Lo scontro sino-americano per il controllo del digitale

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Tutti con Trump. Il clamoroso voltafaccia della Silicon Valley è un evento di grande rilevanza nella politica americana contemporanea. Tradizionalmente vicini al Partito Democratico, i miliardari del digitale si sono schierati con Donald Trump al momento della sua nomina a presidente degli Stati Uniti nel 2025 e da allora costituiscono uno dei pilastri del blocco al potere a Washington.

Questa evoluzione porta direttamente alle contraddizioni del capitalismo globale. Certo, l’adesione della Silicon Valley a Trump ha anche radici statunitensi: con Lina Khan a capo dell’autorità garante della concorrenza, l’amministrazione Biden aveva cercato di frenare la monopolizzazione del digitale 1. Inoltre, un pericolo di tutt’altra portata minaccia la Silicon Valley dall’altra sponda dell’Oceano Pacifico. Negli ultimi 20 anni, la Cina ha conosciuto uno sviluppo tecnologico spettacolare. Oggi, i giganti digitali cinesi competono seriamente con i loro avversari americani. È difficile sopravvalutare la posta in gioco: infatti, essa va ben oltre una semplice battaglia in cui le multinazionali di entrambe le sponde del Pacifico cercano di conquistare quote di mercato; in realtà, la battaglia riguarda il controllo del mercato mondiale in quanto tale. Per rendersene conto, è necessario procedere a un’analisi del capitalismo mondiale contemporaneo. Tale esame permette di comprendere la radicalizzazione della Silicon Valley, che sostiene una politica americana sempre più aggressiva, i cui effetti non risparmiano nessun altro paese al mondo – basti pensare alla politica doganale del presidente Trump. Tracciamo quindi i contorni della componente digitale della rivalità sino-americana per comprendere meglio la tempesta che sta scuotendo la politica mondiale.

L’infrastruttura del capitalismo mondiale

Di solito, la globalizzazione è definita come « una crescente interconnessione su scala mondiale », che risulterebbe soprattutto « dall’aumento dei movimenti di capitali finanziari, beni e servizi » 2. Tuttavia, la globalizzazione non è solo la moltiplicazione dei flussi, ma anche una dinamica politica. La dimostrazione di questo fatto è una delle principali conquiste della ricerca in economia politica internazionale: sembra quindi che la globalizzazione sia un processo sotto la supervisione degli Stati Uniti 3. Questi ultimi hanno dato impulso alla creazione di un vero e proprio mercato mondiale, intervengono come pompieri capo durante le crisi e controllano le infrastrutture su cui esso si basa.

Il riferimento alle infrastrutture merita una precisazione: la nostra concezione di infrastruttura va quindi oltre la definizione convenzionale che comprende dispositivi come strade, dighe e reti elettriche. Queste ultime fanno parte delle infrastrutture fisiche, ma il mercato mondiale si basa anche su infrastrutture monetarie (che rendono possibili i pagamenti), tecniche (norme e regolamenti tecnici), militari (basi militari) e digitali (tecnologie all’avanguardia). Solo in presenza di tutte queste infrastrutture l’offerta e la domanda possono effettivamente incontrarsi su scala mondiale.

Per cogliere la portata euristica 4 di questa ampia concezione di infrastruttura, è opportuno aggiungere il concetto di « potere strutturale » 5. A complemento delle concezioni tradizionali del potere come capacità dell’attore A di dettare direttamente la condotta dell’attore B, il potere strutturale si riferisce alla capacità di uno Stato di determinare le condizioni di partecipazione degli Stati, delle imprese e di altri attori agli affari mondiali. Decidere il quadro di un’interazione significa incanalarne il risultato, senza tuttavia intervenire direttamente. Le infrastrutture in senso lato incarnano concretamente il potere strutturale. In altre parole, l’esercizio del potere strutturale passa di fatto attraverso il controllo delle infrastrutture che altri attori devono utilizzare per effettuare transazioni.

Il controllo delle infrastrutture su cui si basa la globalizzazione è sia una garanzia di profitti eccezionali che una fonte di potere politico extraterritoriale. Per quanto riguarda l’aspetto economico, le «risorse vengono estratte in modo più efficiente in modo invisibile, cioè attraverso la conformità di routine e non la coercizione »6. È proprio la loro natura tacita che trasforma le infrastrutture in un vettore di prosperità fuori dal comune. Allo stesso tempo, le infrastrutture offrono un potere di intervento unico a chi le controlla. Il concetto di collo di bottiglia aiuta a comprendere meglio i contorni di questa possibilità di controllo. Esso indica i « luoghi che limitano la capacità di circolazione e non possono essere facilmente aggirati, ammesso che lo siano » 7. Controllare i colli di bottiglia significa controllare la circolazione mondiale e i relativi profitti. La moltiplicazione dei flussi commerciali e finanziari tipica della globalizzazione va quindi di pari passo con la moltiplicazione del potere dei guardiani delle infrastrutture. Ne consegue che il controllo delle infrastrutture dell’economia mondiale è una fonte di potere straordinario. Quando quest’ultimo viene messo in discussione, si verificano conflitti altrettanto straordinari. Per decenni, il controllo delle infrastrutture della globalizzazione è stato quindi un moltiplicatore di ricchezza e potere per gli Stati Uniti.

Le loro colossali conseguenze redistributive e politiche costituirebbero un motivo più che sufficiente per studiare le infrastrutture. Tuttavia, vi è un terzo motivo: se prestiamo particolare attenzione alle infrastrutture, è anche perché, più di qualsiasi controversia internazionale puntuale, per quanto spettacolare (un pallone cinese che sorvola gli Stati Uniti…), ciò che contraddistingue i conflitti sulle infrastrutture è la loro posta in gioco in termini di sostenibilità. Una volta realizzata, un’infrastruttura modella in modo duraturo i flussi globali. Le battaglie infrastrutturali producono quindi effetti persistenti, che limitano il campo delle possibilità per un periodo di tempo considerevole.

Di conseguenza, le attuali battaglie infrastrutturali tra Stati Uniti e Cina sono un indizio chiave dell’intensità della loro rivalità. Infatti, qualsiasi potenza che aspiri a mantenere o modificare le relazioni internazionali a proprio favore ha interesse a plasmare questi settori considerati tecnici, ma in realtà altamente politici. È grazie ai sistemi di pagamento, alle norme tecniche, ai canali di sorveglianza delle rotte marittime e ad altri dispositivi che le merci e i capitali possono circolare nel mondo. Senza infrastrutture non ci sono profitti, e senza profitti non ci sono Stati potenti. Questo testo conferisce quindi alle infrastrutture della globalizzazione un’importanza strategica cruciale che prefigura le linee di frattura del futuro. Dopo aver ben compreso la posta in gioco generale delle infrastrutture, possiamo ora passare alla contestazione cinese dell’infrastruttura digitale della globalizzazione 8.

Il spettacolare sviluppo tecnologico dell’infrastruttura digitale cinese

L’ambizione cinese di sostituire le infrastrutture americane con alternative incentrate sulla Cina non è mai stata così avanzata come nel settore digitale. Per comprendere che la padronanza delle tecnologie digitali all’avanguardia equivale al controllo di un’infrastruttura, è indispensabile conoscere la forma contemporanea della divisione internazionale del lavoro: la catena del valore globale. Schematicamente, piuttosto che fabbricare un prodotto dalla A alla Z in un unico stabilimento – come avveniva nel fordismo –, oggi la produzione è distribuita in una moltitudine di paesi. Dietro l’apparenza di una semplice riorganizzazione tecnica della divisione geografica del lavoro si nascondono cambiamenti importanti nei rapporti di forza tra il capitale dei paesi avanzati e quello dei paesi periferici, ma anche, più in generale, tra lavoro e capitale.

I protagonisti delle catene globali del valore sono le aziende leader. Queste multinazionali – spesso di origine americana e, in misura minore, europea – supervisionano la produzione di un bene a partire da una serie di fabbriche sparse in diversi paesi, ognuna delle quali fornisce un bene intermedio indispensabile per l’assemblaggio del bene finale, che avviene in paesi dove il costo della manodopera è basso. Questa configurazione è altamente redditizia per i leader in quanto consente di ridurre i rischi attraverso la diversificazione geografica degli insediamenti, di abbassare i costi di produzione (lavoratori, terreni, energia, materie prime, normative ambientali) e di aumentare la flessibilità. Tutte queste caratteristiche aumentano la redditività dell’azienda leader a scapito dei numerosi fornitori e, soprattutto, dei loro lavoratori.

Una volta illustrata la configurazione, sorge la domanda: come fanno le aziende leader a controllare i propri fornitori in modo da appropriarsi della maggior parte dei profitti? La risposta si trova nelle tecnologie chiave. Le aziende leader sono generalmente grandi aziende provenienti dai paesi avanzati, la cui attività si concentra in particolare sulla proprietà delle tecnologie chiave necessarie al funzionamento dell’intera catena. La tecnologia diventa così un nodo strategico che rende possibile la produzione, e quindi lo sfruttamento e l’appropriazione dei profitti, su scala mondiale. Il controllo delle tecnologie all’avanguardia diventa così un collo di bottiglia simile alle altre infrastrutture del mercato mondiale.

Una volta stabilito come le multinazionali americane si arricchiscono grazie alle catene del valore globali, è ora opportuno chiarire in che misura questa configurazione è minacciata dall’ascesa della Cina. Se non parliamo di infrastrutture tecnologiche in generale, ma più precisamente di infrastrutture digitali, è perché oggi la tecnologia all’avanguardia è la tecnologia digitale. Questa tecnologia è oggi oggetto di un’intensa battaglia tra Cina e Stati Uniti perché è in grado di stravolgere i rapporti di forza mondiali. Per capirlo, è necessario considerare le onde lunghe dei paradigmi tecno-economici (9). Dal punto di vista tecnologico, infatti, la storia del capitalismo corrisponde a una successione di tecnologie paradigmatiche che alimentano l’intera economia e generano così guadagni di produttività. Ciascuna di queste onde dura circa 50 anni. Quando l’economia mondiale passa da un’onda all’altra, si aprono opportunità eccezionali che possono consentire ai paesi tecnologicamente in ritardo di compiere un grande balzo in avanti. Poiché lo sviluppo tecnologico è un processo cumulativo, i ritardatari di solito restano sempre indietro rispetto ai paesi precursori, almeno finché si rimane nella stessa ondata. Quando si instaura una nuova ondata, il vantaggio in termini di competenze e conoscenze ingegneristiche e di attrezzature associate, accumulato dai precursori durante il precedente paradigma tecno-economico, perde gran parte del suo valore. La sostituzione di un’onda con quella successiva crea quindi una situazione molto rara. I ritardatari possono allora, impegnandosi pienamente nello sviluppo delle tecnologie del nuovo paradigma, spingersi ai confini della conoscenza e superare i precursori storici.

L’attuale passaggio all’onda digitale rappresenta proprio una di queste opportunità. La Cina l’ha colta appieno con il suo piano di sviluppo delle tecnologie indigene messo in atto nel 2006. Fino ad allora, aveva puntato sulla volontà delle multinazionali straniere di condividere le loro conoscenze, cosa che queste ultime rifiutavano categoricamente (proprio perché il controllo monopolistico delle tecnologie permette loro di dominare le catene del valore globali). Di fronte a questo fallimento, si è reso necessario un cambiamento di strategia. Pubblicato nel 2006, il nuovo orientamento sarà successivamente confermato con una serie di piani settoriali.

La Cina contemporanea è un esempio magistrale dello sviluppo diseguale e combinato del capitalismo. Infatti, gli strumenti che hanno permesso alla Cina di appropriarsi delle tecnologie digitali sono strettamente legati alla sua integrazione molto specifica nella globalizzazione come regime di accumulazione intenso ed estroverso 9. L’estroversione manifatturiera in un’economia mondiale organizzata in catene di valore globali significa che ogni giorno i componenti tecnici più sofisticati passano attraverso le fabbriche cinesi incaricate di assemblarli in prodotti finali. Essere la fabbrica del mondo significa beneficiare di innumerevoli opportunità di apprendimento e di ingegneria inversa. L’estroversione esercita anche una pressione estrema sui salari, liberando così ancora più capitale da investire nella produzione industriale. L’effetto di grande disponibilità di capitali è amplificato dalle autorità cinesi, che mantengono un controllo significativo su una serie di leve economiche, in particolare finanziarie e normative, e praticano un tipo di pianificazione. Grazie a questi strumenti, sono in grado di incoraggiare l’accelerazione tecnologica. Il cambiamento di strategia del 2006 si basa su queste caratteristiche uniche dell’inserimento subordinato della Cina nella globalizzazione: le mette al servizio di un balzo in avanti digitale. Il piano di rilancio contro la crisi del 2008-09 non ha fatto altro che rafforzare questa dinamica.

Gli effetti della pianificazione cinese a favore dell’innovazione possono essere valutati grazie ai dati relativi ai depositi di brevetti. Più precisamente, occorre consultare i dati relativi alle famiglie di brevetti triadici. Questi indicano il deposito simultaneo dello stesso brevetto in più paesi, in particolare nei tre uffici brevetti più importanti – situati negli Stati Uniti, nell’UE e in Giappone –, denominati triade. Un tale deposito triadico indica che il depositante ritiene di possedere una novità di valore mondiale. La figura sopra mostra che tra il 1995 e il 2006 la quota cinese nei depositi mondiali di brevetti triadici nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è rimasta pressoché immutata. Durante questo periodo, la Cina è tecnologicamente inesistente. Successivamente, inizia una notevole ascesa, con un passaggio dall’1% al 23% nel 2020. Nel corso di questo processo, la Cina non solo ha superato i paesi dell’Unione Europea, ma gli ultimi dati disponibili indicano addirittura che ha superato gli Stati Uniti.

Questa ascesa tecnologica non solo consentirà alle aziende cinesi di raggiungere la vetta di una serie di catene del valore nel prossimo futuro, entrando così in diretta concorrenza con i profitti delle multinazionali americane (ed europee), ma permetterà loro anche di influenzare in modo decisivo l’infrastruttura digitale dell’economia mondiale. In altre parole, la capacità della Cina di dettare le regole del gioco aumenta e la avvicina all’obiettivo di un capitalismo globale incentrato sulla Cina.

Tuttavia, non bisogna sopravvalutare questo grafico. Non tutte le famiglie di brevetti triadici hanno lo stesso valore. Gli Stati Uniti, ad esempio, mantengono un notevole vantaggio nel campo dell’intelligenza artificiale generativa e i loro giganti digitali intendono fare tutto il possibile per preservare la superiorità tecnologica americana 10. Tuttavia, la posizione dominante della tecnologia americana, che è stata totalmente incontrastata per decenni, è ora seriamente messa in discussione. Questo spiega meglio il sostegno di una parte importante della Silicon Valley alle politiche più aggressive di Trump.

Questa lettura in termini di onde tecno-economiche permette inoltre di comprendere perché gli Stati Uniti impongano sanzioni sempre più ampie sul digitale cinese. La battaglia dei semiconduttori mira proprio a privare la Cina dei componenti indispensabili per le innovazioni all’avanguardia e, in questo modo, a confinarla in una posizione di ritardo tecnologico. Eclissata dalla rumorosa “guerra commerciale”, la più discreta battaglia dei chip – e la risposta cinese attraverso le restrizioni all’esportazione di materiali strategici – concentra le vere sfide. Perché, attraverso di essa, non si tratta più semplicemente di trasformare la circolazione delle merci, ma di controllare le capacità produttive in quanto tali. La pretesa americana di supervisionare il capitalismo globale implica anche la volontà di determinare il ritardo che la Cina deve mantenere rispetto alla frontiera tecnologica.

Dall’accumulazione al conflitto interimperialista

Se l’analisi delle infrastrutture del mercato mondiale permette di comprendere la profondità e la durata del conflitto tra Cina e Stati Uniti, la forma del campo di battaglia non può spiegare la ragione fondamentale del conflitto. Per chiarire quest’ultima, una serie di contributi di diversi ricercatori sottolinea l’ascesa al potere di leader più aggressivi. La spiegazione del conflitto sino-americano si troverebbe quindi sia dal lato americano, con la prima ascesa al potere di Trump nel 2016 11, sia dal lato cinese con la presidenza di Xi Jinping nel 2013 12, o addirittura da entrambi i lati contemporaneamente 13. Tuttavia, queste spiegazioni individualizzanti non riescono a rendere conto del fatto che le tensioni sino-americane si sono intensificate a partire dagli anni 2000. La considerazione di questo fatto induce ad adottare una spiegazione basata su un approccio di economia politica internazionale. Da questa prospettiva emerge un’idea centrale semplice: il capitalismo mina la globalizzazione. Il paradosso dell’ascesa della Cina è che, diventando capitalista, si è trovata costretta a minare proprio il processo che ha permesso il suo sviluppo, ovvero la globalizzazione. Di conseguenza, ambisce a sostituirla con un mercato mondiale incentrato sulla Cina. Questa contestazione la pone direttamente sulla strada dello scontro con gli Stati Uniti.

È quindi il processo contraddittorio di accumulazione del capitale che indebolisce la supervisione americana dell’economia mondiale. Per convincersene, basta ripercorrere le tappe principali della formazione del mercato mondiale. Il suo punto di partenza si trova negli Stati Uniti degli anni ’70, dove le aziende subiscono una grave crisi di calo del tasso di profitto. Al fine di risollevare le loro attività, una parte di esse – il capitale transnazionale americano incarnato dalle multinazionali – accarezza l’idea di espandere le proprie attività oltre i confini nazionali. Disperato nel trovare una via d’uscita dalla crisi, messo alle strette dalla disoccupazione, dall’intensificarsi della lotta di classe e da altre mobilitazioni di protesta, lo Stato americano realizza il desiderio più caro del capitale transnazionale americano: la creazione di un vero e proprio mercato mondiale. Assume il ruolo di supervisore capo di una globalizzazione in costruzione.

Allo stesso tempo, la Cina attraversa un periodo di forti turbolenze economiche che apre la strada alla trasformazione capitalista del Paese. Infatti, la fazione liberale del Partito Comunista Cinese ne approfitta per prendere il potere. Una delle componenti principali di questo sconvolgimento è l’apertura economica al resto del mondo. La Cina si integra quindi nella globalizzazione in corso, occupando una posizione subordinata. Fiutando l’affare, le multinazionali americane percepiscono immediatamente il potenziale lucrativo di una forza lavoro molto economica, numerosa, formata e in buona salute. Nel corso degli anni, una parte crescente dei profitti delle grandi aziende americane proviene effettivamente dall’estero e in particolare dalla Cina. L’integrazione di quest’ultima nella globalizzazione è quindi il risultato di un’alleanza improbabile tra i “comunisti” cinesi e i capitalisti americani.

Tuttavia, questa concordanza nasconde motivazioni divergenti. Da parte cinese, la partecipazione alla globalizzazione si basa sull’ambizione di accelerare lo sviluppo nazionale. Da parte americana, questa partecipazione riflette la volontà di sfuggire a una crisi strutturale attraverso l’appropriazione di profitti all’estero. I leader americani non sono quindi favorevoli a qualsiasi partecipazione della Cina alla globalizzazione. Sono disposti a concederle un ruolo subordinato. Se la Cina osasse uscire da questo percorso, non solo la stabilità del capitalismo negli Stati Uniti ne risentirebbe, ma gli stessi leader potrebbero essere costretti a rivedere la loro posizione sulla Cina e, più in generale, sulla politica internazionale. Queste aspettative divergenti sul ruolo preciso che la Cina deve assumere nella globalizzazione riemergono con le tensioni attuali.

Tuttavia, in un primo momento tutti sembrano trarne vantaggio. In particolare, gli anni ’90 appaiono come un periodo di armonia transpacifica. La crescita esplode in Cina e il mondo intero va matto per i prodotti a basso costo che vi vengono fabbricati. Dall’altra parte del Pacifico, le multinazionali registrano risultati altamente soddisfacenti, offrendo al contempo ai consumatori americani, resi precari da anni di crescenti disuguaglianze, beni di consumo a prezzi accessibili. Tuttavia, sotto questa apparentemente vantaggiosa collaborazione, le contraddizioni sono già all’opera. La contraddizione più nota, ma non l’unica, riguarda il commercio internazionale (e le azioni del secondo mandato di Trump indicano che non è ancora stata superata). Con gli Stati Uniti che registrano deficit commerciali sempre più consistenti con la Cina, si levano voci che denunciano la manipolazione del tasso di cambio della valuta cinese. Parallelamente, la Cina sta realizzando un spettacolare aumento della sua produzione manifatturiera, al punto da competere con i produttori americani. Questi ultimi replicano accusando le aziende cinesi di aver loro rubato le tecnologie. Senza giudicare questa specifica controversia, è vero che, fondamentalmente, la sua partecipazione alla globalizzazione sotto l’egida dello Stato fornisce alla Cina gli strumenti per passare dallo status di semplice fornitore delle multinazionali americane a quello di concorrente, se non addirittura di precursore. Anestetizzate durante gli anni della luna di miele, le divergenti aspettative sul ruolo della Cina nella globalizzazione emergono a partire dagli anni 2000.

Queste tensioni si accentuano in seguito alla crisi del 2007-2008. Per sfuggire a quest’ultima, la Cina attua un piano di rilancio che ha tra gli effetti quello di rafforzare il sovraccumulo. Lo smaltimento delle merci in eccedenza sul mercato mondiale e la ricerca di investimenti redditizi all’estero offrono allora una tregua. In altre parole, la Cina cerca di superare la crisi attraverso l’estroversione. In questo modo, le aziende cinesi invadono ancora di più il terreno delle multinazionali americane. Abituate al lusso della posizione dominante sul mercato mondiale, queste ultime non apprezzano molto i nuovi concorrenti. Dopo trent’anni di globalizzazione, la tensione si diffonde anche tra i grandi vincitori di questo processo.

Abbiamo scritto che il paradosso della Cina è che, diventando capitalista, ha minato la globalizzazione. La tensione del capitale transnazionale americano ne è un esempio, ma la posta in gioco è più profonda delle quote di mercato che le multinazionali americane temono di perdere. Infatti, per riuscire nella loro scommessa di uno sviluppo capitalista accelerato nel contesto della concorrenza globale, le autorità cinesi non possono accontentarsi di partecipare al gioco americano, ma devono crearne un altro. Le infrastrutture che regolano la globalizzazione non sono neutre. Sebbene consentano a qualsiasi azienda che lo desideri di partecipare e realizzare profitti, rimangono sbilanciate a favore delle società americane.

Le tensioni sino-americane sono oggi molto accese perché, fondamentalmente, la Cina sta cercando di sostituire la globalizzazione con una riorganizzazione del mercato mondiale incentrata sulla Cina. In quest’ottica, continua a realizzare nuove infrastrutture attraverso le quali merci e capitali potranno circolare in tutto il mondo. Se quindi le contraddizioni dell’accumulazione di capitale hanno inizialmente spinto gli Stati Uniti a promuovere la globalizzazione, quelle stesse contraddizioni portano oggi la Cina a contestarla. Manifestamente incapace di frenare l’ascesa tecnologica della Cina, il Partito Democratico ha deluso le aspettative di una parte consistente del capitale americano, in particolare nella Silicon Valley, che si è quindi rivolta all’approccio più aggressivo di Trump. Dietro il cambiamento di alleanza politica, il capitale americano del settore digitale persegue quindi sempre lo stesso obiettivo. L’imperativo strutturale dell’accumulazione costituisce quindi la radice profonda di un mondo ogni giorno più scosso dalle tensioni tra le grandi potenze. In questo senso, l’imperialismo è un fenomeno pienamente contemporaneo.(16 luglio 2025).

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in castigliano dalla rivistaViento Sur n°198 (settembre 2025).

  • 1 Benjamin Braun e Cédric Durand, « America’s Braudelian Autumn », Phenomenal World, 29 maggio 2025. Va sottolineato che la Silicon Valley non è per questo politicamente omogenea. Cfr. Olivier Alexandre, «Silicon Valley: Beaucoup de figures ont vu l’élection de Donald Trump comme une opportunité», 24 marzo 2025, Le Monde.
  • 2 Paul Krugman, Maurice Obstfeld e Marc Melitz, International Economics: Theory and Policy, Harlow, Pearson, 2018.
  • 3 Sam Gindin e Leo Panitch, The Making of Global Capitalism: The Political Economy Of American Empire, Londra, Verso Books, 2013.
  • 4 Si riferisce a una procedura che consente, nella ricerca, di trovare risultati adeguati.
  • 5 Susan Strange, States And Markets, Londra, Pinter, 1993.
  • 6 Herman Mark Schwartz, «American Hegemony: Intellectual Property Rights, Dollar Centrality, and Infrastructural Power», Review of International Political Economy 26, n. 3 (2019).
  • 7 Jean-Paul Rodrigue, «Straits, Passages and Chokepoints: A Maritime Geostrategy of Petroleum Distribution», Cahiers de géographie du Québec, 2004, pp. 357-374, qui p. 359.
  • 8 Per un’analisi più completa delle battaglie infrastrutturali tra Cina e Stati Uniti, in cui gli Stati Uniti mantengono una posizione favorevole, cfr. Benjamin Bürbaumer, Chine/États-Unis, le capitalisme contre la mondialisation, Parigi, La Découverte, 2024.
  • 9 Chris Freeman e Francisco Louçã, As Time Goes by: From the Industrial Revolutions to the Information Revolution, Oxford, Oxford University Press, 2001; Ernest Mandel, Les ondes longues du développement capitaliste – Une interprétation marxiste, Syllepse, riedizione 2014; Cecilia Rikap e Bengt-Åke Lundvall, The Digital Innovation Race, Londra, Palgrave, 2021.
  • 10 Artificial Intelligence Index Report 2025, Stanford, Stanford University, 2025.
  • 11 Robert Boyer, Les capitalismes à l’épreuve de la pandémie, Parigi, La Découverte, 2020.
  • 12 Joseph S. Nye, Soft Power and Great-Power Competition: Shifting Sands in the Balance of Power Between the United States and China, Springer, 2023.
  • 13 Graham Allison, Vers la guerre : L’Amérique et la Chine dans le piège de Thucydide ?, Parigi, Odile Jacob, 2019.

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