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Pubblichiamo l’intervento pronunciato in occasione della presentazione di una risoluzione dell’MPS in Gran Consiglio con la quale si invitava il governo a fare di più e di sostenere i comuni nella loro opposizione alla politica della Posta. Presentata in ottobre (al momento degli annunci della Posta) questa risoluzione è stata discussa quattro mesi dopo. (Red)

È possibile opporsi legalmente (e con successo) alla politica di ristrutturazione degli uffici postali (che rientra in progetti di ristrutturazione più ampi di tutto il gruppo)?
La risposta è chiara: NO. L’attuale quadro legale, come è a tutti noto, prevede che, alla fine delle procedure, l’ultima parola spetti comunque alla Posta. La quale giudicherà in base ai propri criteri e non certo alla capacità di convinzione che i Comuni (che hanno il diritto di ricorrere individualmente alle decisioni di chiusura) sapranno esprimere.
Per un cambiamento fondamentale rispetto a quanto sta succedendo ci vorrebbe un mutamento radicale delle attuali disposizioni di legge che regolano il funzionamento della Posta ed il ritorno ad una logica di servizio pubblico integrale.
In queta prospettiva sarebbe decisivo ruolo dei lavoratori e della lavoratrici della Posta; purtroppo i loro sindacati fin dalla riforma delle PTT hanno di fatto sposato la logica di mercato e la fine della logica di servizio pubblico, scoraggiando così fin dall’inizio qualsiasi prospettiva di opposizione. Basterà qui ricordare che la madre di tutte le decisioni, lo smembramento delle PTT e la costituzione di due entità separate (Swisscom e La Posta) venne di fatto accettata dalle organizzazioni sindacali (e dalla stessa direzione del PSS) che, si opposero a qualsiasi referendum (eravamo negli anni ’90, non nell’Ottocento!).
Per modificare questo atteggiamento, per far crescere nuovamente uno spirito di resistenza tra i lavoratori e le lavoratrici, per arrivare quindi a ricostruire un rapporto di forza, ci vuole un lavoro lungo e difficile. Non sembra al momento che vi siano indicazioni in questa direzione.
Tuttavia, nel frattempo, si può tentare di fare la massima pressione politica e pubblica sulla Posta per rallentare la messa in pratica di questa sua politica. Ma per mettere sotto pressione la Posta, bisogna mettere sotto pressione la sua politica da un punto di vista complessivo.
Così quando noi chiediamo, nella prima delle richieste della risoluzione che abbiamo presentato, che il governo esprima la propria opposizione alla Posta, non chiediamo certo – come il governo – di limitarsi a dichiarare di essere – citiamo – “delusi per le modalità di comunicazione adottate dalla Posta svizzera” oppure che il “dialogo con i Comuni interessati da questa riorganizzazione sia reale e non solo di forma”.
Tutto questo fa sorridere e, naturalmente, non mette in discussione le ragioni profonde della politica condotta dalla Posta e che sono alla base di queste decisioni.
Anche sulla strategia di opposizione a queste decisioni vi sarebbero molte cose da dire: valga per tutte la considerazione che i Comuni sono stati lasciati soli, ognuno per conto suo, individualizzati: quando ormai lo sanno anche i bambini che nelle contese politiche – e questa è una contesa politica – l’unione fa la forza. Il governo avrebbe dovuto assumere con decisione la regia di questa opposizione, mettere in campo tutte le sue forze e non limitarsi a dire, su questo terreno, cose del tipo “il tema è stato discusso in occasione dell’incontro della Piattaforma di dialogo tra Cantone e Comuni dell’11 settembre 2024” oppure che “i servizi cantonali sono a disposizione per i ricorsi”. Immaginiamo quanto possa essere rimasta impressionata la direzione della Posta di fronte a simili amenità inconcludenti!
Ora, qual è il contenuto di questa politica della Posta che dovrebbe essere messa radicalmente in discussione?
Cominciamo col dire che la Posta è un’azienda fortemente orientata al profitto: e già questo ci indica quali possono essere le conseguenze.
Prendiamo gli ultimi cinque anni. La Posta ha conseguito circa un miliardo e mezzo di profitti. E negli stessi ultimi cinque anni ha diminuito il proprio personale da 39670 unità a 34587: sopprimendo praticamente 5’000 impieghi in meno (circa il 13%).
Questi risultati sono il risultato di una politica brutale di flessibilizzazione di occupazione e tempo di lavoro, di un aumento dei ritmi di lavoro, della creazione di un clima di lavoro sempre più difficile.
Se prendiamo il paramento delle condizioni di salute abbiamo dati che illustrano questa tendenza: ad esempio la riduzione delle assenze per ragioni mediche, passate, sempre in questi ultimi cinque anni, da 13,3 giornate all’anno a 9,8 ore: una diminuzione del 26%. Allo stesso tempo gli infortuni professionali sono aumentati dal 6,4% al 7,5%.
La Posta – assieme a Swisscom – è forse l’impresa che più di tutte in Svizzera ha introdotto meccanismi tipici dell’organizzazione capitalistica del lavoro, della gestione del personale, della flessibilizzazione di orari e salari. Altro che impresa pubblica!
Non ci facciamo soverchie illusioni: ma il governo – e la commissione che la segue con un rapporto sostanzialmente omeopatico – ha dimostrato scarsa determinazione a voler veramente combattere le decisioni della Posta. Forse perché, fondamentalmente, condivide le impostazioni di fondo della Posta e, partendo da questo presupposto, difficilmente se ne possono contestare le applicazioni pratiche: e la diminuzione degli uffici postali (da 3’000 e rotti della fine degli anni 90 agli attuali 800) è stato uno degli elementi centrali di questa concretizzazione.