Pubblichiamo qui di seguito l’intervista a Camille Chalmers, economista, docente universitario, segretario della “Piattaforma haitiana per la Difesa di uno Sviluppo Alternativo (Papda)”, nella quale spiega, tra le altre cose, le vere ragioni della permanenza dei caschi blu nel paese, ben lontane da quelle ufficialmente dichiarate.
Due settimane prima, Brechaaveva intervistato il senatore di sinistra haitiano Moise Jean Chales, giunto in Uruguay per chiedere ai governi dei paesi sudamericani di ritirare i loro militari presenti nella Missione dell’ONU. “Non ci aiutano, ci occupano”, aveva dichiarato il legislatore. Le delegazioni haitiane hanno proseguito il loro giro sbarcando a Montevideo. A pochi giorni di distanza dal voto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il rinnovo del mandato della MINUSTAH (“Missione di stabilizzazione dell’Onu ad Haiti”, decretata nel 2004 e riconfermata ancora una volta per il prossimo 2014.) per un altro anno, fino al 15 ottobre 2014, sono arrivati, con lo stesso obiettivo, due dirigenti di organizzazioni sociali haitiane, che Brecha ha intervistato su questo ed altri argomenti.]
Tradizionalmente, Haiti è stato dichiarato dagli Stati Uniti come una sorta di riserva di risorse minerarie. Da tanti anni, fin dalla prima occupazione militare del paese, è noto che Haiti possiede abbondanti risorse minerarie, ma ora si ha la conferma che sono presenti riserve di materie prime più rilevanti del previsto: oro, bauxite, rame, argento, a un tale livello di concentrazione da farle considerare particolarmente attraenti. Stiamo parlando di riserve valutate in 80 miliardi di dollari, distribuite lungo oltre 3.800 chilometri quadrati, gran parte del territorio del paese.
In questo momento si sta discutendo una nuova legge sull’estrazione mineraria, proposta direttamente dalla Banca Mondiale. Si tratta evidentemente di una legge fatta su misura per le grandi imprese multinazionali, che viene all’interno presentata come vantaggiosa per il paese e rispettosa dell’ambiente. Per il controllo di questo mercato si è scatenato uno scontro tra le multinazionali del settore, soprattutto statunitensi e canadesi. La Newmont Mining Corporation, un gigante in campo di grande estrazione mineraria [in particolare aurifera], ha speso 30 milioni di dollari in pochi anni soltanto in prospezioni.
Un paese quale il Brasile, nella sua proiezione sub imperialista, ha un grande interesse a piazzarsi su questo mercato. José Alencar, vicepresidente sotto il secondo governo di Lula, grande imprenditore del settore tessile brasiliano, si è recato di persona ad Haiti per firmare un accordo per prelazioni commerciali in quell’area. Il Brasile cerca tra l’altro di ottenere importanti privilegi per la propria installazione nelle zone franche cha vanno pullulando ad Haiti (ce ne sono in costruzione 14). Lo stesso Alencar vi sta facendo investimenti.
La MINUSTAH è concepita come un dispositivo che affianca questo processo di saccheggio delle risorse strategiche del paese, più o meno come si fa in Congo, o in altre regioni dell’Africa ricche di risorse minerarie, dove i caschi blu servono a contenere e controllare la popolazione locale.
Strutture istituzionali
Le decisioni della MINUSTAH degli ultimi due anni hanno contribuito a indebolire le strutture istituzionali di un paese che non aveva proprio bisogno che venisse minato quel poco che si era riusciti a costruire su questo terreno. Le elezioni dell’ottobre 2010, le ultime tenutesi nel paese, sono state le peggiori dell’intero ciclo apertosi nel 1990, ed è stata la MINUSTAH a controllare la struttura tecnica per garantire il loro svolgimento. Non si è limitata a questo, ma ha anche controllato i risultati elettorali: la proclamazione del presidente Charles Martelly, che era piuttosto indietro nella corsa, la fecero i generali della missione, dichiarandolo vincitore. Il colmo è che non sono neanche stati resi pubblici i risultati ufficiali delle elezioni. Gli haitiani non hanno mai avuto modo di conoscerli.
È paradossale che l’instabilità politica creata e avallata dalla stessa MINUSTAH venga sfruttata per giustificare la permanenza delle truppe: dicono che Haiti è uno Stato fallito e che finché non lo avranno rimesso in piedi non se ne andranno. Si tratta di un argomento costruito ideologicamente, perché i livelli di violenza di Haiti a confronto con quelli della regione sono bassissimi: A Santo Domingo, gli omicidi con armi da fuoco sono il triplo, a Trinidad Tobago ci sono più sequestri. E non parliamo della Colombia o del Messico: Ma in nessuno di questi casi si parla di intervento esterno. Questo ha a che vedere con un atteggiamento razzista e con il rifiuto di considerare Haiti una nazione con diritto all’autonomia. “Haiti rappresenta una minaccia per la stabilità dell’emisfero”, ha proclamato il Consiglio di sicurezza dell’ONU quando vi ha spedito i suoi caschi blu, una decina di anni fa.
Ritorno all’autocrazia
La Costituzione del 1987 decentrava il potere e concedeva alle comunità locali la podestà di designare i funzionari incaricati della gestione territoriale. Martelly e i gruppi più potenti hanno introdotto emendamenti per accentrare di nuovo il potere e designare direttamente quelle autorità. Negli ultimi due anni il governo ha fatto di tutto pur di non convocare le elezioni di quel terzo del Senato che va rinnovato in gennaio e le municipalità locali. Tutti i sindaci in carica sono stati nominati direttamente dal presidente. C’è una chiara nostalgia per l’autocrazia, per l’epoca della dittatura, nei dirigenti di questo governo installato dalla MINUSTAH.
Quegli aiuti …
L’aiuto ufficiale allo sviluppo offerto dagli organismi internazionali non è un aiuto, ma uno strumento di dominazione, come si è dimostrato ampiamente. Si tratta di aiuti che non hanno niente a che vedere con il bisogno di aggredire il problema della povertà. Al contrario, determinano l’indebitamento e rafforzano il potere dei gruppi dominanti. Haiti lo ha vissuto nel vivo della sua carne, come una dolorosa esperienza, dopo il terremoto del 2010. La prima reazione degli Stati Uniti fu l’occupazione militare con 23 mila marines e 165 navi equipaggiate con armamenti nucleari, senza alcun rispetto per la gente che stava morendo in strada. Vi fu all’epoca una strumentalizzazione della catastrofe per creare una situazione nuova e rafforzare la dominazione. Stiamo parlando di un processo che è passato dalla dominazione alla tutela e dalla tutela alla ri-colonizzazione. Dopo il terremoto, si è creato uno scenario nel quale i protagonisti haitiani sono stati completamente emarginati dagli ambiti strategici decisionali: non il solo Stato, le istanze politiche, le organizzazioni sociali, ma le stesse imprese. Tra il 2010 e il 2012, la USAID, l’agenzia di collaborazione allo sviluppo, degli Stati Uniti, ha firmato 12.500 contratti con imprese statunitensi e canadesi e 22 soltanto con imprese haitiane. La maggioranza dei fondi arrivati nel paese dopo il terremoto, circa 5 miliardi di dollari stando a quanto si dice, sono stati catturati dalle burocrazie delle principali ONG e degli Stati cooperanti, nonché dalle imprese straniere, alimentando una specie di “imperialismo umanitario”, mentre il popolo non ha neanche visto passare quel danaro, presumibilmente sborsato in suo nome.
… e questi altri
Per fortuna esiste anche un altro tipo di collaborazione, quella che abbiamo con Cuba dal 1998. Si tratta di una collaborazione a diversi livelli: da un lato, i cubani dispongono ad Haiti di una brigata permanente di medici, e dall’altro offrono borse di studio a studenti haitiani di medicina perché si formino là. Attualmente sonno più di 600. La presenza dei medici cubani è stata fondamentale per combattere il colera, l’epidemia trasmessaci dai militari nepalesi della MINUSTAH e che ha provocato 9.000 morti, che sarebbero stati però tre o quattro volte di più senza l’intervento dei cubani. I quali, peraltro, mantengono un basso profilo, non ci sono bandiere cubane a sventolare dappertutto, come invece ci sono quelle degli Stati Uniti o degli organismi finanziari internazionali. Si tratta di una presenza solidale, più che di un aiuto, e non genera indebitamento.
Sinistra e resistenze
Nel paese sono presenti diverse sinistre. C’è una sinistra socialdemocratica, incarnata dal partito Fusione Socialdemocratica, che ha una rappresentanza parlamentare, si è andato burocratizzando rapidamente e di fatto ha finito per allearsi con il governo. Ed esiste un’altra sinistra, socialista, rivoluzionaria, con scarsa presenza in parlamento, ma in via di ricomposizione. Sei partiti di questa tendenza hanno deciso di riunirsi intorno a un tavolo di confronto per dar vita al Movimento Patriottico Democratico e Popolare, la cui formazione potrebbe essere annunciata prima di febbraio. Il suo principale obiettivo immediato sarà il ritiro della MINUSTAH e il recupero della sovranità nazionale in tutti i campi.
Sul piano sociale, uno degli elementi più positivi è stato il riavvicinamento verificatosi tra forze a lungo nemiche, ad esempio nel settore contadino. Le hanno riconciliate le mobilitazioni contro la massiccia estrazione mineraria [a cielo aperto] e contro gli agro-combustibili. Quando Lula era presidente del Brasile e George W. Bush presidente degli Stati Uniti sottoscrissero un accordo per potenziare gli agro-combustibili.
Nel quadro di quell’accordo decisero che Haiti avrebbe dovuto essere la testa di ponte nei Caraibi per lo sviluppo di questa produzione e che il 25% del suo territorio dovesse essere riservato a tal fine. Vi fu una mobilitazione congiunta dei contadini che denunciavano quel progetto, che avrebbe comportato la scomparsa di coltivazioni destinate all’alimentazione, e ce ne furono altre contro la multinazionale biotecnologica Monsanto, che dopo il terremoto del 2010 ebbe la “generosissima” iniziativa di regalare 450 tonnellate di semi transgenici al paese. I contadini bruciarono in pubblico quei semi, non perché fossero stupidi, ma perché difendevano un modo di produzione diverso.
Per altro verso, nel giugno del 2012 si è costituita una coalizione di movimenti sociali specificamente intorno al tema della grande estrazione mineraria e della difesa dell’ambiente e delle risorse basilari, come l’acqua. Con la Piattaforma abbiamo lavorato a seguire le attività imprenditoriali in quel settore (il governo ha già esteso 52 permessi di prospezione mineraria), ad esaminare sistematicamente gli interventi concreti di queste imprese, la loro struttura finanziaria, la loro storia in altri paesi della regione, i conflitti con cui hanno dovuto scontrarsi. È stato un lavoro di grande impatto, realizzato con la collaborazione di università statunitensi specializzate in materia. Tuttavia, la cosa fondamentale è stato il lavoro di sensibilizzazione, di informazione e di formazione rivolta alle comunità che possono essere colpite. E abbiamo organizzato quattro seminari, con la partecipazione di compagni di El Salvador, del Guatemala, del Messico, con dieci, venti anni di esperienza in conflitti minerari.
Un tuo e mio inesistenti
Haiti è stato pioniere della solidarietà internazionalista nel continente, all’epoca delle lotte per l’indipendenza. Quando Simón Bolívar inizia le sue campagne per la liberazione parte da Haiti, e lo fa con imbarcazioni, soldati, generi alimentari, armi, munizioni che gli affida il paese in segno di solidarietà. Il presidente di Haiti gli dice allora: “Non ti chiediamo niente in cambio, solamente che se otterrai la liberazione di un territorio la prima cosa che farai sarà quella di liberare tutti gli schiavi”. Era un internazionalismo costruito sulla base di principi. Dopodiché, sotto la pressione degli Stati Uniti, Haiti fu escluso dal congresso di Panama. E il paese patì una sorta di solitudine, di messa in quarantena, un isolamento che continua tuttora.
La prospettiva internazionalista è molto importante per noi, per rifondare i rapporti tra i popoli che, al momento, sono molto divisi e dominati dalla concezione della concorrenza, della “competitività”, secondo la logica del mercato mondiale che mette alcuni paesi in concorrenza con gli altri.
Tratto da Brecha (Uruguay), 18 ottobre 2013 – http://brecha.com.uy/ traduzione a cura della redazione del sito http://antoniomoscato.altervista.org