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Come indica il sottotitolo [Perché il capitalismo non salverà il pianeta], Brett Christophers con il suo nuovo libro – The Price is Wrong: Why capitalism won’t save the planet, Verso, 2024 – si è assegnato un compito ambizioso. Dopotutto, date le molteplici crisi ecologiche, economiche e sociali che l’umanità affronta, gli attivisti dovrebbero comprendere l’incapacità del capitalismo di prevenire il collasso ambientale, la guerra e le crisi economiche.
Ma i lettori che sperano in uno studio sui molteplici fallimenti del capitalismo del XXI° secolo rimarranno delusi. Christophers si concentra su un solo, seppur affascinante, aspetto del fallimento del capitale – l’energia elettrica – senza cogliere il quadro generale.
L’energia è, ovviamente, fondamentale sia per l’esistenza umana che per il funzionamento del capitalismo. È centrale per la produzione, così come per i sistemi di riscaldamento e di illuminazione che la maggior parte delle persone dà per scontati, e il settore energetico è di gran lunga il maggior produttore di emissioni di gas serra.
Esaminare questo settore nel dettaglio dovrebbe dirci molto sul capitalismo. Il problema è che Christophers non crede che sia possibile generalizzare il comportamento distruttivo ambientale del capitalismo. Egli sostiene che l’incapacità del capitalismo di adottare pratiche sostenibili dal punto di vista ambientale non è dovuta alla natura della sua produzione, ma piuttosto al fatto che non è abbastanza redditizio farlo. «Se l’ecologizzazione del business fosse più redditizia del business as usual, allora, certamente, il capitalismo diventerebbe completamente green».
C’è del vero in questo, ma non è sufficiente a spiegare la distruzione dell’ambiente (o di qualsiasi altra cosa) da parte del capitalismo. Pur citando Karl Marx e concordando con lui riguardo alla sua comprensione della produzione capitalistica, orientata al profitto, Christophers rifiuta le ulteriori intuizioni che Marx ha ricavato da questo.
Rifiuta esplicitamente la visione ecologica marxista secondo cui il capitalismo è intrinsecamente anti-ecologico. Al contrario, il problema consiste secondo lui solo nel fatto che il capitalismo nella sua forma attuale è “impreparato” a sostituire i combustibili fossili con le energie rinnovabili. «Se le imprese ecologiche fossero più redditizie… il capitalismo diventerebbe globalmente green».
«L’impatto ambientale del capitalismo è contingente, non strutturale. Se è vero che il capitalismo contemporaneo distrugge inevitabilmente l’ambiente, allora è vero solo in senso indiretto: in quanto la sottostante ricerca del profitto — il vero animus del capitale — e della crescita stessa, risulta essere distruttiva per l’ambiente».
Per Marx, il problema non era solo la crescita, ma il fatto che la costruzione dell’economia capitalistica portava con sé la distruzione del rapporto dell’umanità con il mondo naturale, creando una nuova realtà alienata che vedeva la natura subordinata all’accumulazione del capitale. La crescita, in questo senso, fa parte della logica ineluttabile del capitalismo e il sistema energetico ne è parte integrante. Deve essere compresa nel contesto più ampio dell’accumulazione del capitale.
Detto questo, la dissezione forense di Christophers del sistema energetico, nelle varie forme che assume in tutto il mondo, è illuminante e spesso devastante. Un esempio basterà a dimostrare la sua più ampia tesi.
Quando nel febbraio del 2021 il Texas ha sperimentato un clima particolarmente avverso, quasi la metà della capacità di produzione elettrica dello Stato è venuta meno. Inevitabilmente, gli opinionisti di destra hanno dato la colpa all’ampio uso di turbine eoliche, ignorando il fatto che anche gran parte dell’infrastruttura dello Stato basata sul gas naturale aveva fallito. Perché il problema non era la tecnologia. L’elevata domanda di energia ha fatto salire il prezzo spot (non quello contrattuale) dell’elettricità, che è esattamente il modo in cui si suppone funzioni il cosiddetto libero mercato. Il prezzo è passato da 50 dollari per megawattora a 9000 dollari, e alcune aziende hanno fatto soldi a palate. Ma non tutte.

I proprietari delle turbine eoliche danneggiate dall’uragano erano obbligati per contratto a fornire l’energia che non erano in grado di produrre, che quindi dovevano acquistare a prezzi molto più alti di quelli che sarebbero stati pagati, il che ha portato ad un pesante indebitamento. Non potendo permettersi di rimanere in attività, il mercato è crollato.
Il fallimento del mercato del 2021 è uno dei tanti casi studiati da Brett Christophers riguardo alla produzione di energia nel capitalismo. Dimostra il suo nodo centrale: lasciare al mercato la produzione, la distribuzione e lo sviluppo dell’energia, non riduce le emissioni di carbonio, né mantiene bassi i prezzi. Al contrario, rende i consumatori e l’economia nel suo complesso vulnerabili al comportamento irrazionale del sistema capitalistico.
Non è un caso che il sistema energetico sia finito in questo modo. Nel Nord globale è la conseguenza di tre decenni di privatizzazioni mentre nel Sud globale, come sottolinea Christophers, la Banca Mondiale «ha perseguito in modo aggressivo la commercializzazione e l’aziendalizzazione dei settori energetici dei Paesi in via di sviluppo e la partecipazione del settore privato».
La conseguenza è un sistema energetico orientato non alla fornitura di energia sostenibile e a basso costo, ma al profitto. È proprio questa la radice del problema. Le fonti rinnovabili più economiche dovrebbero essere più redditizie, ma per il sistema energetico elettrico nel suo complesso non lo sono in modo affidabile e raramente lo sono abbastanza.
Christophers dimostra che il calo dei costi delle energie rinnovabili non ha spinto verso la loro scelta le aziende energetiche orientate al profitto. Al contrario. Nella loro ricerca del massimo rientro sugli investimenti, i produttori di energia abbandonano abitualmente le energie rinnovabili a favore dei combustibili fossili. Nei mercati spot, dove gli investitori devono guadagnare o morire, «il profitto è sperato altamente incerto e imprevedibile».
Le energie rinnovabili non sono in grado di generare profitti in un sistema di libero mercato. Questo non sfugge all’industria dei combustibili fossili. Christophers racconta che un gruppo di frati francescani, che possedevano azioni della Exxon per un valore di 2.000 dollari, chiese all’amministratore delegato della Exxon, Rex Tillerson, perché non investisse di più nelle energie rinnovabili. La risposta di Tillerson fu: «Abbiamo scelto di non perdere soldi di proposito».
Christophers dimostra – in modo definitivo e dettagliato – che le forze di mercato non possono fornire il tipo di sistema energetico di cui abbiamo bisogno per un futuro sostenibile. In effetti, c’è un “serio interrogativo” sul fatto che un solo impianto di energia rinnovabile sia stato costruito senza il sostegno dello Stato. Il sostegno del governo è così determinante, che per alcune aziende di energia rinnovabile è l’unica cosa che le mantiene interessate. Nonostante la retorica dei politici, la realtà è che il sistema energetico, apparentemente privato, dipende dall’intervento del governo: «Anche prima della crisi energetica del 2021-22… più della metà dei Paesi dell’UE – la patria, materiale e simbolica, dell’elettricità commercializzata – aveva una qualche forma di controllo dei prezzi al dettaglio. E, ovunque, lo sviluppo delle energie rinnovabili continua a essere sostenuto dal governo».
Essenzialmente, l’elettricità «non è un oggetto adatto alla commercializzazione e alla generazione di profitti», quindi la transizione verso un sistema energetico basato sulle energie rinnovabili richiede di abbandonare il libero mercato e di mettere tutto – dalle centrali elettriche alle reti energetiche – sotto il controllo dello Stato. Le vie di mezzo, comprese le strategie che si basano sui profitti delle imprese di energia rinnovabile nazionalizzate, sono condannate, perché i mercati dell’energia non possono funzionare se sono intrappolati nell’ampia logica economica capitalistica.
Sebbene l’analisi del sistema energetico fatta da Christophers sia informativa e spesso perspicace, le conclusioni che trae sono inadeguate. Concentrandosi solo sui sistemi di energia elettrica, Christophers conclude che le loro debolezze possono essere superate dal controllo e dalla proprietà dello Stato, in modo che le decisioni sulla produzione possano essere prese senza preoccuparsi del profitto privato. Le tecnologie meno redditizie ma più ecologiche potrebbero quindi soppiantare i combustibili fossili.
Ma anche in questo caso, la produzione di energia sarebbe ancora subordinata ai capricci della produzione capitalistica e ai problemi più ampi causati dall’accumulazione capitalistica.
Sebbene nessun socialista si opponga alle lotte per la nazionalizzazione dei sistemi energetici, dobbiamo anche essere consapevoli della realtà del dominio delle imprese. Le compagnie energetiche, alcune delle istituzioni più potenti che siano mai esistite, userebbero certamente la loro ricchezza e il loro potere per minare qualsiasi governo che cercasse di prenderle in mano. L’esempio del Cile nel 1973 ci ricorda il limite di questa strategia. E anche se si formasse un sistema elettrico completamente statale, la sua libertà di agire in modo indipendente sarebbe fortemente limitata dal più ampio sistema capitalistico.
Il libro di Christophers, ampiamente documentato, merita di essere letto. La sua critica al libero mercato dell’energia insegna molto sul funzionamento del capitalismo. Purtroppo, i lettori che cercano una critica più ampia dell’intero sistema devono rivolgersi altrove.

*articolo apparso su Climate&Capitalism il 20 febbraio 2025. La traduzione in italiano è stata curata da Alessandro Cocuzza per il sito antopocene.org.