche del governo italiano sui rifugiati e l’approvazione del decreto sicurezza vanno nella stessa direzione. Chiudiamo i CPR anche in Italia, gli immigrati non possono essere detenuti come criminali. Mobilitiamoci per l’accoglienza e la libertà di movimento delle persone.

Il 20 giugno è previsto uno sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto, una occasione fondamentale per dimostrare che il sindacato e i lavoratori non si piegano di fronte all’arroganza padronale e del governo. La maggioranza di destra ha liquidato le proposte di legge per il salario minimo sostenendo ipocritamente che i salari minimi vanno garantiti e aumentati attraverso la contrattazione collettiva. Ebbene il momento di alzare significativamente i salari è arrivato!

Il 21 giugno ci sarà a Roma la manifestazione nazionale nell’ambito della campagna Stop Rearm EU, che prevede mobilitazioni in tutta Europa in occasione del vertice Nato che si terrà a L’Aja, per protestare contro il piano di riarmo presentato dalla commissione europea, contro l’aumento delle spese militari, in solidarietà con la Palestina e contro l’autoritarismo. Noi saremo in piazza contro tutti gli imperialismi, a partire da quello europeo e della Nato ma anche contro la guerra che l’imperialismo russo continua a condurre contro il popolo ucraino.

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