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Pubblichiamo questo articolo che, partendo da una breve analisi della situazione italiana, fa alcune elementari e fondamentali considerazioni sul cosiddetto smartworking, il telelavoro che rischia di essere una delle peggiori eredità che ci lascerà il coronavirus (Red)

La situazione che stiamo attraversando e che non sappiamo quanto durerà è molto grave. Ed è ancora più grave, per noi che guardiamo al mondo con un’ottica di classe, perché interviene in un paese e in un mondo segnato da 40 anni di terribili sconfitte delle classi subalterne. Una delle sconfitte più gravi che abbiamo subito è proprio quella della sparizione dal panorama politico e sindacale (perlomeno dal panorama mediaticamente percepibile) di ogni visione di classe.

Quel conflitto che abbiamo percepito sul caso Ilva, tra lavoro, salario e salute (che in realtà è un conflitto tra il profitto di pochi e la salute di tanti), oggi a causa della epidemia dilaga in tutto il paese e si appresta a dilagare in tutto il mondo e la soluzione di questo conflitto, nel contesto dei rapporti di forza dati dopo 40 anni di sconfitte, è tutta a vantaggio del profitto.

Le circolari, i DPCM, le leggi e i decreti, i protocolli vigliaccamente siglati anche dai sindacati che dovrebbero rappresentare il mondo del lavoro, tutti sanciscono questa situazione.

Occorre ribellarsi a questo. Ogni strumento può essere utile, compresa la via giuridica. Ma non dimentichiamo che il tessuto produttivo del paese è fatto da una miriade di aziende di dimensione microscopica, nelle quali non c’è traccia di vita sindacale, né di quella concertativa né, tantomeno, di quella conflittuale, di milioni di lavoratrici e lavoratori sottoposti strutturalmente al ricatto padronale, che non hanno nessuna possibilità di opporsi all’arbitrio del datore di lavoro, a cui purtroppo troppo spesso non passa neanche per la testa di potersi opporre.

Quindi tutte le lotte che vanno nel senso di dire che le nostre vite valgono di più dei loro profitti sono da sostenere e da valorizzare, da propagandare come esemplari, da coordinare tra loro. La proclamazione di scioperi, soprattutto di scioperi prolungati, per attuare nei fatti la chiusura dei reparti di produzione deve essere praticata.

Ogni cosa che vada in tale senso può dare coraggio alle lavoratrici e ai lavoratori più rassegnati.

Ogni ora di sciopero può salvare una vita.

Una riflessione diversa poi va fatta sullo smart working (e, per quello che riguarda la scuola sulla didattica a distanza, che è poi una forma peculiare di smart working). Oggi siamo spinti ad accettarlo perché oggi inevitabile per operazioni non differibili e per diradare le occasioni di contagio, ma in realtà la classe dominante, grazie a questa epidemia, si trova tra le mani uno strumento formidabile per sperimentare un’arma straordinariamente efficace per produrre un ulteriore colpo in direzione della frammentazione della classe lavoratrice.

Il lavoro “a casa” può consentire ai padroni di raggiungere molti obiettivi. Intanto consente quello che è un sogno ricorrente dei padroni (peraltro confessato qualche anno fa dal loro ministro, il “renziano” Poletti) di sganciare il salario dagli orari effettivamente prestati e di legarlo alla cosiddetta “produttività”: non importa quante ore lavori a casa, l’importante è che tu raggiunga gli obiettivi produttivi che ti sono stati assegnati, e poi, se vuoi guadagnare qualche spicciolo in più, puoi anche lavorare il sabato, la domenica, la notte, quando sei malato…

Inoltre questo consente allo stato padronale di esimersi da tante spese che potrebbero risultare improvvisamente non più necessarie: i trasporti massicciamente utilizzati da lavoratrici e lavoratori dipendenti per recarsi al lavoro e poi per ritornare a casa; gli asili nido, l’assistenza ai disabili, agli infermi. Che importa se mentre lavori al computer a casa, nel frattempo ogni tanto vai ad aiutare la vecchia madre a girarsi nel letto o a cambiare il programma di cartoni animati ai bambini sul divano?

E i padroni potrebbero anche risparmiare direttamente molte spese non produttive: la lavoratrice e il lavoratore smart non avrebbero bisogno della mensa né dei buoni pasto; basta mettere per qualche minuto il computer in stand-by e andare a buttare la pasta o a girare il mestolo nel sugo, l’importante è che quei minuti (che a fine giornata saranno ore) li recupererai producendo quanto dovuto. E le aziende potrebbero dismettere almeno in buona parte i grandi edifici nei quali fino ad oggi confluiscono centinaia, a volte migliaia di lavoratori, trincerandosi in strutture direzionali molto più piccole e meno costose.

Ma il risultato più interessante socialmente per le classi dominanti è che con lo smart working si possono smantellare definitivamente numerosi agglomerati di classe lavoratrice, i grandi posti di lavoro nei quali fino ad oggi quotidianamente vanno a farsi sfruttare lavoratrici e lavoratori, ma dove a volte si evidenzia la comunanza di interessi, dove i settori più coscienti possono agire su tutti gli altri e dove ci si incoraggia reciprocamente nelle lotte.