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“Il Cile è stato la culla del neoliberismo, oramai ne diventerà la fossa”. La dichiarazione, fatta alcune settimane or sono dal neo-eletto presidente cileno Gabriel Boric è sicuramente una formula a effetto. Ma, al di là della retorica?

Per chi, come il sottoscritto, l’undici di settembre del 1973, non ancora diciottenne, ebbe ad assistere in mondovisione al colpo di stato di Augusto Pinochet contro il governo eletto dell’Unidad Popular di Salvador Allende, la sconfitta di José Antonio Kast, il candidato dell’estrema destra, ammiratore di Pinochet e di Bolsonaro, non può essere che fonte di una gioia immensa.

In questa serata di gaudio, il settarismo – quello, ad esempio, di certe frange del PC cileno che si affannano a spiegare che Boric “non è di sinistra”, è malvenuto.

Un dovere di lucidità

Esiste però, al di là delle interpretazioni soggettive, un dovere di lucidità.

Lucidità, prima di tutto, nel capire che, indipendentemente dalle scelte tattiche intervenute dopo il primo turno, l’elezione di Gabriel Boric non è il frutto di pateracchi fra le varie forze di centro-sinistra (e che, a prima vista, sicuramente ci sono stati), ma il risultato, come l’adozione pochi mesi fa del principio di una nuova Costituzione, dell’immensa mobilitazione popolare del 2019.

Ed è la dimostrazione del fatto che proprio la capacità di mobilitazione della gente in difesa degli interessi dell’immensa maggioranza delle popolazioni può, eccome! cambiare il corso della storia.

Lucidità però anche sul fatto che Kast, figlio di un militare nazista, fratello di un ministro di Pinochet ed erede rivendicato della giunta assassina, raccoglie milioni di voti – quanti l’ex presidente Piñera al momento della sua rielezione – raggiungendo il 44% dei suffragi espressi.

Mica è cosa da poco. Come se Marine Le Pen in Francia o la Meloni in Italia ottenessero dei risultati del genere. Agghiacciante, no?

Questo significa, concretamente, che di fronte a una mobilitazione popolare massiccia come quella del 2019, strati consistenti delle élites cilene si sono schierate dietro Kast, non tanto perché il suo slogan principale (“il Cile è e resterà il paese delle libertà”) riassumeva l’essenza del suo progetto, la libertà della volpe dentro al pollaio, ma perché prometteva di “restaurare l’ordine e la pace sociale”, poco importa come.

L’arma vincente di Pinochet contro Salvador Allende fu la ricerca da parte di quest’ultimo – per il quale, al contrario dei vari dirigenti di “sinistra” europei, nutro un assoluto rispetto personale – di un compromesso con i settori centristi cercando di placare la mobilitazione sociale. Il disarmo -compreso in termini militari – di quest’ultima precipitò la fine.

Non c’è di che crogiolarsi

Oggi, di fronte alle scadenze che si imporranno in Cile, sarebbe assurdo crogiolarsi nel sentimento di vittoria. È la piazza che ha portato Boric alla presidenza. È la stessa piazza che potrà – sia lui “di sinistra” o meno poco importa – far valere l’aspirazione ad una nuova fiscalità, ad un sistema pensionistico progressista, all’autonomia delle popolazioni autoctone, alla difesa dei diritti delle donne.

Ed è, secondo me, il solo messaggio che la sinistra europea – o quel che ne resta – può mandare: sostegno senza riserva alcuna ai movimenti sociali che, indipendentemente dalle scadenze istituzionali, riaffermano la preminenza dei bisogni della maggioranza della popolazione.

Affinché, effettivamente, da culla del neoliberismo il Cile ne diventi la fossa…

*articolo apparso anche sul sito rproject.it