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Lo scorso 3 giugno al Consiglio degli Stati è andato in onda un teatrino ben orchestrato relativo all’aumento dei crediti per l’esercito. Abbiamo assistito a due discussioni e relative decisioni che ci mostrano chiaramente in quale direzione si vuole andare.
La prima discussione verteva attorno alla proposta, evidentemente destinata a fallire, di concedere 10 miliardi supplementari all’esercito e 5 miliardi al fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. Buona parte dei media si è concentrata a commentare questa proposta.
Meno interesse mediatico ha ricevuto la seconda proposta, poi accolta, per un credito supplementare di 4 miliardi all’esercito per il periodo 2025/2028. In realtà è questa decisione che indica in modo preciso e inequivocabile quale sarà la strategia che seguiranno le forze politiche di destra nei prossimi anni per quanto riguarda il settore degli armamenti. Con questo nuovo regalo di 4 miliardi, l’esercito svizzero potrebbe avere a disposizione nel quadriennio la bellezza di complessivi 30 miliardi (26 già decisi più i 4 votati dal Consiglio degli Stati). Stiamo parlando di 7,5 miliardi ogni anno, passando dallo 0,7% del nostro Pil all’1%, e questo non entro il 2035 come indicato dal parlamento a dicembre, ma già nel 2030.
La motivazione di tanta fretta traspare dagli interventi dei vari oratori e si rifà da un lato alla presunta incapacità attuale dell’esercito di difendere il Paese in caso d’aggressione e dall’altro alla raccomandazione della Nato ai propri membri di raggiungere il 2% del Pil. Sul richiamo alla Nato sottolineo l’incoerenza e la disonestà di quelle forze politiche che invocano la neutralità (quella “vera” secondo loro) e la collocazione svizzera fuori dalle alleanze militari, per poi richiamarsi proprio a questa alleanza militare (Nato) per giustificare aumenti stratosferici per l’esercito svizzero. Ci si distanzia o la si prende a confronto, a dipendenza dunque di quanto possa far comodo.
Per quanto riguarda invece la presunta urgenza, tenendo conto dell’isteria risparmistica che accompagna le decisioni politiche nei vari ambiti istituzionali svizzeri, ricordo altre emergenze, stavolta vere, che vive gran parte della popolazione svizzera: stagnazione dei salari, abbassamento costante delle pensioni, aumento del costo della vita, crisi climatica, esplosione dei premi di cassa malati, disparità di genere che non accennano a diminuire, povertà crescente in vari settori della società.
Sono emergenze queste riconosciute da tutti, presenti nei molti discorsi ufficiali, usate come slogan da molti politici, ma che restano lettera morta non per mancanza di risorse (se si trovano così velocemente 4 miliardi supplementari per l’esercito…), quanto piuttosto per l’orientamento politico/ideologico di gran parte della classe politica svizzera. Per quanto ci riguarda, continuiamo a sostenere che gli eserciti sono solo strumenti di morte, utili all’economia capitalista perché producono profitti e soddisfano gli appetiti delle lobby degli armamenti. In questo senso non ci limitiamo, come ormai gran parte della sinistra, a chiederne un dimensionamento ragionevole, ma l’abolizione totale, compreso quindi l’esercito svizzero.
Si tratta di recuperare, pur in un momento diverso e sicuramente difficile, quella tradizione antimilitarista che ci aveva permesso di portare in votazione popolare l’iniziativa denominata “Per una Svizzera senza esercito” nel 1989. La necessità di rilanciare lo spirito di quella iniziativa (e altre che seguirono) non è scomparsa, anzi. Proprio la drammaticità di quanto accaduto con l’aggressione all’Ucraina da parte dell’esercito di Putin, ne ripropone l’attualità.
“Non un centesimo per l’esercito” deve e può dunque ritornare ad essere non solo uno slogan, ma una pratica politica quotidiana.