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All’inizio della rivoluzione siriana [marzo 2011], l’invito a evitare la violenza e la militarizzazione era la voce dominante. Si riteneva comunemente che il regime di Assad avrebbe tratto vantaggio dalla militarizzazione della rivolta, poiché la violenza era il terreno su cui si muoveva con maggiore agio. Alla fine, il regime di Assad è caduto, ma non in seguito a un compromesso mediato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, le cui risoluzioni erano state costantemente eluse dal regime. È crollato in maniera drastica attraverso un intervento militare che, in pochi giorni, ha decretato la sua fine, lasciando il Paese devastato e consegnando la vittoria a nuovi attori.

Il principale vantaggio politico dei vincitori risiede nel fatto di aver causato il crollo del regime, un risultato che per loro rappresenta un grande successo, sebbene tale successo sia il frutto dello sforzo collettivo dei siriani per liberarsi dal giogo di Assad. La totale disfatta militare del regime è stata preceduta da un completo collasso morale e politico, a cui hanno contribuito in modo determinante anche coloro che si sono opposti ad Assad senza ricorrere alla lotta armata. Si potrebbe persino sostenere che le azioni militari contro il regime gli abbiano fornito, paradossalmente, una certa legittimità morale e politica, sia agli occhi della comunità internazionale sia di una parte della sua base di sostegno. Sebbene i metodi pacifici non sarebbero stati sufficienti a rovesciare il regime, hanno permesso la formazione di una coscienza e di una tradizione di lotta che si sono rivelate decisive nel porre fine al suo dominio. Per i sostenitori della resistenza non violenta, questa rappresenta una giustificazione essenziale della loro scelta strategica.

D’altra parte, sebbene sia stato il ricorso alle armi a determinare il crollo spettacolare del regime, ciò non dimostra che la lotta armata fosse, fin dall’inizio, la strada migliore e più sicura per abbattere la giunta di Assad. Al contrario, come era prevedibile e come si è visto, ha portato con sé una scia di distruzione e massacri senza precedenti nella storia moderna della Siria. Questo risultato è dovuto in larga parte alle pratiche distruttive e coloniali del regime, che ha agito come una potenza occupante, priva di qualsiasi senso di responsabilità collettiva e indifferente al destino del Paese. Inoltre, la militarizzazione del conflitto ha alimentato divisioni settarie e odi comunitari, che ora richiederebbero ai nuovi detentori del potere una visione inclusiva e una saggezza politica in grado di proteggere il futuro della Siria.

I vincitori, inizialmente percepiti come sostenitori della controrivoluzione e strumenti del regime di Assad e dei suoi alleati, sono stati visti a un certo punto come un’ancora di salvezza per il regime stesso. Questo è avvenuto sia a causa delle loro azioni militari, che hanno schiacciato la rivoluzione, sia per la loro natura islamista, respinta da molti musulmani non sunniti, da una parte dei sunniti stessi e dall’Occidente. Nonostante fossero classificati dalle potenze occidentali come terroristi, sono riusciti a rovesciare il regime di Assad, portando al popolo siriano una gioia che, al momento, supera ogni altra considerazione.

Tuttavia, un’analisi più attenta mostra che questi eventi non invalidano del tutto le considerazioni precedenti. I fattori che hanno determinato l’imprevista caduta del regime di Assad sono stati, in larga misura, esterni, così come i fattori che gli avevano permesso di sopravvivere per oltre tredici anni dall’inizio della rivoluzione. Non è stato il contesto politico interno a determinare principalmente il corso degli eventi. È importante ricordare, inoltre, che le forze entrate a Damasco sulle rovine del regime di Assad avevano già esperienze di governo, ma i loro precedenti non offrono un modello convincente di amministrazione. I loro leader, inoltre, non incarnano le aspirazioni della popolazione siriana.

Il prestigio acquisito da queste forze è dovuto quasi esclusivamente alle atrocità commesse dal regime di Assad e all’orrore che esse hanno suscitato. Tali crimini hanno reso il regime un peso insopportabile non solo per il Paese e per i suoi oppositori, ma persino per i suoi stessi sostenitori, al punto da diventare motivo di vergogna collettiva. Di conseguenza, le forze che lo hanno rovesciato, indipendentemente dalla loro natura, hanno guadagnato un’enorme considerazione pubblica. Questo sentimento è dimostrato dalla gratitudine diffusa nei loro confronti, sia tra i lealisti sia tra gli oppositori del regime. La gioia per la caduta del regime è evidente a tutti i livelli, persino tra coloro che temono maggiormente le forze islamiste. Tuttavia, per molti questa gioia è accompagnata da inquietudine, in particolare tra le minoranze nazionali e religiose, come gli alawiti, e tra una parte consistente dei musulmani sunniti. Le preoccupazioni riguardano soprattutto l’ideologia di queste forze, la loro scarsa apertura alla modernità e il loro atteggiamento ostile nei confronti del resto del mondo.

La Siria si trova ora di fronte a una nuova fase di lotta. Da una parte ci sono le forze islamiste vittoriose, dall’altra quelle non islamiste, che cercano di ritagliarsi uno spazio nella vita politica, promuovendo valori di apertura e avvicinamento al mondo sviluppato. Il conflitto si pone tra chi considera la caduta del regime come il compimento della rivoluzione e chi, invece, lo vede come il punto di partenza per creare le condizioni affinché la rivoluzione possa realizzarsi pienamente.

Non si può escludere che emergano conflitti interni tra le stesse forze che hanno contribuito al rovesciamento del regime, soprattutto quando le sfide della ricostruzione dello Stato diventeranno evidenti e si acuiranno le rivalità sui ruoli e sulle priorità. Inoltre, la lotta contro la tendenza degli islamisti a islamizzare lo Stato e la società potrebbe generare ulteriori tensioni anche tra le fazioni islamiste.

La Siria si trova quindi a fronteggiare un conflitto in due fasi. La prima, già conclusa, ha visto il crollo militare del regime grazie alle forze islamiste, capaci di mobilitarsi, combattere e ottenere supporto esterno. Tuttavia, fermarsi a questa fase significherebbe tradire le aspirazioni dei siriani che hanno avviato la rivoluzione. La seconda fase, ancora da intraprendere, spetta alle forze della società civile. Attraverso una lotta non violenta, queste forze devono determinare la Costituzione, definire la forma dello Stato e creare un sistema politico inclusivo, trasformando la Siria da una repubblica solo nominale a una repubblica autentica. Solo allora si potrà affermare che la rivoluzione abbia raggiunto la sua vittoria.

*articolo apparso su https://963media.com/