L’Ue corteggia Pechino: la nuova geopolitica dei dazi

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Mentre Trump alza i dazi, Bruxelles si ritrova stretta tra l’alleato americano e il mercato cinese. I leader Ue cercano un equilibrio impossibile tra protezione dell’industria e commercio globale

Il protocollo diplomatico è spesso un indicatore rivelatore dei rapporti di forza tra nazioni. Quando la Commissione Europea guidata da Ursula von der Leyen e il Consiglio Europeo presieduto da Antonio Costa accettano di recarsi a Pechino per la seconda volta consecutiva in luglio – infrangendo il consueto alternarsi degli incontri tra Bruxelles e la capitale cinese – il messaggio è inequivocabile: l’Ue è disposta a piegarsi alle condizioni di Xi Jinping pur di mantenere un canale aperto con la seconda economia mondiale.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, i leader europei hanno “accettato” che per avere “face time” con Xi debbano essere loro a viaggiare verso Oriente, non viceversa. Un cedimento diplomatico che, come sottolinea l’analista Bill Bishop, “invia tutti i segnali sbagliati a Xi e al suo team” e rappresenta un approccio che non esita a definire “patetico”.
Questo summit, che coinciderà con il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche UE-Cina, si inserisce in un frenetico valzer diplomatico europeo verso Pechino, accelerato dalle tensioni commerciali con Washington. Un valzer che ha visto, nel giro di pochi giorni, il premier spagnolo Pedro Sánchez e il capo delle forze armate britanniche Tony Radakin recarsi in Cina per colloqui ad alto livello, in quello che appare sempre più come un tentativo disperato di costruire ponti con Pechino mentre i rapporti con Washington si deteriorano sotto il peso dei dazi trumpiani.
La reazione cinese non si è fatta attendere. Come riporta il Financial Times, Pechino ha intensificato i propri sforzi diplomatici ed economici verso l’Europa, inviando delegazioni commerciali in diverse capitali europee – Stoccolma, Budapest, Oslo e Hannover – nelle ultime settimane per promuovere investimenti in Cina. Zhang Yansheng, ricercatore senior presso il think-tank statale China Academy of Macroeconomic Research, ha dichiarato esplicitamente che ‘è tempo che Cina ed Europa ricomincino da capo’ e che l’imposizione di dazi da parte di Trump ‘ci dà l’opportunità di ripensare la nostra relazione commerciale’.
La visita dell’11 aprile di Pedro Sánchez presso Xi Jinping – la terza in soli due anni – rappresenta l’emblema di questa crescente deferenza europea verso la Cina. Il premier spagnolo non ha esitato a dichiarare che “la Spagna e l’Unione europea difendono gli stessi principi, gli stessi valori e gli stessi interessi” della Cina, un’affermazione tanto audace quanto discutibile considerando le profonde divergenze sui diritti umani e sul rispetto dello stato di diritto.
Mentre Sánchez si trovava a Pechino a stringere accordi commerciali, il Capo di Stato Maggiore della Difesa britannico Tony Radakin completava la prima visita di un alto ufficiale militare britannico in Cina da oltre un decennio. Il timing della missione è particolarmente significativo: pochi giorni dopo le minacciose esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan e nel mezzo delle tensioni per la cattura di due miliziani cinesi da parte delle forze ucraine. Il riavvicinamento britannico, guidato dal governo laburista di Keir Starmer subentrato a luglio, segue la nuova politica delle “tre C” verso Pechino: Cooperate, Challenge and Compete (cooperare, sfidare e competere). Un approccio pragmatico che sembra però privilegiare il primo elemento rispetto agli altri due, spinto dall’urgenza di trovare nuovi partner commerciali nel post-Brexit. Questi approcci bilaterali evidenziano la frammentazione della strategia europea, con nazioni che corrono in ordine sparso verso Pechino mentre a Bruxelles si cerca ancora di definire una posizione comune.

Il ricatto dei dazi: Europa in bilico tra Washington e Pechino

L’offensiva commerciale di Trump ha rimescolato le carte delle relazioni internazionali, costringendo l’Ue a riconsiderare le proprie alleanze. Con dazi americani ormai stratosferici sulle merci cinesi, Pechino cerca disperatamente nuovi mercati per le proprie sovraccapacità produttive, e l’Europa rappresenta la destinazione più ovvia. Non sorprende quindi che Xi, incontrando Sánchez, abbia lanciato un appello esplicito affinché UE e Cina “resistano insieme” contro le “pratiche unilaterali e intimidatorie” di Washington, invitando Bruxelles a schierarsi nel conflitto commerciale. In questo contesto, la formula ufficiale adottata dall’UE che definisce la Cina simultaneamente come ‘partner, concorrente e rivale sistemico’ mostra tutta la sua incoerenza operativa. Questa categorizzazione tripartita, che sulla carta dovrebbe guidare le relazioni sino-europee, si rivela nella pratica un’ambiguità strategica che lascia spazio a interpretazioni divergenti tra i vari stati membri.
Le cifre sono eloquenti: mentre Trump ha imposto dazi fino al 145% sulle esportazioni cinesi, provocando una ritorsione da parte di Pechino con dazi del 125%, l’UE è stata colpita ‘solo’ da tariffe del 10% che potrebbero aumentare al 20% se i negoziati non porteranno a risultati concreti. Questo squilibrio nelle misure americane ha creato un pericoloso effetto di ‘diversione commerciale’, con i prodotti cinesi che non possono più entrare nel mercato statunitense e cercano una valvola di sfogo in Europa. Non a caso, l’indice Ningbo Containerised Freight ha mostrato che i prezzi del trasporto merci verso la costa occidentale degli Stati Uniti sono crollati del 18% nella seconda settimana di aprile, mentre quelli verso il Mediterraneo sono aumentati del 15%.
Il dilemma europeo è evidente: se da un lato le radicate alleanze militari e i legami storici avvicinano l’UE agli Stati Uniti, dall’altro le catene di approvvigionamento e gli interessi economici la legano sempre più alla Cina. Ursula von der Leyen, in una telefonata dell’8 aprile con il premier cinese Li Qiang, ha sottolineato “la responsabilità dell’Europa e della Cina, due dei più grandi mercati del mondo, di sostenere un sistema commerciale riformato forte, libero, equo e fondato su regole del gioco eque” – una dichiarazione che riflette il tentativo di mantenere un piede in entrambi i campi.
Questa ambiguità si traduce in negoziati frenetici su più fronti. Con la Cina si iniziano consultazioni sulla possibilità di rimuovere i dazi europei sui veicoli elettrici cinesi, imposti appena sei mesi fa, mentre contemporaneamente si preparano “misure di salvaguardia” per proteggere il mercato europeo dall’afflusso di merci cinesi che non possono più entrare negli USA. Con Washington, invece, si propongono cooperazioni strategiche per ridurre la dipendenza dalle terre rare cinesi e garantire la sicurezza delle catene di approvvigionamento dei semiconduttori, nel tentativo di placare l’ira trumpiana offrendo contropartite geopolitiche.

Gli interessi concreti dietro il valzer diplomatico

La danza diplomatica europea verso Pechino è guidata da calcoli economici concreti che ben poco hanno a che fare con la retorica del multilateralismo. La Spagna di Sánchez rappresenta il caso più emblematico: gli investimenti cinesi nel paese iberico hanno toccato gli 11 miliardi di euro nel 2024, il doppio di quanto registrato negli otto anni precedenti. Durante la visita di aprile, l’ambasciatore cinese a Madrid ha annunciato ulteriori 3 miliardi in nuovi investimenti, concentrati soprattutto nei settori delle energie rinnovabili, batterie, elettrolizzatori e veicoli elettrici.
Sul fronte commerciale, gli interessi agricoli giocano un ruolo cruciale. Sánchez ha insistito particolarmente per ottenere garanzie sull’esportazione di prodotti suini verso la Cina, preoccupazione primaria del settore agroalimentare spagnolo, soprattutto dopo che Pechino ha aperto lo scorso anno un’indagine antidumping sul maiale europeo in risposta ai dazi UE sulle auto elettriche cinesi. Una chiara dimostrazione di come le grandi strategie geopolitiche si riducano spesso a pragmatici scambi commerciali.


Il caso britannico presenta una diversa sfumatura: dopo anni di relazioni tese per la repressione a Hong Kong, le interferenze nelle democrazie occidentali e il sostegno alla Russia, il governo laburista di Starmer cerca ora una “normalizzazione” pragmatica. La visita di Radakin ha ripristinato canali di comunicazione militare cruciali in un momento di alta tensione nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Taiwan, segnalando che Londra, pur mantenendo la sua alleanza con Washington, non intende allinearsi completamente alla crociata anti-cinese di Trump.
Questi approcci bilaterali rivelano la vera natura delle relazioni internazionali contemporanee: dietro la facciata di incontri diplomatici e dichiarazioni altisonanti, si nascondono interessi economici particolari e calcoli di sopravvivenza politica interna. Mentre l’Europa parla di “autonomia strategica”, in realtà le sue componenti competono tra loro per accaparrarsi fette di mercato cinese e attirare investimenti, indebolendo qualsiasi possibilità di una posizione negoziale unificata e lasciando campo libero a Pechino per giocare gli europei uno contro l’altro.

Le contraddizioni europee davanti all’avanzata cinese

Bruxelles continua a denunciare le pratiche commerciali cinesi, i sussidi pubblici che danno un vantaggio sleale ai prodotti asiatici e la chiusura del mercato interno cinese alle aziende europee. A queste preoccupazioni si aggiunge l’irritazione per il sostegno di Pechino a Mosca, che pur evitando l’invio diretto di armi, fornisce alla Russia componenti dual-use, aiuti finanziari e un canale per aggirare le sanzioni occidentali. Ma nonostante queste tensioni, Bruxelles non può permettersi una rottura.
La realtà è che l’UE dipende dalla Cina per materie prime strategiche come il litio, essenziali per le proprie industrie, e il mercato cinese resta fondamentale per molti settori europei, a cominciare dall’automotive tedesco. Al contempo, il solco apertosi tra economia americana e cinese in conseguenza dei dazi di Trump, pone l’Europa davanti a un nuovo dilemma: l’arrivo massiccio di prodotti generati dalle sovraccapacità cinesi, che non possono più essere esportati negli USA. Le recenti misure di salvaguardia adottate per proteggere l’industria europea dell’acciaio sono solo l’inizio di quella che potrebbe diventare una vera e propria barriera difensiva contro l’import cinese.
La situazione ucraina complica ulteriormente le relazioni triangolari tra Bruxelles, Washington e Pechino. La cattura di due miliziani cinesi da parte delle forze ucraine, rivelata dal presidente Zelensky l’11 aprile, ha messo in luce il coinvolgimento di cittadini cinesi nel conflitto dalla parte russa, pur in assenza di prove di un sostegno ufficiale di Pechino. Questo episodio rischia di infiammare ulteriormente le tensioni tra UE e Cina, proprio mentre alcuni stati membri cercano un riavvicinamento pragmatico. La realtà è che né Bruxelles né Pechino possono permettersi un’altra guerra commerciale oltre a quella con gli USA, ma entrambe manovrano per massimizzare il proprio vantaggio in questa precarissima situazione di equilibrio.
L’ambiguità delle posizioni reciproche sull’Ucraina emerge chiaramente dal reportage di Le Monde: mentre l’Europa rifiuta le proposte cinesi mirate a congelare il conflitto ratificando le perdite territoriali ucraine a favore della Russia, la posizione di Trump, sempre più allineata con le tesi del Cremlino, ha di fatto ridotto la pressione occidentale su Pechino affinché limiti il proprio sostegno a Mosca. Paradossalmente, proprio nel momento in cui l’UE cerca un riavvicinamento economico con la Cina, si trova più isolata che mai nell’opporsi all’allineamento sino-russo sul dossier ucraino.

La trappola senza uscita

L’inchino europeo verso Pechino, evidenziato dalla disponibilità delle massime cariche UE a recarsi in Cina alle condizioni di Xi, dimostra l’incapacità strutturale del sistema europeo di formulare una posizione autonoma in un mondo polarizzato. Stretta tra le politiche protezionistiche americane e l’espansionismo economico cinese, l’Europa si ritrova in una posizione di debolezza diplomatica e divisione interna. La frammentazione delle risposte nazionali – con la Spagna che abbraccia gli investimenti cinesi mentre l’Italia di Meloni punta su un rapporto privilegiato con Trump – evidenzia il fallimento dell’UE come blocco politico coeso. Dietro le altisonanti dichiarazioni sul multilateralismo e le regole del commercio internazionale si nasconde una realtà più prosaica: ogni paese europeo cerca di salvaguardare i propri interessi immediati, senza una visione strategica comune.
Il caso francese mostra ulteriori sfumature di questa diplomazia frammentaria. Come riportato da Le Monde, durante la visita del ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot a Pechino il 27 marzo, la Cina non ha abbandonato i suoi dazi del 35% sul cognac francese, imposte in risposta ai dazi europei sui veicoli elettrici cinesi, ma si è limitata a posticipare di tre mesi la loro adozione definitiva. In cambio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha riconosciuto la necessità che gli europei abbiano un posto nei negoziati tra Stati Uniti e Russia per porre fine alla guerra in Ucraina – toccando un nervo scoperto per un’UE che mal sopporta di essere tenuta ai margini delle discussioni da Washington.
Un aspetto peculiare di questa crisi triangolare riguarda il settore automobilistico, come evidenzia il Financial Times in un’analisi approfondita. Dopo decenni in cui i costruttori europei, in particolare tedeschi, hanno dominato tecnologicamente il settore, oggi assistiamo a un’inversione di tendenza: aziende come Volkswagen, Mercedes-Benz e BMW stanno stringendo accordi con concorrenti cinesi per evitare di perdere terreno nei settori chiave – software, batterie e sistemi per veicoli autonomi – che determineranno il futuro dell’industria automobilistica. L’UE, in un ‘piano d’azione’ per l’industria pubblicato il mese scorso, sta cercando di imporre alle aziende cinesi che vogliono entrare nel mercato automobilistico europeo di creare joint venture con aziende europee o concedere in licenza parti della loro tecnologia – utilizzando, ironicamente, gli stessi strumenti che la Cina ha impiegato per decenni al fine di acquisire know-how dalle aziende occidentali.
In questo triangolo di potere, nessuna delle parti è in grado di trovare soluzioni ai problemi strutturali dell’economia globale. Stati Uniti, Unione Europea e Cina si accusano reciprocamente, ma condividono la responsabilità di un sistema economico sempre più instabile. I dazi di Trump, le sovraccapacità cinesi e l’ambiguità europea sono sintomi di una crisi più profonda che nessuna delle leadership attuali sembra in grado di affrontare. Mentre i leader politici si affannano in visite diplomatiche e dichiarazioni roboanti, le tensioni commerciali, la competizione per le risorse e i nodi irrisolti della cosiddetta globalizzazione continuano ad accumularsi.

*articolo apparso sul blog substack.com il 14 aprile 2025.

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