«Quanto vale una balena?». È da questa domanda che origina l’omonimo saggio – edito da Add Editore – di Adrienne Buller, direttrice di Common Wealth, un think tank britannico che studia l’economia politica della proprietà. Gli scritti di Buller intersecano sistema finanziario, greenwashing e crisi climatica. In un contesto, quello attuale, alla disperata ricerca di soluzioni per giungere a un’economia più sostenibile e rispettosa dell’ambiente.
Proprio per questo, la domanda iniziale nasconde delle insidie: ricercare le soluzioni in quella economia neoliberista che ha generato il problema potrebbe farci perdere solo tempo prezioso. Già c’è chi si è preso la briga di dare un prezzo all’intero ecosistema. Ci sono cose assai importanti che sfuggono alla finanziarizzazione. E sono proprio quelle che potrebbero aiutarci a trovare una nuova maniera di vivere su questo pianeta, riducendo le disuguaglianze e il nostro impatto sull’ambiente. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Il capitalismo sta trasformando l’ambiente in beni scambiabili sul mercato, con la convinzione che, così facendo, gli agenti economici saranno spinti ad abbandonare le attività a più alte emissioni in modo più efficace. Questo è il principio cardine del tuo libro, in cui critichi il cosiddetto capitalismo verde. È così?
Questo libro nasce dalla spinta di una semplice domanda. Malgrado la consapevolezza, l’attenzione pubblica senza precedenti e l’impegno da parte dei governi, perché siamo tanto fuori rottarispetto a un futuro abitabile e a un presente sicuro per tutti? La risposta non è semplice.
Nel cercarla, il mio saggio non vuole aggiungersi ai tanti già scritti che parlano della cattiva fede di diversi soggetti che senza dubbio fanno parte del problema. Il mio parere è che la sfida ecologica di oggi non sia quella di frenare il negazionismo. Quanto interrompere la masochistica adesione a promesse e soluzioni fallaci. Il nostro mondo, sempre più controllato da un settore finanziario fuori misura, è definito dagli imperativi dell’economia. E invece dovrebbe essere un mondo in cui il prosperare dell’economia dia spazio al prosperare della vita.
In questo contesto, tu definisci il mercato dei crediti di CO2 (credit carbon markets) come una delle principali «false soluzioni».
Il mercato delle emissioni di CO2 e il prezzo della CO2 rappresentano appieno l’idea di capitalismo verde per come lo descrivo nel libro. Perché dimostra l’essenza di cosa significa utilizzare meccanismi basati sul mercato come unica soluzione praticabile all’emergenza climatica. Chi persegue questa logica è convinto che, se riusciamo a fissare il prezzo giusto, la mano invisibile del mercato sarà in grado da sola di eliminare il problema delle emissioni dall’economia. Così, senza bisogno di interventi statali pesanti o comunque senza bisogno di cambiare le nostre abitudini.
Ma nella pratica non è affatto semplice stabilire il prezzo giusto delle emissioni. Gli stessi economisti non riescono a concordare quale sia il prezzo da pagare per raggiungere i nostri obiettivi climatici. E, anche se si considerano le previsioni più ottimistiche, siamo comunque molto lontani dalla strada giusta in termini di prezzi reali della CO2. Perché attuare un prezzo sufficientemente alto per fare davvero la differenza, senza avere supporti governativi per minimizzare l’impatto economico, sarebbe davvero doloroso dal punto di vista economico per molti.
E così ci si ritrova in una sorta di loop, dove a chi professa il libero mercato come ricetta per risolvere la crisi serve un considerevole sostegno pubblico. Il che dimostra che il mercato non può essere usato per risolvere qualunque problema.
Altre false soluzioni di cui ti occupi nel libro?
L’idea di fare affidamento sul finanziamento privato per garantire gli enormi investimenti necessari per la transizione verso un’economia sostenibile. Prendiamo ad esempio il trend degli investimenti ESG. Trend che riflette esattamente questa idea, con i politici di tutto il mondo che si affidano all’industria ESG, convinti che il mercato risolverà il problema.
Ma a ben vedere, gli investimenti ESG non sempre sono investimenti sostenibili. Quindi non sono quello che sembrano. Sono solo l’ennesima distrazione.
Distrazione da cosa?
Dal fatto che bisognerebbe semplicemente regolamentare le banche e i gestori di asset e investimenti in modo che non possano continuare a finanziare l’industria dei combustibili fossili. Questo punto tocca il cuore della mia critica al capitalismo verde, che si basa sull’idea che possiamo fare affidamento sul profitto per risolvere sfide incredibilmente complesse. E però vuole avere investimenti ad alto rendimento nel breve termine.
Ci sono molte cose che nel prossimo futuro saranno enormemente distruttive per il clima e la natura, che si tratti di estrarre e bruciare combustibili fossili o di disboscare le foreste pluviali per l’allevamento intensivo di bestiame. Tutte attività che sono ancora enormemente redditizie. Mentre molte delle cose di cui abbiamo più urgentemente bisogno per un futuro sostenibile non sono – e probabilmente non saranno mai – redditizie allo stesso modo. Penso all’esempio dei veicoli elettrici nel trasporto pubblico.
È probabile che sia molto più redditizio per il capitale privato che tutti sostituiscano semplicemente la propria auto con un’auto elettrica invece di investire in un’eccellente trasporto pubblico decarbonizzato, che elimina la necessità di far affidamento sulle auto private. Si finisce così per trasformare l’auto elettrica nell’ennesimo mercato catastrofico in termini ecologici, e quindi umani, poiché l’estrazione mineraria implicata dall’aumento del numero di macchine elettriche è enorme e crea enormi pressioni su ecosistemi vulnerabili e comunità nelle regioni dove avviene. Quindi, ripeto, c’è un problema fondamentale nel fare affidamento sul profitto a tutti i costi. Alcuni aspetti della transizione verde sono redditizi, certo, ma questo non significa che sia lo strumento giusto per plasmare la trasformazione economica di cui abbiamo bisogno su scala globale.
Perché, nonostante il problema sia chiaro, non stiamo facendo abbastanza per adottare soluzioni significative? Chi sta ostacolando questo processo? Sono le compagnie petrolifere? I governi? Chi altro?
Questa è una risposta complessa. Certamente, le principali compagnie petrolifere hanno fatto più di chiunque altro per oscurare la verità e creare dubbi sulla ricerca scientifica. E, ora che quelle tattiche sono meno efficaci, cercano di distrarre e ritardare azioni pratiche contro la crisi climatica. Allo stesso modo, molti politici, spesso sostenuti da queste aziende, contribuiscono al ritardare l’adozione di soluzioni. Detto questo, nel libro cerco di sottolineare come la storia sia molto più complicata. E le responsabilità vadano al di là di semplici attori in cattiva fede come i dirigenti delle grandi aziende petrolifere.
Penso che uno dei più grandi fattori che contribuiscono alla lentezza e all’inadeguatezza della nostra risposta a questa crisi non sia l’ostruzionismo, bensì l’inseguimento di soluzioni false o inefficaci. Nel libro, per esempio, cerco di focalizzare l’attenzione sulle politiche guidate dal mercato. Politiche adottate a discapito di alternative che potrebbero essere sia più efficaci nel tagliare le emissioni, sia più «giuste» in termini di impatto ambientale.
Dici che il futuro non ha una forma «già definita». Quindi, quali sono le soluzioni da adottare? Cosa proponi?
Anche se è impossibile delineare un piano generale, penso che sia vitale riconoscere che la forma del futuro non è ancora stata scritta. L’attivismo, i movimenti sociali e le organizzazioni dedicate, comprese quelle dei sindacati, continuano a fare una grande differenza nella forma e nella velocità delle politiche climatiche. Prendiamo il Climate Action Plan negli Stati Uniti. È molto lontano da quello che molte organizzazioni progressiste e attiviste volevano in termini di ambizione e radicalismo. E da quello che serve davvero per frenare le emissioni velocemente. Ma non si può negare che rappresenti un cambiamento epocale.
Questo è vero per quanto riguarda il livello di ambizione climatica adottato dagli Stati Uniti nel complesso. Ma anche nel rompere con l’ossessione di attuare un sistema di limitazione e scambio per le emissioni che aveva dominato il dibattito sulla politica climatica per molti anni. Vedo questo come un cambiamento verso uno stato più attivo, che investe direttamente nella transizione e guarda agli sforzi dei sindacati per richiedere una transizione giusta che non lasci indietro i lavoratori nelle industrie interessate. Quindi per me, la cosa importante è ricordare che abbiamo molto più potere di quanto possiamo pensare per spostare collettivamente il cursore. E chiedere cambiamenti molto più radicali.
*articolo apparso il 12 luglio 2024 su https://valori.it/.