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Cosa rappresenta il ritorno al potere di Donald Trump e, più specificamente, la sua alleanza con Elon Musk e i capi di Meta, Amazon, Google, ecc.? Una nuova fase nell’ascesa dei signori tecnofeudali, analizza qui l’economista Cédric Durand, che si interroga anche sulla politica che dovremmo opporre a quello che potrebbe benissimo costituire un “grande evento della storia universale”.

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In L’uomo senza qualità, il grande romanzo di Robert Musil ambientato a Vienna nell’anno che precede la prima guerra mondiale, il generale Stumm rivolge a Ulrich, il personaggio principale, un’osservazione che il narratore ci dice essere piena di saggezza: “Vedi, tu vorresti sempre che fosse tutto chiaro (…). Certo, ammiro questo tratto, ma se tu pensassi storicamente, una volta? Come potrebbero coloro che partecipano immediatamente a un grande evento sapere in anticipo se sarà un grande evento? Al massimo immaginando che lo sia! Se mi permetti un paradosso, affermerei quindi che la storia universale è scritta prima di accadere: inizia sempre con delle chiacchiere”.
Le chiacchiere sul grande evento in corso sono quelle che circondano l’ascesa al potere di Donald Trump e il vento gelido che la cerimonia di insediamento del 20 gennaio 2025 ha fatto soffiare sulla situazione politica mondiale. Se la valanga di decreti [executive orders]più di un centinaio in una settimana – e di aggressioni verbali era attesa, la messa in scena della fusione tra il potere politico e i giganti della tecnologia americana è stata una sorpresa.
Contrariamente all’usanza secondo la quale i primi posti sono riservati agli ex presidenti e agli altri ospiti d’onore, Mark Zuckerberg di Meta, Jeff Bezos di Amazon, Sundar Pichai di Google ed Elon Musk di Tesla si sono trovani nelle immediate vicinanze del presidente. Più indietro si trovavano Tim Cook di Apple, Sam Altman di Open AI e Shou Zi Chew di Tik Tok, mescolati alla piccola folla di dignitari del nuovo regime, con Barack Obama, George W. Bush, i Clinton e i ministri scelti dallo stesso Trump.
Poche ore dopo, i due saluti nazisti di Elon Musk rivolti alla folla di sostenitori di Trump non hanno fatto altro che confermare nel peggiore dei modi l’avvertimento dato da Joe Biden al popolo statunitense al momento di lasciare la Casa Bianca: “un’oligarchia dotata di ricchezza, potere e influenza estremi sta prendendo forma in America e minaccia direttamente la nostra democrazia nel suo complesso”. Questa constatazione del presidente uscente, troppo tardivamente lucida, non colpisce nel segno.
In primo luogo perché l’influenza dei più ricchi negli Stati Uniti rappresenta ormai da tempo un carattere oligarchico del regime politico. In secondo luogo, perché questi miliardari della tecnologia sono stati in gran parte, fino a questi ultimi anni, sostenitori del Partito democratico e avversari dichiarati di Donald Trump. Quest’ultimo non ha mancato di sottolinearlo affermano che “Loro l’hanno abbandonato”. “Erano tutti con lui, ognuno di loro, e ora sono tutti con me”.
La questione cruciale riguarda la natura di questo riallineamento della tecnologia: si tratta di una semplice inversione opportunistica, interna agli stessi grandi parametri sistemici, o di un momento di rottura degno di essere qualificato come un grande evento della storia universale? Osiamo schierarci con la seconda ipotesi.

Il contrario di un assolutismo

Trump ama le manifestazioni di ossequio. Quando i potenti cortigiani si affrettano a corteggiare il sovrano, “The great estate of Palm Beach”, come lui chiama la sua residenza di Mar el Lago, non assume forse le sembianze di una piccola Versailles? Ma Trump non ha nulla di un apprendista Luigi XIV.
Lungi dal voler riprendere il controllo del paese in modo centralizzato, il suo ritorno al potere è caratterizzato dal rifiuto dell’interventismo e delle restrizioni imposte dall’amministrazione Biden: se i capitale del settore fossile era già schierato con Trump, l’adesione del settore tecnologico e della fascia più mobilitata della finanza risponde alla vigorosa politica antitrust condotta da Lina Khan, all’atteggiamento di sfida nei confronti delle criptovalute di Gary Gensler a capo della Security Exchange Commission e all’orientamento moderatamente progressista dei democratici in materia fiscale.
In altre parole, l’adesione degli imprenditori del settore Tech a Trump è un atto di reazione e mira ad ampliare il loro campo d’azione. E questo anche sulla scena internazionale, dove contano sull’attivismo della nuova amministrazione, soprattutto in Europa, per spostare le linee normative e fiscali a loro favore.
Due decreti firmati da Donald Trump lo stesso giorno della sua investitura non lasciano dubbi sulla direzione presa. Il primo revoca una decisione di Joe Biden relativa alla sicurezza dei sistemi di intelligenza artificiale che obbligava “gli sviluppatori di sistemi di IA che presentano rischi per la sicurezza nazionale, l’economia, la salute o la sicurezza pubblica degli Stati Uniti a condividere i risultati dei test di sicurezza con il governo americano”.


In breve, le autorità pubbliche mantenevano il diritto di controllare gli sviluppi ai confini dell’IA. Ora non è più così. Si può obiettare che se le promesse della tecnologia sono lungi dall’essere sempre mantenute, lo stesso dovrebbe valere per le minacce esistenziali previste dalla moltitudine di distopie digitali. È una magra consolazione. Trattandosi della tecnologia più dirompente del nostro tempo, con la volontà di sottrarsi a qualsiasi forma di supervisione pubblica, è l’intenzione ciò che conta.
L’autonomia delle Big Tech dovuta alla deregolamentazione dell’IA si accompagna a una forma di subordinazione del potere pubblico. Nello stesso colpo d’inizio, un secondo decreto annuncia la creazione del Department of Government Efficiency (DOGE service), la cui direzione è affidata a Musk, sulla base della riorganizzazione dell’US Digital Services (USDS).
L’USDS è stato istituito durante l’amministrazione Obama per integrare meglio i sistemi informativi tra i diversi rami del governo. Secondo Richard Pierce, professore di diritto alla George Washington University, questo modo di integrare il DOGE nella struttura federale funzionerà, ovvero “gli fornirà una piattaforma di monitoraggio e proiezione di queste raccomandazioni. La nuova entità ha infatti accesso illimitato ai dati non classificati di tutte le agenzie governative.
È difficile sopravvalutare le potenziali conseguenze di questa nuova situazione. Ma il primo compito affidato a DOGE lo stesso 20 gennaio permette di immaginare cosa ciò comporti. Con il motto “riformare il processo di assunzione federale e ristabilire il merito nel pubblico impiego”, la nuova amministrazione intende esercitare un controllo molto più stretto sui funzionari pubblici, in particolare per quanto riguarda il loro “impegno a favore degli ideali, dei valori e degli interessi americani” e la loro volontà di “servire lealmente l’esecutivo”.
Ai fini di questa sorveglianza politica, DOGE è stato convocato in modo da “integrare tecnologie moderne a sostegno del processo di reclutamento e selezione […] e […] garantire che i responsabili dei dipartimenti e delle agenzie, o le persone da loro designate, partecipino attivamente all’attuazione dei nuovi processi e all’intero processo di reclutamento”. In breve, a Musk e alle sue macchine viene affidata la supervisione politica dei funzionari federali, il che alimenta giustamente i timori di una caccia alle streghe e di politiche discriminatorie amplificate dalla potenza algoritmica.
Il significato di queste due decisioni è inequivocabile: da un lato, gli imprenditori del settore tecnologico si liberano della supervisione pubblica per le loro applicazioni più sensibili; dall’altro, il cuore di ciò che costituisce lo Stato – la gestione delle carriere della burocrazia – si sottomette al loro sistema di sorveglianza. Il nuovo trumpismo non è quindi un assolutismo, perché non mira a unificare politicamente le classi dominanti nel governo federale. La sua essenza è invece quella di emancipare la frazione più offensiva del capitale da ogni serio vincolo da parte del governo federale, mettendo al contempo l’apparato amministrativo sotto il suo controllo.
Sarebbe folle non prendere sul serio l’affermazione di un progetto così radicale nel cuore della principale potenza mondiale. Il grande evento che si sta delineando riguarda i rapporti tra capitale e Stato e potrebbe influenzare sia i rapporti di classe che le relazioni internazionali. Si tratta delle  velleità di un tecnofeudalesimo con obiettivi di egemonia globale che può essere descritta a grandi linee.

All’assalto del potere pubblico

Innanzitutto, va ricordato che se la trasformazione dei rapporti economici associata allo sviluppo delle tecnologie digitali rende possibile il tecnofeudalesimo, ciò non è il risultato di un determinismo tecnico. In Cina, dove l’ascesa delle Big Tech è notevole come negli Stati Uniti, i rapporti tra queste e lo Stato sono volatili, ma caratterizzati dalla capacità persistente del potere pubblico di imporre un allineamento del settore agli obiettivi di sviluppo definiti dalla politica.
In Occidente, l’esempio della Libra offre un’altra dimostrazione del fatto che il tecnofeudalesimo è resistibile. Nel 2018, Facebook ha preso l’iniziativa di questo progetto di criptovaluta. Per gli oltre 2 miliardi di utenti della piattaforma, questa criptovaluta avrebbe avuto il vantaggio di offrire un mezzo pratico ed economico per trasferire denaro in tutto il mondo. Per il social network l’opportunità di profitto era evidente: maggiore coinvolgimento degli utenti, più dati grazie alle operazioni commerciali e ulteriori entrate derivanti dalle commissioni sulle transazioni. Ma nel 2021 è arrivata la decisione definitiva dei parlamentari, del Dipartimento del Tesoro statunitense e della Fed: NO. L’entità del progetto era tale da rappresentare una minaccia in termini di rischio finanziario sistemico, concentrazione del potere economico e fragilizzazione del dollaro.
Dall’altra parte dell’Atlantico, alla Banca dei Regolamenti Internazionali, Benoît Cœuré non fa mistero di quale sia la posta in gioco: “la madre di tutte le questioni politiche […] è l’equilibrio di potere tra il governo e le Big Tech nella definizione del futuro dei pagamenti e del controllo dei dati ad essi collegati. Di fronte alle criptovalute, è essenziale che le autorità pubbliche sviluppino valute digitali delle banche centrali.
Quattro anni dopo, la prima decisione di Donald Trump in questo campo è esattamente l’opposto della posizione di Cœuré: da un lato, lascia il campo libero agli entusiasti delle criptovalute chiedendo l’introduzione di una regolamentazione che sostenga “l’innovazione nei beni finanziari digitali e nelle blockchain”; dall’altra, lega le mani delle banche centrali chiedendo “misure che proteggano gli americani dai rischi legati alle valute digitali delle banche centrali (MNBC) (…), in particolare vietando l’istituzione, l’emissione, la circolazione e l’uso di tale valuta nella giurisdizione degli Stati Uniti”.
Meno Stato, più Big Tech. O meglio, una dislocazione dell’autonomia della politica sotto il controllo del capitale digitale: questa è la prima caratteristica del tecnofeudalesimo che si sta affermando negli Stati Uniti. La tendenza generale è la seguente: 1) la monopolizzazione della conoscenza va di pari passo con la centralizzazione dei mezzi algoritmici di coordinamento delle attività umane; 2) in assenza di contrappesi da parte delle autorità pubbliche, ciò porta a spostare il potere di organizzazione sociale nelle mani delle Big Tech; 3) la conseguenza è una capacità straordinaria e crescente di questi attori privati di influenzare i comportamenti individuali e collettivi.
La frammentazione della conversazione pubblica da parte dei social network, il desiderio di acquisire potere monetario attraverso le criptovalute e, più fondamentalmente, il tentativo di centralizzare ciò che Marx chiamava il general intellect attraverso l’IA fanno parte dello stesso movimento di dislocazione del potere politico un po’ più lontano dalle istituzioni pubbliche.

L’odio per l’uguaglianza

La tendenziale privatizzazione della politica, cioè l’indebolimento delle mediazioni dei rapporti tra classi e frazioni di classe, apre un abisso di questioni delle quali qui non ci occuperemo. Ma è accompagnata da un impulso antidemocratico che rimanda a un secondo tratto del tecnofeudalesimo: l’odio per l’uguaglianza.
All’inizio degli anni ’90, il manifesto Cyberspace and the American Dream era ossessionato dal radicalismo dell’icona libertaria Ayn Rand. La sua ideologia, che sostiene il diritto dei pionieri di infrangere qualsiasi regola collettiva per portare a termine la loro azione creativa, continua a riflettere un’immagine compiacente in cui molti imprenditori del settore tecnologico amano riconoscersi. L’uscita di Marc Zuckerberg che chiede “più energia maschile” è solo la punta dell’iceberg di una cultura sessista onnipresente nel settore tecnologico che manifesta la brutalità di una passione per la disuguaglianza.
Il culto randiano della performance e il disprezzo per coloro che sono considerati deboli o devianti – donne, persone di colore, poveri, trans… – sono le due facce della stessa medaglia. È questo il fondamento che ha reso possibile il rapido avvicinamento all’estrema destra. Ed è ancora questo che si ritrova nella disprezzo per l’integrità della personalità che si esprime nel rifiuto della regolamentazione in materia digitale, cioè nel primato dato al diritto all’innovazione delle grandi aziende rispetto alla protezione degli individui e del comune nell’amministrazione algoritmica.

Un regime predatore

La terza caratteristica distintiva di questo regime emergente deriva dalla sostituzione della logica produttivista/consumistica del capitalismo con un principio di predazione e attaccamento. Se l’appetito di profitto rimane vorace come nei periodi precedenti del capitalismo, nelle Big Tech le motivazioni della ricerca di profitto sono cambiate. Mentre il capitale tradizionale investe per ridurre i costi o per soddisfare nuovi bisogni solvibili, il capitale tecnologico-feudale investe per assumere il controllo di campi di attività sociale in modo da creare rapporti di dipendenza che può poi monetizzare.
I servizi offerti dai monopoli digitali non sono prodotti come gli altri. In primo luogo, costituiscono infrastrutture critiche: il gigantesco guasto di Microsoft nell’estate del 2024 ha ricordato che un bug può avere un impatto significativo sull’attività in un gran numero di settori come aeroporti, ospedali, banche, amministrazioni, grande distribuzione…
Inoltre, utilizzando massicciamente i loro servizi, rafforziamo il potere di questi giganti americani, che non smettono mai di imparare sulla base dei dati che generiamo. Più ci rivolgiamo ai loro servizi, più Microsoft, Google, Amazon e l’impero di Musk rafforzano il loro vantaggio commerciale e tecnologico, il che rende i loro servizi ancora più efficienti e di conseguenze più acuta la dipendenza. Infine, a livello economico, questa subordinazione si paga in contanti in termini di cattura di valore. Il conto che gli Stati e le imprese pagano alle Big Tech continua a crescere.
Nel gioco a somma zero che si sta instaurando, la contropartita dell’accelerazione dell’accumulazione nelle Big Tech significa la stagnazione altrove. A livello di economia mondiale, è una questione di sviluppo ineguale, di cui anche l’Europa è ormai vittima, portata in questo campo a raggiungere tutti gli altri paesi, ad eccezione della Cina.
All’interno del capitale, si sta sviluppando una stratificazione in cui gran parte dei giganti economici degli altri settori vengono progressivamente relegati in secondo piano man mano che aumentano la loro dipendenza dal cloud e dall’IA. Anche se l’entusiasmo del mercato azionario per l’IA ha una dimensione speculativa, sinonimo di instabilità, i notevoli movimenti di capitale attorno alla tecnologia nell’ultimo decennio corrispondono a una riorganizzazione economica su larga scala, la cui conseguenza è una concentrazione e un’estrema centralizzazione dell’accumulazione di capitale.
All’interno della popolazione, la logica è quella di una polarizzazione aggravata, le disuguaglianze che derivano dallo sfruttamento capitalista sono raddoppiate dall’appropriazione redditizia di valore da parte dei monopoli intellettuali. Last but not least, il principio della predazione è anche quello che presiede alla reificazione della vita e al saccheggio della natura. Il disordinato bisogno di risorse richiesto dal digitale si traduce in distruzione ecologica che, dal punto di vista umano, è anche una perdita di valore d’uso che conferisce alla crescita così generata un carattere antieconomico.

Cercare la contraddizione

Per la sinistra, il controllo diretto dei leader del settore tecnologico sui processi politici e l’allineamento tendenziale dell’apparato statale statunitense e della sua proiezione globale ai loro interessi sollevano spinose questioni strategiche. Quale importanza assegnare alla lotta contro le Big Tech? Come articolarla con la lotta anticapitalista che la definisce, fonda il suo radicamento popolare e tesse il legame con i movimenti sociali? Quale significato dare all’internazionalismo di fronte a un avversario tecnofeudale che travalica immediatamente i confini nazionali?
Non esistono risposte semplici a queste domande. In un momento in cui, in molti paesi e soprattutto in Europa, il deterioramento dell’occupazione sta indebolendo ulteriormente la situazione di un mondo del lavoro già messo a dura prova dallo shock inflazionistico e in cui l’agenda dell’estrema destra sta avanzando a grandi passi, non è facile definire il posto da assegnare a una minaccia meno immediata e più sfuggente.
Questa difficoltà ricorda quella che si pone nell’articolazione delle lotte ecologiche e per la giustizia sociale. Con la differenza, tuttavia, che con il tandem Trump-Musk, l’offensiva tecnofeudale assume la forma di un’aggressione aperta di fronte alla quale si delineeranno rapidamente le figure classiche della capitolazione, della collaborazione e della resistenza. Ebbene, per questo tipo di configurazione, la sinistra storica dispone di una ricca esperienza teorica e pratica, in particolare nel contesto della lotta antifascista e dei movimenti di liberazione nazionale.
A Mao Tse-Tung, nel suo classico testo Sulla contraddizione (1937), dobbiamo uno dei modi più sintetici per cogliere il problema. Ed è il filosofo Slavoj Žižek che ce ne fornisce la quintessenza: “La contraddizione principale (universale) non è sovrapponibile alla contraddizione che deve essere trattata come dominante in una situazione particolare – la dimensione universale risiede letteralmente in questa particolare contraddizione. In ogni situazione concreta risiede una contraddizione “particolare” distinta, nel senso preciso che, per vincere la battaglia della risoluzione della contraddizione principale, è necessario trattare una contraddizione particolare come la contraddizione predominante a cui devono essere subordinati tutti gli altri conflitti”.
Nel contesto attuale, la contraddizione principale, universale, rimane quella nata dallo sfruttamento capitalistico che oppone in modo antagonistico il capitale al lavoro vivo. Ma l’offensiva tecnofeudale rischia di sfociare rapidamente in una situazione in cui l’opposizione alle Big Tech statunitensi passerebbe in primo piano, diventando il contrasto predominante, la cui risoluzione è un prerequisito per vincere la battaglia principale. Quando saremo arrivati a questo punto, se non lo siamo già, i compiti della sinistra saranno sconvolti.


Prendendo l’esempio delle guerre coloniali di cui la Cina è stata vittima, Mao spiega così: “Quando l’imperialismo lancia una guerra di aggressione contro un tale paese, le varie classi di quel paese, ad eccezione di un piccolo numero di traditori della nazione, possono unirsi temporaneamente in una guerra nazionale contro l’imperialismo. Il contrasto tra l’imperialismo e il paese in questione diventa quindi il contrasto principale e tutti i contrasti tra le varie classi all’interno del paese (compreso il contrasto, che era il principale, tra il regime feudale e le masse popolari) passano temporaneamente in secondo piano e in una posizione subordinata”.

Le condizioni di una frontiera anti-tecnofeudale

Nella configurazione che ci interessa, questa plasticità tattica implica la disponibilità a costituire unfronte anti-tecnofeudale che includa, oltre alle forze di sinistra, forze democratiche, quindi anche frazioni del capitale in rottura con le Big Tech.
Per sfuggire al processo di colonizzazione digitale, la sua agenda dovrebbe essere quella di una politica digitale non allineata con l’obiettivo di creare uno spazio economico in cui possano svilupparsi i diversi strati costitutivi alternativi alle Big Tech. Questa strategia di sovranità implica contemporaneamente una forma di protezionismo digitale – o di smantellamento se ci si trova negli Stati Uniti – e un nuovo internazionalismo tecnologico basato su cooperazioni a geometria variabile che consentono di operare su scale sufficientemente ampie.
Ma la prospettiva di una simile alleanza di circostanza non deve creare illusioni. In primo luogo, i contorni di tale alleanza sono oggi estremamente incerti. La confusione ideologica derivante da una situazione che si trasforma a grande velocità è ovviamente in causa, ma giocano un ruolo anche ragioni strutturali. Poiché il capitalismo contemporaneo è caratterizzato da forme complesse di compenetrazione e articolazione dei diversi capitali tra settori e territori, è difficile capire dove e come si formeranno e si allargheranno le crepe fino a diventare opposizioni e quali saranno i punti istituzionali su cui lavorare.
Inoltre, anche l’attuazione del programma che lo cementerà non è scontata. Una delle grandi lezioni delle esperienze di sviluppo è che spesso la borghesia nazionale fallisce. In mancanza di sufficiente disciplina, i capitali nazionali adottano un atteggiamento di rendita in cui il potere pubblico diventa una vacca da mungere, più bravo a riprodurre le disuguaglianze esistenti che a promuovere la trasformazione strutturale che permetterebbe di rompere la dipendenza.
Infine, perché il potere della governamentalità algoritmica e l’imperativo ecologico della parsimonia impongono di anticipare i rischi di cattura burocratica. La resistenza al tecnofeudalesimo deve avere una dimensione popolare. Il coinvolgimento diretto delle masse nella battaglia passa attraverso la questione degli usi e degli strumenti digitali. Ma non si limita a questo. L’opposizione al tecnofeudalesimo richiede la costruzione di capacità amministrative e politiche industriali per orientare gli investimenti. Metterli sotto tensione democratica implica aggiungere contro-poteri e stabilire forme di controllo sulle risorse mobilitate al fine di generare cicli di feedback necessari per sostenere la legittimità dell’azione pubblica.
I miliardari della tecnologia non sono solo ricchi che bramano la vicinanza al potere per difendere i loro interessi plutocratici. Questi capitalisti sono dei signori tecnofeudali in divenire, determinati a cogliere l’opportunità della loro alleanza con Trump per abbattere gli ultimi ostacoli politici all’instaurazione di un nuovo ordine sociale basato sulla proiezione e la manipolazione di algoritmi per centralizzare il valore prodotto dal lavoro e imporre le loro manie millenaristiche.
Questa ascesa tecnofeudale non è inevitabile. L’estrema ristrettezza della base sociale su cui poggia, la sua aspirazione a far scomparire le mediazioni politiche o le valorizzazioni finanziarie fittizie a cui dà luogo ne fanno un’impalcatura vulnerabile. La brutalità con cui il progetto avanza garantisce che il disprezzo che suscita aumenterà. Già all’interno della galassia MAGA, Steve Bannon promette di combattere con tutte le sue forze i tentativi di Musk di “attuare il tecnofeudalesimo su scala globale”.
Sotto i colpi delle prodezze digitali cinesi, la vernice delle pretese suprematiste dei giganti della costa occidentale si sta scrostando, instillando dubbi sulla loro invincibilità. Il tecnofeudalesimo statunitense è un Leviatano da quattro soldi. Ma la natura della coalizione che lo abbatterà rimane incerta. Se la sinistra ne sarà a capo, allora, davvero, bisognerà parlare di un grande evento, con le parole del Stumm.

*la versione originale in francese di questo articolo è apparso sulla rivista Contretemps il 3 febbraio 2025.