Il capitalismo produce l’imperialismo: la competizione tra le grandi potenze e le loro imprese per la spartizione e la ridistribuzione del mercato mondiale. Questa competizione genera una gerarchia dinamica di Stati, con i più potenti al vertice, le potenze intermedie o sub-imperiali al di sotto e le nazioni oppresse alla base.
Nessuna gerarchia è permanente. La legge dello sviluppo ineguale e combinato del capitalismo, i suoi boom e le sue crisi, la concorrenza tra le imprese, i conflitti interstatali e le rivolte degli sfruttati e degli oppressi destabilizzano e ristrutturano questo sistema degli Stati.
Di conseguenza, la storia dell’imperialismo ha conosciuto una sequenza di ordini diversi: il periodo tra la fine del XIX secolo e il 1945 è stato caratterizzato da un ordine multipolare. Ha prodotto i grandi imperi coloniali e due guerre mondiali. Tra il 1945 e il 1991 è stato soppiantato da un ordine bipolare, con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica in lotta per l’egemonia sui nuovi Stati indipendenti liberati dal dominio coloniale.
Con il crollo dell’impero sovietico, dal 1991 fino ai primi anni Duemila, gli Stati Uniti hanno gestito un ordine unipolare di globalizzazione neoliberale, non avendo di fronte nessuna superpotenza rivale e conducendo una serie di guerre per imporre il cosiddetto ordine del capitalismo globale “basato sulle regole”. Tale ordine è terminato con il relativo declino degli Stati Uniti, l’ascesa della Cina e la resurrezione della Russia, lasciando il posto all’odierno ordine multipolare asimmetrico.
Gli Stati Uniti rimangono la potenza dominante, ma sono ora in competizione con Cina e Russia, con stati sub-imperiali sempre più presenti come Israele, Iran, Arabia Saudita, India e Brasile, e con nazioni oppresse sia politicamente che economicamente. Di fronte a un’imminente epoca di crisi, guerre e rivolte, la sinistra globale deve costruire una solidarietà internazionale dal basso tra i lavoratori e i settori oppressi per lottare contro l’imperialismo e per il socialismo in tutto il mondo.
Le molteplici crisi del capitalismo globale
Il capitalismo globale ha prodotto crisi multiple e intersecate che stanno intensificando i conflitti tra gli Stati e al loro interno. Queste crisi sono rappresentate dalla recessione economica globale, l’acuirsi della rivalità interimperialista tra Stati Uniti, Cina e Russia, il cambiamento climatico, le migrazioni globali senza precedenti e le pandemie, di cui il Covid-19 è solo l’esempio più recente. Esse hanno minato l’establishment politico e provocato una polarizzazione politica nella maggior parte dei paesi del mondo, aprendo opportunità sia per la destra che per la sinistra e scatenando ondate di lotte esplosive anche se episodiche. Erano decenni che non si assisteva a un periodo di crisi, conflitti, guerre, instabilità politica e rivolte come quello attuale.
Tutto ciò rappresenta una sfida ma anche un’opportunità per una sinistra internazionale e un movimento operaio che ancora soffre le conseguenze di diversi decenni di sconfitte e regressioni. Inoltre, apre le porte a una nuova estrema destra che offre soluzioni autoritarie promettendo di ristabilire l’ordine sociale e che trasforma i settori oppressi di ogni paese in capri espiatori, sollecitando al contempo pulsioni reazionarie di nazionalismo contro i nemici esterni.
Una volta al potere, questa nuova estrema destra non è riuscita a superare nessuna delle crisi e delle disuguaglianze del capitalismo globale, ma le ha esacerbate. Di conseguenza, né l’establishment né i suoi avversari di estrema destra offrono una via d’uscita alla nostra epoca contrassegnata da molte catastrofi.
Un ordine mondiale multipolare e asimmetrico
In mezzo a queste crisi che si auto-rinforzano, gli Stati Uniti non sono più all’apice di un ordine mondiale unipolare. Hanno subito un relativo declino a causa del lungo boom neoliberale, del fallimento delle guerre in Iraq e Afghanistan e della Grande Recessione (2007-2013 N.d.T.). Questi sviluppi hanno permesso l’ascesa della Cina come nuova potenza imperiale e il riemergere della Russia come potenza petrolifera dotata di armi nucleari. Allo stesso tempo, alcune potenze sub-imperiali sono diventate più forti rispetto al passato, mettendo le grandi potenze l’una contro l’altra ed entrando in competizione per riposizionarsi nella loro regione.
Ciò ha creato un ordine mondiale multipolare e asimmetrico. Gli Stati Uniti restano lo stato più potente del mondo, con l’economia più grande, il dollaro come valuta di riserva mondiale, l’esercito più potente, la rete di alleanze più vasta e quindi il maggior potere geopolitico. Ma devono affrontare i rivali imperiali della Cina e della Russia, così come i rivali sub-imperiali in tutte le regioni del mondo.
Questi antagonismi non hanno dato origine a blocchi geopolitici ed economici coerenti. La globalizzazione ha unito fortemente la maggior parte delle economie mondiali, impedendo il ritorno di blocchi sul modello di quelli dell’epoca della Guerra Fredda.
Così, i due maggiori rivali, gli Stati Uniti e la Cina, sono anche due dei paesi più integrati al mondo. Si pensi all’iPhone di Apple: progettato in California, prodotto in fabbriche di proprietà di Taiwan in Cina ed esportato a venditori negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Le nuove potenze sub-imperiali non sono fedeli né alla Cina né agli Stati Uniti, ma stringono patti con l’una o l’altra potenza a seconda dei propri interessi capitalistici. Ad esempio, mentre l’India stringe un patto con la Cina nell’alleanza BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) contro gli Stati Uniti, partecipa all’alleanza QUAD (Stati Uniti, Australia, India, Giappone) di Washington contro la Cina.
Detto questo, la recessione economica globale, l’intensificarsi della rivalità USA-Cina e, soprattutto, la guerra imperialista della Russia in Ucraina e le sanzioni USA-NATO contro Mosca stanno iniziando a sgretolare la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta. Di fatto, la globalizzazione si è bloccata e ha iniziato a declinare.
Ad esempio, attraverso la cosiddetta guerra dei chip, gli Stati Uniti e la Cina stanno segregando la fascia alta delle loro economie ad alta tecnologia. Inoltre, le sanzioni occidentali contro la Russia per la sua guerra imperialista contro l’Ucraina l’hanno esclusa dal commercio e dagli investimenti degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, costringendola a rivolgersi ai mercati di Cina e Iran.
Di conseguenza, ci stiamo avviando verso una crescente divisione economica, rivalità geopolitica e persino conflitto militare tra Stati Uniti, Cina e Russia, nonché tra questi e le potenze sub-imperiali. Allo stesso tempo, la profonda integrazione economica di Stati Uniti e Cina, così come il fatto che ciascuno di essi possiede armi nucleari, contrasta la tendenza alla guerra aperta, che rischierebbe la distruzione reciprocamente assicurata e il collasso economico globale.
Washington si riarma a causa delle rivalità tra grandi potenze
A partire dall’amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno cercato di sviluppare una nuova strategia per contrastare l’ascesa della Cina e la rinascita della Russia. Obama ha annunciato il cosiddetto “pivot to Asia” (il riequilibrio verso l’Asia della politica estera USA, N.d.T.) e Trump ha posto la rivalità aperta tra grandi potenze, in particolare con Pechino e Mosca, al centro della sua strategia di “sicurezza nazionale”; tuttavia, nessuno dei due ha sviluppato un approccio globale a questi e altri conflitti nel nuovo ordine mondiale multipolare e asimmetrico.
Barack Obama ha continuato a preoccuparsi del Medio Oriente, portando a termine le occupazioni di Iraq e Afghanistan e rafforzando l’ordine esistente nella regione sulla scia della Primavera araba e dell’ascesa dello Stato Islamico. Trump ha proclamato la sua strategia di rivalità tra grandi potenze, ma la sua pratica si è rivelata incoerente. Ha combinato un mix caotico di nazionalismo di estrema destra, protezionismo, minacce di abbandono delle alleanze storiche come la NATO e accordi bilaterali transazionali sia con i rivali designati che con gli alleati tradizionali. I suoi anni erratici di malgoverno hanno portato a un ulteriore declino relativo degli Stati Uniti.
La presidenza di Joe Biden ha sviluppato la strategia più coerente fino ad oggi. Egli ha tentato di recuperare le lotte di classe e sociali sviluppatesi nel paese attraverso moderate riforme, di attuare una nuova politica industriale per garantire la competitività degli Stati Uniti nel settore manifatturiero ad alta tecnologia e di riabilitare le alleanze di Washington, come la NATO, nonché di espanderle lanciando la cosiddetta Lega delle Democrazie contro i rivali autocratici di Washington.
Alla fine, i democratici centristi, i repubblicani e i tribunali hanno bloccato molte delle sue riforme volte a migliorare le disuguaglianze sociali. Tuttavia è riuscito a implementare la sua politica industriale attraverso diverse proposte di legge. Biden ha anche iniziato a rinnovare ed espandere le alleanze statunitensi attraverso nuovi patti e iniziative economiche. L’obiettivo di tutto ciò è contenere la Cina, scoraggiare l’espansionismo russo in Europa orientale e attirare il maggior numero possibile di potenze sub-imperiali, stati subordinati e nazioni oppresse nell’orbita dell’egemonia statunitense e nel suo ordine internazionale preferito.
Biden ha proseguito il tentativo dei suoi predecessori di condurre gli Stati Uniti fuori dalle loro fallimentari occupazioni. Ha concluso in modo caotico l’occupazione ventennale dell’Afghanistan, commettendo nell’attuazione di questo processo veri e propri crimini di guerra , oltre che lasciare il paese nelle mani dei Talebani. Ha poi cercato di stabilizzare il Medio Oriente sviluppando gli “accordi di Abramo” voluti da Trump, producendo ulteriori nuovi sforzi per normalizzare la presenza di Israele nel contesto del mondo arabo attraverso relazioni formali tra i regimi arabi e Tel Aviv. Questo, ovviamente, ha dato al primo ministro Benjamin Netanyahu il via libera per continuare l’assedio di Gaza, l’espansione delle colonie nella Cisgiordania occupata e l’approfondimento dell’apartheid in Israele, ora orribilmente espresso nella guerra genocida di Israele contro Gaza. In Europa, Biden ha rinnovato l’impegno degli Stati Uniti nella NATO, inviando alla Russia il segnale che Washington, e non Mosca, continuerà a mantenere l’egemonia nella regione.
Ma l’obiettivo principale nella strategia di rivalità tra grandi potenze di Biden è la Cina. Sul fronte economico, la sua politica industriale è stata concepita per ripristinare, proteggere ed espandere la supremazia economica degli Stati Uniti su Pechino, soprattutto nell’ambito dell’alta tecnologia. L’obiettivo è produrre alta tecnologia in patria o su suolo amico, imporre una forte protezione della progettazione e dell’ingegnerizzazione dei chip per computer da parte degli Stati Uniti e finanziare le aziende e le università americane ad alta tecnologia nei settori STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) per garantire il dominio degli Stati Uniti nel campo dell’intelligenza artificiale (AI) e di altre tecnologie all’avanguardia, soprattutto per le loro applicazioni militari.
Sul fronte geopolitico, Biden ha consolidato le alleanze esistenti con il Giappone e le ha ampliate con l’obiettivo di coinvolgere i paesi antagonisti della Cina, come il Vietnam e le Filippine. Ha inoltre ribadito la politica di una sola Cina, che riconosce solo Pechino, e la politica di ambiguità strategica su Taiwan, che impegna gli Stati Uniti ad armare l’isola come un porcospino per scoraggiare l’aggressione cinese, ma rimane vaga sulla possibilità di intervenire in difesa dell’isola in caso di attacco o invasione.
Sul fronte militare, Biden ha raddoppiato le alleanze militari statunitensi come il QUAD e il Five Eyes (Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti) e ne ha create di nuove, in particolare l’accordo Australia-Regno Unito-Stati Uniti (AUKUS) per il dispiegamento di sottomarini nucleari in Australia. Washington sta scatenando con la Cina una corsa agli armamenti e alla costruzione nell’Asia-Pacifico.
I rivali imperialisti di Washington: la Cina e la Russia
Cina e Russia hanno avviato una propria strategia per sviluppare le proprie ambizioni imperiali. Queste tre potenze formano quella che Gilbert Achcar ha definito la “triade strategica dell’imperialismo mondiale”.
Sotto la guida di Xi Jinping, la Cina ha cercato di riconquistare la sua posizione di grande potenza nel capitalismo mondiale. Ha lanciato una strategia economica per risalire la catena del valore e competere ai massimi livelli nel design, nell’ingegneria e nella produzione. Ha finanziato sia il capitale statale che quello privato attraverso programmi come China 2025, che mira ad affermare società selezionate come campioni nazionali nell’alta tecnologia.
In questo senso ha avuto molto successo: Huawei e BYD, tra le altre, si sono affermate come competitori globali. La Cina è ora leader industriale in interi settori come l’energia solare e i veicoli elettrici, sfidando il capitale statunitense, europeo e giapponese.
Con la sua massiccia espansione economica, la Cina ha cercato di esportare il suo capitale in eccesso e la sua capacità produttiva all’estero attraverso la Belt and Road Initiative (BRI, la “nuova via della seta”), un vasto piano da mille miliardi di dollari per lo sviluppo di infrastrutture in tutto il mondo, soprattutto nel Sud globale. Niente di tutto questo è frutto di un atteggiamento altruistico. La maggior parte di questi investimenti serve a costruire infrastrutture, ferrovie, strade e porti per esportare materie prime in Cina. La Cina esporta poi i suoi prodotti finiti in questi paesi, secondo il classico schema imperialista.
Ma la combinazione di rallentamento dell’economia, problemi bancari e crisi del debito nei paesi a cui aveva concesso i prestiti ha portato la Cina a ridimensionare i suoi obiettivi più ambiziosi per la BRI.
Ciononostante, la Cina sta cercando di convertire questi investimenti in influenza geopolitica attraverso alleanze economiche come i BRICS e patti politici e di sicurezza come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (che comprende Cina, Russia, India, Pakistan, Iran e alcuni stati dell’Asia Centrale). Ha inoltre affermato la propria influenza in Medio Oriente incoraggiando la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra il suo alleato Iran e l’Arabia Saudita, da cui dipende per la maggior parte delle proprie forniture di petrolio.
Per sostenere la sua nuova influenza economica con la forza militare, la Cina sta modernizzando le sue forze armate, in particolare la marina, con l’obiettivo di sfidare l’egemonia navale statunitense nel Pacifico. A tal fine, si è impadronita di isole rivendicate da altri Stati, creando conflitti con Giappone, Vietnam, Filippine e molti altri. Ha militarizzato alcune di esse, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale, per proiettare il proprio potere, proteggere le rotte di navigazione e affermare i propri diritti sulle riserve offshore di petrolio e gas naturale.
Infine, Pechino sta affermando rivendicazioni storiche su quello che considera il proprio territorio nazionale come parte di un progetto di ringiovanimento nazionale. Ha imposto il suo dominio su Hong Kong con la violenza, ha condotto la sua guerra del terrore e il genocidio culturale contro gli uiguri dello Xinjiang e ha intensificato le minacce di invadere Taiwan, che considera una provincia rinnegata.
Nel frattempo, sotto la guida di Vladimir Putin, la classe dirigente russa si è impegnata a ripristinare il proprio potere imperiale, così devastato e minato dal crollo dell’Impero sovietico in Europa orientale e dalla disastrosa applicazione della terapia d’urto neoliberista. Ha visto la sua ex sfera d’influenza assorbita dall’imperialismo statunitense ed europeo attraverso l’espansione della NATO e dell’UE.
Putin ha ricostruito la Russia come una potenza petrolifera dotata di armi nucleari con l’obiettivo di riconquistare il suo antico impero in Europa orientale e in Asia centrale, imponendo al contempo l’ordine in patria contro qualsiasi dissenso popolare e, soprattutto, contro le sue repubbliche spesso recalcitranti. Ha cercato di consolidare il dominio sulla sua ex sfera di influenza attraverso la collaborazione con la Cina nell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.
Questo progetto imperialista l’ha portata a scatenare una serie di guerre in Cecenia (1996, 1999), Georgia (2008) e Ucraina (2014, 2022-), oltre a interventi in Siria e in diversi paesi africani. L’affermazione imperiale della Russia ha provocato la resistenza degli stati e dei popoli che ha preso di mira, nonché le controffensive imperialiste di Stati Uniti, NATO e UE.
La guerra imperialista della Russia contro l’Ucraina
Sono tre i punti strategici che hanno fatto emergere queste rivalità inter-imperialistiche: Ucraina, Gaza e Taiwan.
L’Ucraina è diventata il teatro di una grande guerra in Europa per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale. La Russia ha invaso il paese nel 2014 e di nuovo nel 2022 attraverso un chiaro atto di aggressione imperialista, cercando di conquistare l’intero paese e di imporvi un regime semi-coloniale. Putin ha giustificato il tutto con bugie come quella sulla “denazificazione” (difficilmente credibile, visto anche che proviene da uno degli stati più reazionari del mondo, alleato dell’estrema destra internazionale).
Certo, in parte la sua aggressione è stata una risposta all’espansione degli Stati Uniti, della NATO e dell’UE, ma questo non rende la sua guerra meno imperialista. Il suo obiettivo era quello di utilizzare la conquista dell’Ucraina come trampolino di lancio per reclamare la sua precedente sfera di influenza nel resto dell’Europa orientale.
Lo stato, l’esercito e il popolo ucraino si sono sollevati contro l’invasione in una lotta per l’autodeterminazione nazionale.
Biden ha fornito all’Ucraina aiuti economici e militari nella prospettiva degli interessi imperialistici di Washington. Gli USA non sono un alleato delle lotte di liberazione nazionale, come dimostra il loro lungo curriculum di guerre imperialiste, dalle Filippine al Vietnam e all’Iraq. Washington si è prefissata di indebolire la Russia, di impedirle di invadere la sua sfera d’influenza allargata nell’Europa orientale e di fare fronte comune con gli alleati della NATO, non solo contro Mosca, ma anche contro la Cina, che la NATO ha designato come obiettivo strategico per la prima volta nella sua storia.
Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO hanno imposto alla Russia le sanzioni più dure della storia e hanno fatto pressione sull’Europa occidentale affinché si staccasse dalle forniture energetiche russe e si affidasse invece alle esportazioni di gas naturale degli Stati Uniti. Per reazione, la Russia è diventata sempre più dipendente dalla Cina per il commercio e la tecnologia, nonché dalla Corea del Nord e dall’Iran per missili, droni e altre attrezzature militari.
Washington ha anche cercato di utilizzare l’aggressione della Russia per riunire il Sud globale sotto la sua bandiera, ma non ha avuto molta fortuna con i governi di questi Stati, nonostante l’identificazione popolare della maggior parte di questi paesi ex colonizzati con la lotta per l’autodeterminazione dell’Ucraina. Tuttavia, Biden ha usato l’Ucraina per rafforzare le alleanze globali e il soft power di Washington, che si propone come difensore dell’autodeterminazione e del cosiddetto ordine “basato sulle regole” di fronte all’imperialismo russo.
La guerra genocida di Israele a Gaza con il sostegno USA
La guerra genocida di Israele a Gaza ha sconvolto i piani imperiali di Washington per l’intero Medio Oriente e ha fatto precipitare la sua più grande crisi geopolitica dai tempi del Vietnam. Di fronte alla lenta morsa dell’assedio totale di Gaza, Hamas ha inscenato una disperata incursione il 7 ottobre, prendendo ostaggi e uccidendo un gran numero di soldati e civili.
Il suo attacco ha messo in luce le debolezze dell’intelligence israeliana e del controllo dei confini rappresentati dal muro dell’apartheid. In risposta, Israele ha lanciato la sua più grande incursione militare a Gaza con l’obiettivo dichiarato di recuperare gli ostaggi e distruggere Hamas. Non ha ottenuto nessuno dei due risultati. Ha invece devastato Gaza in una guerra di punizione collettiva, pulizia etnica e genocidio. L’amministrazione Biden l’ha sempre sostenuta, finanziandola, fornendole copertura politica con veti alle Nazioni Unite e armandola fino ai denti.
Tuttavia vi è disaccordo tra Stati Uniti e Israele. Se da un lato Washington sostiene l’obiettivo di Israele di distruggere la resistenza palestinese, dall’altro ha cercato di convincere Israele a cambiare strategia, passando da bombardamenti su Gaza e da massicce uccisioni di civili ad operazioni speciali dirette più in particolare contro Hamas. Il disaccordo strategico dell’amministrazione Biden con Israele è arrivato al culmine con l’assalto a Rafah e gli Stati Uniti hanno sospeso la consegna di alcune delle loro bombe più distruttive.
L’amministrazione statunitense non approva inoltre l’espansione degli attacchi di Israele nella regione, che includono bombardamenti in Siria, Libano, Iraq e Yemen. Washington non si è apertamente opposta a questi attacchi, ma ha cercato di fare pressione sui regimi presi di mira affinché non reagissero.
Gli Stati Uniti non sono riusciti a frenare Netanyahu, prigioniero dei fascisti della sua coalizione di governo che invocano il genocidio e la guerra regionale, soprattutto contro l’Iran. Netanyahu li ha assecondati per preservare la sua coalizione di governo, sapendo che, se dovesse cadere, rischierebbe di essere incarcerato con accuse di corruzione.
Pertanto, la guerra genocida e l’aggressione regionale di Israele potrebbero scatenare una guerra più ampia. Ha già spinto gli Houthi dello Yemen ad attaccare navi petrolifere e commerciali, minacciando l’economia mondiale e spingendo gli Stati Uniti a formare una coalizione per proteggere le proprie navi e minacciare gli Houthi.
Ma il più acuto e pericoloso di tutti i conflitti che Israele ha scatenato è quello con l’Iran. Ha bombardato l’ambasciata di Teheran a Damasco, uccidendo uno dei leader della Guardia rivoluzionaria islamica. Washington si è mossa per fare pressione sull’Iran affinché non colpisse Israele, per evitare che si scatenasse una guerra su larga scala.
Alla fine, l’Iran ha portato a termine un attacco per lo più simbolico contro Israele. Ha telegrafato i suoi piani agli Stati Uniti e agli Stati arabi, permettendo a Israele e ai suoi alleati di abbattere quasi tutti i droni e i missili. Gli Stati Uniti hanno poi fatto pressione su Israele affinché limitasse il suo contrattacco. Tuttavia, Tel Aviv ha inviato un messaggio minaccioso con un attacco limitato contro le strutture nucleari iraniane. In risposta, Teheran porterà avanti i suoi piani di sviluppo di armi nucleari e Israele risponderà con attacchi militari per proteggere il suo monopolio nucleare regionale, minacciando un Armageddon nella regione.
Nel bel mezzo di questo conflitto in continua espansione, la barbarie di Israele ha scatenato proteste di massa in tutto il Medio Oriente, nel Nord Africa e nel mondo, smascherando e isolando sia Israele che gli Stati Uniti, considerandoli ideatori e autori di genocidi. Il Sudafrica ha intentato una causa contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, accusandolo di genocidio, accusa che la Corte ha ritenuto plausibile.
Cina e Russia hanno approfittato della crisi per presentarsi come alleati della Palestina, nonostante le loro profonde relazioni economiche e diplomatiche con Israele e il loro sostegno alla stabilizzazione dello status quo nella regione. Gli oppressori dello Xinjiang e dell’Ucraina non hanno motivo di sostenere l’autodeterminazione nazionale.
Gli Stati Uniti, tuttavia, hanno subito un’enorme battuta d’arresto. Il loro soft power è stato fortemente indebolito. Quasi nessuno può credere alle loro affermazioni a sostegno di “un ordine basato sulle regole” o sull’“autodeterminazione” o addirittura della “democrazia”.
Per il momento, i piani per la normalizzazione di Israele attraverso gli Accordi di Abramo sono crollati. Con le loro popolazioni nelle piazze ad esprimere, come minimo, simpatia per il popolo palestinese, nessun regime arabo concluderà pubblicamente un accordo con Israele, nonostante la crescente integrazione economica con lo Stato dell’apartheid, anche se alcuni continuano a portare avanti tali piani in forma del tutto segreta.
Nessuno di questi regimi, e nemmeno l’Iran, possono essere considerati alleati della lotta palestinese. Con l’eccezione degli Houthi, tutti hanno ridotto le loro azioni militari contro Israele. Nessuno ha cancellato le spedizioni di petrolio verso le grandi potenze.
Non esiste un vero e proprio asse della resistenza. Tutti questi Stati stanno cercando di evitare che la solidarietà popolare con la Palestina si trasformi in opposizione ai loro dispotici regimi. E quando si sono trovati di fronte a una resistenza interna, tutti, dall’Egitto all’Iran, l’hanno repressa con la più brutale violenza. Sono tutti regimi capitalistici controrivoluzionari.
Tuttavia, la guerra genocida di Israele ha minato il tentativo di Washington di corteggiare gli Stati e i paesi sub-imperiali della regione e di tutto il Sud globale. La memoria che questi stati e i loro popoli hanno della propria lotta di liberazione li porta a identificarsi con la Palestina e ad opporsi sia agli Stati Uniti che a Israele. Tutto ciò ha suscitato un’ondata globale senza precedenti di proteste popolari in solidarietà con la Palestina. Nel frattempo, l’incessante sostegno dell’amministrazione Biden a Israele ha scatenato proteste incessanti negli ultimi sei mesi, culminate in una ribellione studentesca nei campus di tutti gli Stati Uniti. Questo ha ulteriormente indebolito le pretese di Washington di essere un modello di democrazia; infatti entrambi i partiti politici, in collaborazione con le amministrazioni universitarie liberali e conservatrici, hanno represso questa ribellione studentesca con la massima brutalità.
La guerra di Israele ha così annullato tutti i vantaggi geopolitici che gli Stati Uniti avevano ottenuto con la loro posizione sull’Ucraina, ha messo in crisi l’imperialismo statunitense e ha messo a rischio la rielezione di Biden. Inoltre, ha dato ampio spazio ai rivali globali e regionali di Washington per affermare sempre più i propri interessi, intensificando i conflitti in tutto il mondo.
Taiwan, l’epicentro della rivalità USA – Cina
Taiwan è diventata l’epicentro della rivalità tra Stati Uniti e Cina. La Cina ha indicato la riunificazione, cioè l’annessione di Taiwan, come uno dei suoi principali obiettivi imperialistici. Se da un lato Biden si è impegnato a mantenere la politica di una sola Cina e l’ambiguità strategica, dall’altro ha promesso più volte di intervenire in difesa di Taiwan in caso di guerra.
Per prepararsi a una tale conflagrazione, sta cercando di superare l’antagonismo storico tra gli alleati regionali – Giappone, Filippine, Corea del Sud, Vietnam e altri – per unirli in vari patti multilaterali e bilaterali contro la Cina. Tutto ciò sta acuendo il conflitto su Taiwan.
Allo stesso tempo, l’integrazione economica tra Stati Uniti, Cina e Taiwan attutisce la deriva verso la guerra. Una multinazionale taiwanese, Foxconn, produce l’iPhone di Apple in gigantesche fabbriche in Cina per esportarlo in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. La TSMC di Taiwan è anche il produttore del 90% dei microchip più avanzati al mondo, che vengono utilizzati in qualsiasi cosa, dai tostapane alle armi militari ad alta tecnologia e ai cacciabombardieri come l’F-35.
Nonostante questa integrazione, il conflitto USA-Cina su Taiwan si è intensificato durante il mandato di Biden e i rappresentanti statunitensi lo hanno ulteriormente aggravato con atti provocatorii. Ad esempio, Nancy Pelosi ha organizzato un viaggio diplomatico in cui ha promesso il sostegno degli Stati Uniti a Taiwan, spingendo la Cina a rispondere con minacciose esercitazioni militari. Da parte sua, anche la Cina si è impegnata in provocazioni con l’obiettivo di influenzare la politica taiwanese, inviando in questo modo un messaggio a Washington.
In realtà, nessuna delle due grandi potenze rispetta il diritto di Taiwan all’autodeterminazione. La Cina vuole annettere Taiwan e Washington usa Taipei solo come parte della sua offensiva imperiale contro Pechino. Sebbene la guerra sia improbabile, perché potrebbe innescare una conflagrazione nucleare e distruggere l’economia mondiale interrompendo la produzione e il commercio di microchip e di materie prime importanti per il funzionamento del capitalismo mondiale come il petrolio, data l’escalation del conflitto imperialista non può essere esclusa.
La depressione intensifica la rivalità interimperialista
Il crollo globale del capitalismo sta intensificando la rivalità tra Stati Uniti, Cina e Russia sia in ambito commerciale che geopolitico, passando attraverso questi centri strategici. La depressione globale sta inoltre esacerbando le disuguaglianze all’interno e tra le nazioni del mondo.
In quanto potenza imperialista dominante che controlla la valuta di riserva mondiale (il dollaro), gli Stati Uniti si sono ripresi con maggior successo dei loro rivali dalla recessione pandemica. È l’eccezione, non la norma nel mondo capitalistico avanzato. Nonostante ciò, l’inflazione ha colpito la classe lavoratrice e ha intensificato le divisioni sociali e di classe.
L’Europa e il Giappone sono in recessione o in crescita lenta, con una crescente disuguaglianza di classe. La Cina continua a crescere, ma a un ritmo molto ridotto. La Russia ha organizzato un’economia di guerra per sfuggire al forte impatto delle sanzioni e mantenere i tassi di crescita, ma questo orientamento non pare sostenibile. In entrambi i paesi, le disuguaglianze stanno aumentando.
La depressione globale sta avendo effetti simili tra le potenze sub-imperiali, molte delle quali dipendono dai mercati di esportazione depressi del mondo capitalistico avanzato. Nei paesi oppressi e indebitati del Sud globale è scoppiata una grave crisi del debito sovrano. La combinazione di crescita lenta, debolezza dei mercati di esportazione, inflazione e aumento dei tassi di interesse ha reso questi paesi incapaci di rimborsare i loro prestiti. Sebbene i finanziatori privati capitalisti, così come il Fondo Monetario Internazionale/Banca Mondiale e le banche cinesi di proprietà o controllate dallo Stato, abbiano raggiunto accordi parziali con i paesi indebitati, essi vogliono comunque che i loro prestiti siano rimborsati e hanno imposto varie condizioni per garantire il rimborso. Tutto ciò esaspera le divisioni sociali e di classe, portando in alcuni casi alla crescita estrema della povertà, che era stata ridotta durante il boom neoliberista.
Polarizzazione, rivolte e rivoluzione
Il fatto che l’establishment capitalista, sia nelle democrazie liberali che nelle autocrazie, sia incapace di superare questa crisi, comporterà una polarizzazione politica sempre maggiore, offrendo opportunità sia alla destra che alla sinistra.
Data la debolezza dell’estrema sinistra e delle organizzazioni sociali e di classe, varie forme di riformismo sono state la principale espressione di un’alternativa a sinistra. Ma, com’era prevedibile, i riformisti al governo sono stati condizionati dalla burocrazia statale capitalista e dalle loro economie deboli e in crisi, che li hanno portati a rinnegare le loro promesse o a tradirle e ad adottare politiche capitaliste tradizionali.
L’esempio paradigmatico è Syriza in Grecia. Ha tradito la promessa di opporsi all’UE e ai creditori internazionali e ha capitolato al loro programma di austerità, perdendo così il potere a favore di un governo neoliberale di destra.
A livello globale, i fallimenti dell’establishment capitalista, così come dei suoi oppositori riformisti, stanno aprendo le porte all’estrema destra elettorale e alle forze fasciste emergenti. Per quanto etno-nazionalista, autoritaria e reazionaria possa essere, la maggior parte di questa nuova destra non è fascista, nel senso tradizionale del termine. Non stanno costruendo movimenti di massa per rovesciare la democrazia borghese, imporre una dittatura e schiacciare le lotte dei lavoratori e degli oppressi. Al contrario, stanno cercando di vincere le elezioni all’interno della democrazia borghese e di usare lo Stato per reimporre l’ordine sociale attraverso politiche di ordine pubblico contro vari capri espiatori, in particolare i migranti che fuggono dalla povertà, dalle crisi politiche e dal cambiamento climatico.
Negli Stati Uniti, in Europa, in India, in Cina, in Russia e in altri paesi, l’estrema destra è particolarmente insistente nel prendere di mira la popolazione musulmana. Quasi senza eccezione, la destra promette di ripristinare l’ordine sociale facendo rispettare i valori della famiglia contro le femministe, i trans e gli attivisti LGBTQI+.
La destra ha già conseguito avanzate storiche in Europa, Asia e America Latina. E nel 2024, con le elezioni in 50 paesi a cui parteciperanno due miliardi di persone, i partiti di destra sono ben posizionati per ottenere ulteriori progressi.
Ma forse il momento più importante per la politica mondiale è negli Stati Uniti, dove Biden si candida per consolidare le alleanze e i progetti imperialisti statunitensi all’estero e, presumibilmente, difendere la democrazia in patria. Trump minaccia di abbandonare il progetto dell’imperialismo statunitense di guidare il capitalismo globale, di ritirarsi dalle sue alleanze multilaterali, di imporre politiche economiche più nazionaliste e di trasformare gli oppressi in patria e all’estero in capri espiatori per garantirsi il successo elettorale. Così facendo, accelererebbe il declino relativo di Washington, intensificherebbe le disuguaglianze interne e inasprirebbe gli antagonismi inter-imperialisti e inter-statali.
Né Trump né l’estrema destra offrono ai popoli sfruttati e oppressi alcuna soluzione alle crisi che vivono. Di conseguenza, le loro vittorie non porteranno a regimi stabili e apriranno la porta alla rielezione dei partiti dell’establishment.
La combinazione di crisi e l’incapacità dei governi di qualsiasi tipo di risolverle ha portato i lavoratori e i settori oppressi della società a ondate di proteste a partire dalla Grande Recessione. In effetti, gli ultimi 15 anni hanno visto alcune delle più grandi rivolte dagli anni Sessanta.
Quasi tutti i paesi del mondo hanno sperimentato una qualche forma di lotta di massa, soprattutto in Medio Oriente e Nord Africa. Tutte sono state ostacolate dalle sconfitte e dalle battute d’arresto degli ultimi decenni, che hanno indebolito l’organizzazione sociale e di classe e hanno frantumato la sinistra rivoluzionaria.
Di conseguenza, anche le rivolte più potenti non sono state in grado di portare a termine con successo rivoluzioni politiche o sociali. Ciò ha permesso alla classe dominante e ai suoi rappresentanti politici di sfruttare l’occasione per mantenere la propria egemonia, spesso con l’appoggio di questa o quella potenza imperiale o sub-imperiale.
Ad esempio, Russia, Iran ed Hezbollah hanno salvato il brutale regime siriano di Bashar al-Assad confrontato con un sollevamento rivoluzionario. D’altra parte, la strategia statunitense di conservazione del regime ha aiutato la classe dirigente egiziana a reimporre la brutale dittatura di Abdel Fattah el-Sisi. Ma questi regimi non hanno affatto stabilizzato le loro società. Le crisi persistenti e gli spaventosi livelli di disuguaglianza e oppressione continuano ad alimentare la resistenza dal basso in tutto il mondo.
Tre pericoli per l’antimperialismo
Il nuovo ordine mondiale multipolare e asimmetrico, con le sue crescenti rivalità inter-imperiali, i conflitti tra Stati e le ondate di rivolte all’interno delle società, ha messo la sinistra internazionale di fronte a domande a cui non è in grado di rispondere. Nel ventre della bestia, gli Stati Uniti, la sinistra ha adottato in generale almeno tre posizioni errate, che minano la costruzione di una solidarietà internazionale dal basso contro l’imperialismo e il capitalismo globale.
In primo luogo, coloro che sono nell’orbita del Partito Democratico sono caduti nella trappola del sostegno socialmente patriottico agli Stati Uniti rispetto ai loro rivali. Hanno sostenuto l’appello di Biden a formare una lega di democrazie contro Cina e Russia. Ciò è particolarmente evidente tra i sostenitori di Bernie Sanders, che, per quanto possano essere critici nei confronti di questa o quella politica statunitense sbagliata, vedono Washington come una forza positiva nel mondo.
In realtà, come dimostra il sostegno di Biden alla guerra genocida di Israele, gli Stati Uniti sono uno dei principali nemici della liberazione nazionale e della rivoluzione sociale nel mondo. È la principale potenza egemone che cerca di imporre un misero status quo ed è quindi un avversario, non un alleato, della liberazione collettiva su scala internazionale.
In secondo luogo, altri settori della sinistra hanno commesso l’errore opposto, cioè considerare il nemico del mio nemico come un amico. Definita in vari modi come “antimperialismo volgare”, “antimperialismo stupido” o “campismo”, questa posizione appoggia i rivali imperiali di Washington considerandoli come componenti di un presunto asse di resistenza. Alcuni dei suoi sostenitori si spingono anche oltre, affermando che stati palesemente capitalisti come la Cina rappresentano una sorta di alternativa socialista (anche se, ad esempio, Xi Jinping elogia il primo ministro ungherese di estrema destra Viktor Orbán e pubblicizza la “partnership strategica globale per tutte le stagioni per la nuova era” tra Cina e Ungheria). In questo modo, sostengono grandi potenze in ascesa, stati sub-imperiali e varie dittature di paesi subordinati.
In questo modo, ignorano la natura imperialista di stati come la Cina e la Russia e la natura controrivoluzionaria di regimi come l’Iran e la Siria, indipendentemente dalle loro politiche repressive nei confronti dei lavoratori e degli oppressi. E si oppongono alla solidarietà con le lotte popolari in quei paesi, liquidandole come finte rivoluzioni orchestrate dall’imperialismo statunitense.
Inoltre, forniscono alibi, e in alcuni casi sostengono apertamente, la guerra della Russia contro l’Ucraina e la repressione da parte della Cina della rivolta democratica di Hong Kong. In breve, si schierano con altri stati imperialisti e capitalisti, facendo ginnastica mentale per negare il loro carattere capitalista, sfruttatore e oppressivo.
Infine, alcuni a sinistra hanno adottato una posizione di riduzionismo geopolitico. Riconoscono la natura predatoria dei vari stati imperialisti e non appoggiano nessuno di essi. Ma quando queste potenze entrano in conflitto con le nazioni oppresse, invece di difendere il diritto di queste nazioni all’autodeterminazione, compreso il diritto ad armarsi per ottenere la loro liberazione, riconducono queste situazioni all’unico asse della rivalità inter-imperialista e, su questa, base si oppongono alle rivendicazioni delle nazioni oppresse.
Certo, le potenze imperialiste possono manipolare le lotte di liberazione nazionale a tal punto da farle diventare nient’altro che guerre per procura. Ma i riduzionisti geopolitici usano questa possibilità per negare il sostegno alle attuali legittime lotte di liberazione.
È stata questa la posizione di molti a sinistra sulla guerra imperialista della Russia contro l’Ucraina, riducendola a una mera guerra per procura tra Mosca e Washington. Ma come dimostrano i sondaggi e la resistenza nazionale, gli ucraini stanno combattendo per la propria liberazione, non come zampa di gatto dell’imperialismo statunitense.
Sulla base della loro errata valutazione della guerra, i riduzionisti geopolitici si sono opposti al diritto dell’Ucraina a ricevere armi per la sua liberazione dall’imperialismo russo e si sono opposti all’invio di armi, in alcuni casi arrivando a intraprendere azioni per bloccarle. La riuscita del blocco dell’invio di queste armi comporterebbe una vittoria dell’imperialismo russo e sarebbe un disastro per il popolo ucraino, condannandolo allo stesso destino di quello subito dai massacrati a Bucha e Mariupol.
Nessuna di queste tre posizioni fornisce alla sinistra internazionale una guida per affrontare le questioni poste dal nuovo ordine mondiale multipolare e asimmetrico.
Per un antimperialismo internazionalista
Un approccio sicuramente migliore è quello che possiamo definire come un antimperialismo internazionalista. Piuttosto che schierarsi di volta in volta con uno stato imperialista o capitalista, i sostenitori di questa posizione si oppongono a tutti gli imperialismi, così come ai regimi capitalisti meno potenti, opponendosi agli interventi imperialisti contro di essi. Siamo solidali con tutte le lotte popolari di liberazione, di riforme o rivoluzionarie in tutto il mondo e senza eccezioni.
Quando si verificano situazioni di liberazione nazionale, siamo incondizionatamente ma criticamente al fianco dei popoli oppressi nella loro lotta per la libertà. In queste lotte, tuttavia, non confondiamo la liberazione nazionale con il socialismo, rifiutando la tentazione di dipingere queste battaglie con un pennello rosso.
Adottiamo invece un approccio indipendente che consiste nel costruire solidarietà con i lavoratori e gli oppressi all’interno di queste lotte e nel coltivare relazioni politiche con le loro forze progressiste e rivoluzionarie per trasformare le lotte di liberazione nazionale in lotte per il socialismo.
Questo ci porta ad adottare una posizione diversa da quella di gran parte della sinistra sui tre punti strategici dell’attuale ordine imperiale.
In primo luogo, nel caso dell’Ucraina, sosteniamo la sua lotta di liberazione e difendiamo il suo diritto a ricevere armi, anche dagli Stati Uniti e dalla NATO, ma non sosteniamo il governo neoliberale di Vladimir Zelensky. Ci opponiamo anche all’imperialismo occidentale che utilizza l’Ucraina per portare avanti le proprie ambizioni predatorie per consegnare il paese e la regione agli interessi delle banche e delle grandi imprese multinazionali.
Al contrario, coltiviamo le relazioni con la sinistra ucraina e il movimento sindacale del paese aggredito. Sosteniamo le loro richieste contro il neoliberismo, la ricostruzione a debito e l’apertura dell’economia ucraina al capitale multinazionale. Sosteniamo la loro richiesta di una ricostruzione popolare del paese basata sugli investimenti nel settore pubblico, con salari decenti e con il diritto dei lavoratori a sindacalizzarsi.
Nel caso della Palestina, ci opponiamo al sostegno dell’imperialismo statunitense alla guerra genocida di Israele a Gaza e sosteniamo con convinzione la resistenza palestinese. Ma questo non significa che sosteniamo la loro attuale leadership politica e la loro strategia e tattica. Assumiamo una posizione critica nei confronti dei loro partiti borghesi e piccolo-borghesi, che si tratti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) o della sua alternativa fondamentalista islamica Hamas.
La principale leadership dell’OLP, Fatah, ha abbandonato la lotta armata con l’illusione di una soluzione diplomatica a due Stati. Tre decenni di tale diplomazia sono falliti, lasciando la Cisgiordania occupata, Gaza sotto assedio e Israele che pratica l’apartheid sui palestinesi all’interno dei suoi confini del 1948.
Hamas ha riempito il vuoto lasciato dalla capitolazione di Fatah nella resistenza. Tuttavia, non ha sviluppato una strategia alternativa, ma ha continuato la vecchia strategia di Fatah di affidarsi ad alleati arabi e iraniani presunti amici per aiutarlo nella lotta militare contro Israele. Non c’è motivo di credere che questa strategia, che ha fallito quando è stata perseguita dall’OLP, avrà successo oggi.
Sostenuto dall’imperialismo statunitense e sostenuto da alleanze con la maggior parte dei regimi arabi, Israele non sarà sconfitto militarmente. Solo una strategia che combini la resistenza palestinese contro Israele, la lotta rivoluzionaria contro tutti i regimi della regione e i movimenti antimperialisti in tutte le principali potenze può liberare il popolo palestinese dall’apartheid israeliana e stabilire uno stato laico e democratico dal fiume al mare con pari diritti per tutti, compreso il diritto dei palestinesi di tornare alle loro case e terre rubate.
Infine, nel caso di Taiwan, ci opponiamo alla minaccia cinese di annettere l’isola e difendiamo il diritto di Taiwan all’autodeterminazione, compresa l’autodifesa armata, opponendoci al tentativo di Washington di armare il paese nella sua rivalità imperiale con la Cina.
L’antimperialismo internazionalista offre una strategia per costruire la solidarietà dal basso tra i lavoratori e gli oppressi contro tutte le grandi potenze e gli stati capitalisti del mondo. Abbiamo l’enorme opportunità e la responsabilità di sostenere questo approccio tra una nuova generazione di attivisti.
Non sosteniamo nessuno dei partiti borghesi che si contendono la leadership di Taiwan, ma siamo solidali con la sinistra emergente del paese, le organizzazioni popolari e i sindacati. Solo loro hanno l’interesse e il potere di sfidare le potenze imperiali e la classe capitalista a Taiwan e di costruire solidarietà con i lavoratori e gli oppressi in Cina, nella regione e negli Stati Uniti.
L’antimperialismo internazionalista offre quindi una strategia per costruire solidarietà dal basso contro tutte le grandi potenze e tutti gli stati capitalisti del mondo. Abbiamo l’enorme opportunità e la responsabilità di sostenere questo approccio tra una nuova generazione di attivisti che si oppongono istintivamente all’imperialismo statunitense e diffidano delle altre grandi potenze e degli stati oppressori.
Possiamo solo dimostrare la superiorità di queste idee nella pratica, nelle lotte: dalle lotte sociali e di classe in patria, a quelle in solidarietà con la Palestina, l’Ucraina e le altre nazioni oppresse. Così facendo, possiamo contribuire a forgiare una nuova sinistra internazionalista impegnata a costruire la solidarietà dal basso nella lotta contro il capitalismo globale e per il socialismo internazionale.
*redattore della rivista americana Tempest – www.tempestmag.org.