Sono ormai almeno due decenni che la logica privatistica e commerciale domina la gestione delle ex-regie federali. Una logica che va al di là della questione della proprietà delle aziende, che — seppur ancora formalmente in mano, maggioritariamente o totalmente, alla Confederazione — vengono gestite con una mentalità aziendale e orientata al profitto come poche altre in Svizzera. Approvata da praticamente tutto l’arco istituzionale federale, questa gestione mira inoltre a far quadrare i bilanci della Confederazione, smantellando parte dei servizi offerti, caricando sulla collettività gli oneri degli investimenti e privatizzando i profitti. FFS è stata forse l’allieva più diligente da questo punto di vista, scorporando dapprima la divisione Infrastruttura (che detiene terreni molto lucrativi accanto ai binari e nei centri urbani), quella Viaggiatori (giustamente sovvenzionata, in quanto ancora considerata un servizio pubblico), e infine FFS Cargo. Quest’ultima è stata poi suddivisa in FFS Cargo International (che gode della redditività dei traffici di transito internazionali) e FFS Cargo Svizzera, votata al trasporto merci interno al Paese. Un trasporto che rappresenta l’80% del traffico merci nazionale, di cui solo il 10% avviene su rotaia.
L’autofinanziamento: una condanna a morte
Ora una maggioranza politica vorrebbe che FFS Cargo Svizzera fosse autosufficiente, se non addirittura redditizia; le direzioni sindacali (SEV e VSLF in testa) contestano — per il momento, purtroppo solo a parole — questa impostazione, poiché il trasporto merci su rotaia, alle condizioni attuali, non può essere competitivo rispetto al trasporto su strada.
Quest’ultimo, infatti, ha potuto svilupparsi in modo concorrenziale attuando un vero e proprio dumping salariale, ad esempio impiegando autisti di camion dell’Europa dell’Est sottopagati, e beneficiando di un aumento del tonnellaggio massimo a 40 tonnellate per camion (e si discute già di camion da 60 tonnellate).
L’unica leva di cui dispone una politica pubblica in questo mercato liberalizzato è la tassa sul traffico pesante, che tuttavia da vent’anni non viene adeguata all’inflazione, né tiene conto dei costi esterni causati dal traffico stradale (ingorghi, impatto ambientale, effetti sulla salute, ecc.). Un suo adeguamento ridurrebbe la competitività del trasporto stradale e aumenterebbe i fondi per sostenere ed estendere quello ferroviario. Sarebbe questa l’unica strada per dare effettivo seguito alla volontà popolare espressa tramite l’Iniziativa delle Alpi: invece, questo treno — per restare in tema — è stato perso.
Anzi, recentemente il Consiglio degli Stati ha eliminato il finanziamento al traffico merci interno dalla nuova Legge federale concernente il trasporto di merci, aderendo alle pressioni proprio delle FFS e di Economiesuisse. Si è preferito chiedere a FFS Cargo di risparmiare 60 milioni di franchi entro i prossimi tre anni.
Una chiara politica neoliberista
Non sorprende che il capo del Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni, da quando è in carica, abbia operato per anteporre la sostenibilità finanziaria alla volontà popolare, trovando un terreno fertile preparato dalle politiche degli anni precedenti.
Tenendo alta la bandiera climatoscettica e neoliberale del suo partito, Albert Rösti — con l’accordo, a quanto pare, di tutto il Consiglio federale — dal 2022 ha invertito la tendenza che aveva portato a un avvicinamento al limite massimo di 650’000 camion attraverso le Alpi.
Se FFS Cargo aveva tolto nel 2019 un milione di camion dalle strade, portando i transiti stradali al minimo storico di 863’000, oggi siamo tornati a sfiorare il milione di camion nei valichi transalpini, e le ultime scelte dirigenziali di FFS Cargo promettono ulteriori aumenti.
Il progetto G-Enesis di FFS Cargo prevede l’eliminazione di 80 posti di lavoro all’anno, tra personale operativo e amministrativo, da qui al 2030. Una strategia suicidaria che approfitta di un periodo di scarsa domanda per smantellare, preparando il terreno ad ulteriori esternalizzazioni di servizi (benedetti allora i nuovi Accordi Bilaterali con l’UE), qualora la situazione economica dovesse tornare favorevole al settore. Il tutto porterà a una ulteriore perdita di controllo pubblico sul traffico nazionale e sull’applicazione del tetto ai camion transalpini voluto dal popolo.
Il ritiro di FFS, BLS e Hupac dal progetto dell’autostrada viaggiante — unico sistema per trasportare su ferrovia container “non gruabili”, ovvero interi camion con autista a bordo — riverserà sulle nostre strade 80’000 camion in più ogni anno.
Una logica che contrasta persino con le decisioni del Parlamento federale, che nell’ottobre 2024 aveva stanziato un credito di 100 milioni per mantenere il servizio almeno fino al 2028. Ma l’impietoso freno al disavanzo tedesco ha comportato tagli ingenti alla manutenzione delle sue infrastrutture ferroviarie, generando ritardi e soppressioni che i clienti non sono più disposti a tollerare.
Un’altra recente decisione è la chiusura dei terminal intermodali svizzeri che permettevano il trasferimento di merci tra camion e treni. Degli otto terminal in chiusura, due sono in Ticino: Cadenazzo e Vedeggio.
Nel nostro cantone, rimarranno attivi solo Chiasso Smistamento — piccolo e senza prospettive di ampliamento — e Stabio, guarda caso l’unico in mano privata, poiché di proprietà della Punto Franco SA (famiglia Masoni). La chiusura di Cadenazzo e Vedeggio comporterà la perdita irrecuperabile di 50 posti di lavoro e il riversamento di altri 20’000 camion sull’asse del Gottardo.
Sconcertante il caso di Cadenazzo, recentemente oggetto di importanti investimenti in macchinari e infrastrutture, che sarà verosimilmente venduto a una o più aziende private, sulle quali la Confederazione non avrà alcun controllo.
Una perfetta strategia politica: prima grandi investimenti pubblici (negli scorsi decenni, decine di miliardi di franchi a carico della collettività), poi politiche di smantellamento (licenziamenti, soppressione di posti di lavoro), infine esternalizzazioni e nuovi sussidi fino all’80% degli investimenti in partenariati pubblico-privato, privatizzando però i profitti.
Un quadro ideale per le aziende private, che possono offrire condizioni contrattuali più concorrenziali rispetto a FFS. La liberalizzazione delle regie federali continua, per la felicità degli ambienti economici vicini al nostro “ministro dei trasporti”, e a discapito di lavoratori, cittadinanza, ambiente e in dispregio della volontà popolare.
Le alternative
Tutto questo non è inevitabile: è frutto di scelte politiche precise. Esistono alternative praticabili.
Nel 2029, ad esempio, vi sarà l’occasione per aggiornare la tassa sul traffico pesante: sarebbe possibile adeguarla sia all’inflazione sia ai costi infrastrutturali, ambientali e sanitari finora mai contabilizzati. Questo permetterebbe di aumentare la competitività del traffico su rotaia e garantire maggiori entrate per investimenti nel settore.
Inoltre, il trasporto merci su ferrovia dovrebbe essere considerato un servizio pubblico al pari di quello viaggiatori, proprio per i benefici che apporta alla collettività nel trasferire centinaia di migliaia di camion dalla strada alla rotaia.
Il governo e la classe politica stanno a guardare
Per un cantone come il Ticino, questa strategia delle FFS comporta danni chiari e diretti:
- perdita di posti di lavoro qualificati e con condizioni ancora accettabili;
- riversamento di ulteriori decine di migliaia di camion sulle nostre strade;
- rischio di trasferimento su strada anche delle merci pericolose;
- riduzione della sicurezza autostradale, aggravando l’onere per il Centro di controllo veicoli pesanti di Giornico.
Ma, come già successo per la Posta, il governo sembra voler ripetere il solito copione: incontri formali cui segue… la comprensione per le decisioni delle FFS. Un atteggiamento di sudditanza che, negli anni, ha portato a un progressivo indebolimento della presenza delle FFS sul territorio cantonale.
E non sarà certo la possibilità, dopo 16 anni di richieste, di rimanere a bordo di un InterCity fino a Chiasso (anziché trasferirlo come materiale vuoto) a smentire un dato di fatto che tutti vedono e subiscono.
Si pensi alla politica passeggeri di TILO, oggetto di continue critiche per l’insufficiente capienza in diversi momenti della giornata: magari, tra qualche tempo, si celebrerà amaramente l’introduzione dei treni viaggiatori notturni, dimenticando che quei treni viaggeranno sulle tracce liberate da quelli merci.
E che dire della vicenda delle nuove Officine, costantemente evocate dalle FFS come unica dimostrazione della volontà di “investire in Ticino”? Non solo i costi attuali sono raddoppiati (siamo vicini agli 800 milioni, con il rischio di sfiorare il miliardo), ma alla fine il progetto offrirà solo 350 posti di lavoro: quasi 200 in meno rispetto a quelli oggi garantiti dalle strutture di manutenzione che confluiranno nel nuovo impianto.
Un miliardo per 200 posti di lavoro in meno: bel risultato! Poco importa che il Cantone pagherà “solo” i 100 milioni previsti e la città 20 milioni: la politica di risparmio delle FFS la pagherà, e la pagherà a caro prezzo, la collettività ticinese, subendo tagli come quelli a FFS Cargo, un peggioramento della qualità del servizio e — non da ultimo — l’aumento delle tariffe, che in una regione a redditi bassi pesa ben più di quanto dicano le percentuali annunciate.
Dire NO con decisione, organizzare la lotta
Di fronte a tutto questo, sembra che le direzioni sindacali vogliano soprattutto costruire, sulla base di alleanze con partiti e associazioni — in particolare ambientaliste — una sorta di opposizione “societale”.
Mettere cioè al centro la questione del trasporto merci, della sua evoluzione e della sua incidenza su traffico e ambiente. Costruire su questa base un’alleanza capace di fare pressione sul quadro politico per ottenere modifiche alle decisioni in atto.
Si tratta certamente di un passo positivo, ma che — se limitato all’ambito politico istituzionale — rischia di produrre scarsi risultati, poiché non esercita una pressione reale sulla logica aziendalistica delle FFS.
È quindi necessario riflettere su una strategia di mobilitazione sindacale che, dai luoghi di lavoro, eserciti una pressione diretta sull’azienda. In questo senso, è fondamentale ribadire il NO ai licenziamenti e avviare una discussione con i lavoratori di Cargo in Ticino per organizzare forme di lotta diretta, fino allo sciopero.
Solo una prospettiva di questo genere potrà dare forza anche alla mobilitazione istituzionale e ottenere risultati concreti.
Non ci pare, allo stato attuale, che le direzioni sindacali vogliano intraprendere questa strada. Ed è proprio questo un limite che rischia di pesare in modo determinante sull’esito di qualsiasi trattativa.
Cambiare paradigma si può e si deve, per evitare di accumulare un’altra sconfitta.
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