La guerra dei dazi avviata dal presidente Trump – primo segnale concreto di un rilancio della politica imperialista statunitense in chiave più aggressiva – ha spinto il Partito Liberale Radicale Ticinese (PLR) a presentare un’interrogazione al Consiglio di Stato.
Questo gesto rivela con chiarezza quali siano gli interessi realmente difesi dai partiti borghesi, al di là delle solite e vuote dichiarazioni elettorali sulla tutela “del Ticino e di tutti i ticinesi”. Si tratta di una reazione tipica – potremmo dire congenita – di un partito classista, impegnato a rappresentare e proteggere un’esigua minoranza: quella che detiene i mezzi di produzione e grandi patrimoni.
Scorrendo le sette domande poste dal PLR al Governo, emerge chiaramente che le preoccupazioni degli esponenti liberali riguardano esclusivamente le imprese e i loro proprietari. Secondo i dati 2023 dell’Ufficio federale di statistica (1), si tratta di circa 11’056 titolari d’impresa contro 124’896 lavoratori e lavoratrici dipendenti. Eppure, nell’interrogazione non c’è alcun riferimento alla forza lavoro che rende possibili i profitti delle aziende: semplicemente non esiste.
Questo silenzio risulta ancora più grave in una fase in cui il lavoro salariato in Ticino vive da oltre un decennio una crisi strutturale: salari stagnanti o in calo in termini reali, potere d’acquisto eroso dall’inflazione e dall’aumento incontrollato di spese essenziali come i premi di cassa malati e gli affitti. Una crisi profonda, ma sistematicamente esclusa dal dibattito politico. E in momenti di tensione congiunturale, come la guerra dei dazi, la difesa degli interessi della classe dominante da parte dei partiti borghesi – anche cantonali – si manifesta in tutta la sua trasparenza.
“Siamo tutti sulla stessa barca”. Davvero?
I rappresentanti del padronato ci diranno che difendere le imprese significa difendere anche i posti di lavoro e, quindi, i lavoratori stessi. È la solita logica del “siamo tutti sulla stessa barca”, che meriterebbe finalmente di essere affondata.
Certo, la distruzione di capitale comporta anche la perdita di posti di lavoro. Ma nei conflitti inter-capitalisti – cioè nelle crisi economiche – ciò che conta per i padroni è la perdita di margini di profitto.
Quando si invoca la “tutela delle imprese”, l’obiettivo reale è quasi sempre la salvaguardia dei profitti. E in un sistema capitalista in crisi, difendere i profitti significa ridurre i salari: questo è il nodo centrale.
La storia lo conferma: al netto di qualche correttivo marginale, la difesa dei profitti è avvenuta – e continua ad avvenire – a spese dei salari. Le crisi capitalistiche sono sempre servite alla borghesia per ridefinire in proprio favore la distribuzione della ricchezza prodotta dai salariati: abbassando il carico fiscale su utili e patrimoni, elargendo sussidi diretti e indiretti alle imprese, erodendo diritti conquistati. Non a caso, il punto 6 dell’interrogazione del PLR menziona già un possibile «accesso agevolato a fondi di promozione economica».
In questo scenario, aumentare i profitti significa anche intensificare lo sfruttamento del lavoro, non certo con fruste, ma con leggi sul tempo di lavoro più flessibili, contratti precari, attacchi ai contratti collettivi, blocco dell’adeguamento salariale all’inflazione. E potremmo continuare.
Diminuiamo i profitti, non i salari
Le lavoratrici e i lavoratori del Cantone devono sviluppare una coscienza di classe, un’analisi critica delle crisi capitalistiche, anche a partire dal proprio settore produttivo.
Solo così diventa chiaro che non esiste alcuna “naturale” necessità per cui i salari debbano essere i primi a pagare il prezzo delle crisi, mentre i profitti rimangono intatti.
Da questa consapevolezza devono nascere risposte collettive, concrete, di difesa e – perché no – di attacco.
Prendiamo un esempio, quello del settore orologiero, fortemente attaccato dai dazi americani. Ebbene, le orologiaie non qualificate del Gruppo Swatch in Ticino – che rappresentano il 95-98% della manodopera produttiva – hanno un salario base di 3’200 franchi lordi. Queste lavoratrici producono orologi che, come gli Omega, possono arrivare a costare 5’000 franchi. In pratica, un solo orologio copre il salario mensile di un’operaia, oltre ai costi fissi e variabili, generando un profitto sostanzioso.
Ecco quindi che i dazi USA sull’orologeria elvetica potrebbero essere assorbiti semplicemente riducendo i margini di profitto, senza toccare salari e condizioni di lavoro. Questo vale ancor di più per le grandi marche del lusso. Basti dire che nel primo semestre 2024, l’industria orologiera svizzera ha prodotto l’8,5% in meno di pezzi, ma ha perso solo l’1,2% in valore: segno evidente di ampi margini.
Lo stesso ragionamento si applica alla farmaceutica e alla chimica ticinesi.
Nel 2022, la mediana dei salari (2) nel settore farmaceutico in Ticino era di 5’082 franchi – meno della metà della mediana nazionale (10’296 franchi). Nella chimica, si parlava di 5’462 franchi contro gli 8’067 a livello nazionale.
Questi salari relativamente bassi garantiscono profitti molto alti, indipendentemente dal valore della produzione. Anche in questi settori, c’è margine per affrontare eventuali dazi americani senza intaccare ulteriormente i salari o aumentare lo sfruttamento.
Ma per impedire tutto ciò, lavoratrici e lavoratori devono rifiutare una volta per tutte la falsa narrazione padronale: quella secondo cui ogni sacrificio è necessario per “salvare il lavoro”, in nome di una supposta equità tra capitale e forza lavoro.
È giunto il momento che anche le organizzazioni sindacali rompano con questa logica, con azioni coerenti di denuncia e mobilitazione sui posti di lavoro.
*sindacalista e membro del segretariato MPS
1.Condizione professionale secondo diverse caratteristiche socio-demografiche e il Cantone, nel 2023, UST – Rilevazione strutturale (RS), 2025.
2. La mediana è il valore che divide a metà l’insieme dei salari versati complessivamente o in un settore specifico. In altre parole la metà degli occupati riceve un salario inferiore alla mediana, l’altra metà percepisce un salario lordo superiore.